da Marx-Engels, Opere
Complete, vol. 25, Dialettica della natura, Editori Riuniti, Roma, 1974, pp..
458-470
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Friedrich Engels
Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione
della scimmia
1876, pubblicato in «Die Neue Zeit» nel 1896 (1)
Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, dicono gli studiosi di economia
politica. Lo è, accanto alla natura, che offre al lavoro la materia greggia che
esso trasforma in ricchezza. Ma il lavoro è ancora infinitamente più di ciò. E'
la prima, fondamentale condizione di tutta la vita umana; e lo è invero a tal
punto, che noi possiamo dire in un certo senso: il lavoro ha creato lo stesso
uomo.
Centinaia di migliaia di anni fa, in una fase ancora non precisabile di
quell'era che i geologi chiamano terziaria, probabilmente verso la sua fine,
viveva in una qualche parte della zona torrida - verosimilmente su di un grande
continente ora sprofondato nell'Oceano Indiano - una famiglia di scimmie antropomorfe
giunta a uno stadio particolarmente alto di sviluppo. Darwin ci ha dato una
descrizione approssimativa di questi nostri antenati. Erano estremamente
pelosi, avevano la barba, le orecchie appuntite, e vivevano in branchi sugli
alberi.(2)
A motivo anzitutto del loro modo di vivere (l'arrampicarsi porta a un impiego
delle mani diverso da quello dei piedi) queste scimmie cominciarono a perdere
l'abitudine di aiutarsi con le mani quando procedevano su terreno piano e ad
assumere sempre più la posizione eretta. Con ciò era fatto il passo decisivo per il trapasso dalla scimmia all'uomo.
Tutte le scimmie antropomorfe ancora viventi possono stare ritte e muoversi
facendo uso solo dei due piedi. Ma solo in caso di necessità e in modo
estremamente impacciato. Il loro modo naturale di camminare è in posizione
semieretta e comporta l'impiego delle mani. La maggior parte di esse appoggia
le articolazioni del polso sul terreno e fa oscillare il corpo, con le gambe
contratte, tra le lunghe braccia. Proprio come uno storpio, che cammini con le
grucce. In generale, possiamo osservare ancor oggi nelle scimmie tutti i
gradini di passaggio dall'andare a quattro zampe fino al camminare sui due
piedi. Ma quest'ultimo modo di procedere, in tutte le specie di scimmie, non
arriva mai ad essere più che un mezzo accessorio in caso di bisogno.
Se il camminare eretti divenne per i nostri villosi antenati dapprima regola e
col tempo una assoluta necessità, ciò vuol dire che alle mani spettarono
frattanto attività di natura via via sempre più diversa dall'originaria. Anche
tra le scimmie regna una certa divisione di compiti nell' impiego della mano e
del piede. Come si è già accennato, nell'arrampicarsi la mano viene usata in
modo diverso dal piede. Essa viene usata di preferenza per cogliere il cibo e
tenerlo fermo; cosa che accade già nel caso di mammiferi inferiori per le zampe
anteriori. Con le mani, molte scimmie si costruiscono nidi sugli alberi o
addirittura, come lo scimpanzé, tettoie tra i rami per ripararsi dai temporali.
Con le mani afferrano randelli per difendersi dai loro nemici, o pietre e
frutta per bombardarli. Con esse compiono in prigionia tutta una serie di
piccole operazioni imitando gli uomini. Ma proprio in quest'ultimo caso si vede
quanto è grande la differenza tra la mano non sviluppata della scimmia, anche
della più simile all'uomo, e la mano dell'uomo altamente perfezionata dal
lavoro di centinaia di migliaia di anni. Il numero delle articolazioni e dei
muscoli, la loro disposizione generale sono, nei due casi, gli stessi; ma la
mano del selvaggio più arretrato può compiere centinaia di operazioni che
nessuna scimmia riesce ad imitare. Nessuna mano di scimmia ha mai prodotto il
più rozzo coltello di pietra.
Perciò le operazioni alle quali i nostri antenati impararono ad abituare la
loro mano, a poco a poco, nel corso di molti millenni, non possono essere state
all'inizio se non molto semplici. I selvaggi più arretrati, anche quelli nei
quali c'è da supporre una ricaduta nello stato più propriamente animale con
contemporanea involuzione dell'organismo, sono sempre a un livello molto
superiore a quello di quegli esseri di transizione. Perché si arrivasse al
momento in cui il primo ciottolo fu lavorato dalla mano dell'uomo fino ad essere
trasformato in coltello, possono essere trascorse epoche di lunghezza tale che
al confronto l'epoca storica a noi nota può apparire insignificante. Ma il
passo decisivo era compiuto: la mano
era diventata autonoma e poteva ora acquistare una crescente destrezza:
la maggiore scioltezza così acquistata si trasmise e si accrebbe di generazione
in generazione.
La mano non è quindi soltanto l'organo del lavoro: è anche il suo prodotto. La mano dell'uomo ha raggiunto
quell'alto grado di perfezione, sulla base del quale ha potuto compiere i
miracoli dei dipinti di Raffaello, delle statue di Thorwaldsen, della musica di
Paganini, solo attraverso il lavoro: attraverso l'abitudine a sempre nuove
operazioni, attraverso la trasmissione ereditaria del particolare sviluppo dei
muscoli, dei tendini, e, a più lungo andare, anche delle articolazioni, per
questa via acquisito: attraverso la sempre rinnovata elaborazione dei
perfezionamenti così ereditati per mezzo di nuove, e sempre più complicate,
operazioni.
Ma la mano non era isolata. Essa era soltanto un singolo membro di un organismo
completo, estremamente complesso. E ciò che era acquisito per la mano, era
acquisito anche per tutto il corpo, al servizio del quale la mano lavorava, e
invero in duplice modo.
In primo luogo, come conseguenza della legge che Darwin ha chiamato di
correlazione dello sviluppo. Secondo questa legge, determinate forme di singole
parti di un essere organico sono sempre collegate a certe forme di altre parti,
che non hanno apparentemente alcun rapporto con le prime. Tutti gli animali,
per esempio, che possiedono globuli rossi senza nucleo e il cui occipite è
collegato alle prime vertebre dorsali mediante due articolazioni (i condili),
hanno anche, senza eccezione, ghiandole mammarie per l'allattamento dei
piccoli. E così, nei mammiferi, zoccoli bifidi sono regolarmente legati a uno
stomaco plurimo per la ruminazione. Modificazioni di determinate forme portano
con sé modificazioni della forma di altre parti del corpo, senza che noi siamo
in grado di spiegare tale rapporto. Gatti completamente bianchi con occhi
azzurri sono sempre, o con pochissime eccezioni, sordi. Il graduale
raffinamento della mano umana e il parallelo sviluppo del piede per la
necessità del cammino in posizione eretta hanno indubbiamente agito di riflesso
su altre parti del corpo anche a causa di simili correlazioni. Ma una tale
influenza è stata studiata ancora troppo poco, per poter qui andare al di là di
una semplice constatazione della sua esistenza.
Molto più importante è la reazione diretta, dimostrabile, dello sviluppo della
mano sul resto dell'organismo. Come abbiamo già detto, i nostri antenati
scimmieschi erano socievoli; è evidentemente impossibile far discendere l'uomo,
il più socievole di tutti gli animali, da un progenitore prossimo non
socievole. Il dominio sulla natura iniziatosi con lo sviluppo della mano, con
il lavoro, ampliò, ad ogni passo in avanti che veniva fatto, l'orizzonte
dell'uomo. Egli andava scoprendo, di continuo, nuove proprietà, fino ad allora
sconosciute, nelle cose della natura. D'altro lato, lo sviluppo del lavoro ebbe
come necessaria conseguenza quella di avvicinare di più tra loro i membri della
società, aumentando le occasioni in cui era necessario l'aiuto reciproco, la
collaborazione, rendendo chiara a ogni singolo membro l'utilità di una tale
collaborazione. Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi. Il
bisogno sviluppò l'organo ad esso necessario: le corde vocali, non sviluppate,
della scimmia, si andarono affinando, lentamente ma sicuramente, abituandosi a
una modulazione sempre più accentuata; la bocca e gli organi vocali impararono
a poco a poco a emettere una sillaba articolata dopo l'altra.
Il paragone con le bestie dimostra che questa spiegazione della nascita del
linguaggio dal lavoro e con il lavoro è l'unica giusta. Quel poco che le
bestie, anche le più sviluppate, hanno da comunicarsi se lo possono comunicare
anche senza linguaggio articolato. Nessuna bestia allo stato di natura sente
come una mancanza il fatto di non parlare o di non poter comprendere il
linguaggio umano. Le cose stanno in modo del tutto diverso per le bestie che
sono state addomesticate dall'uomo. Nella consuetudine con l'uomo, il cane ed
il cavallo hanno fatto talmente l'orecchio al linguaggio articolato da poter
comprendere facilmente qualsiasi lingua, nei limiti delle idee ad essi
accessibili. Hanno inoltre acquistato la capacità di provare dei sentimenti,
che prima erano ad essi estranei: come l'attaccamento all'uomo, la riconoscenza
ecc. Chi ha avuto consuetudine con queste bestie non si sottrae facilmente
all'idea che ci siano parecchi casi nei quali esse, adesso, sentono come una mancanza la loro incapacità di
parlare; mancanza alla quale certo non si può più purtroppo portare un rimedio
perché i loro organi vocali si sono ormai troppo nettamente differenziati in
una ben determinata direzione. Ma là dove esiste un organo adatto, anche una
tale incapacità viene a cadere, entro certi limiti.
Gli organi vocali degli uccelli son certo diversi quanto è possibile
immaginarlo da quelli umani, e tuttavia gli uccelli sono le sole bestie che
imparino a parlare. L'uccello che ha la voce più sgradevole, il pappagallo, è
quello che parla meglio. Non si dica che egli non comprende quello che dice.
Senza dubbio, ripeterà ciarliero tutto il suo patrimonio di parole per ore ed
ore, per il semplice gusto di parlare e per il fatto che sta in compagnia di
uomini. Ma entro i limiti delle cose che comprende può imparare anche a capire
quello che dice. Si insegnino a un pappagallo delle ingiurie, in modo che si
faccia una idea del loro significato (è uno dei sommi piaceri dei marinai che
tornano veleggiando dai paesi tropicali); lo si stuzzichi, e si vedrà ben
presto che sa far uso dei suoi insulti non meno appropriatamente di
un'erbivendola berlinese. Lo stesso si dice per quel che riguarda la richiesta
di leccornie.
In primo luogo il lavoro, dopo di esso e con esso il linguaggio: ecco i due
stimoli più essenziali sotto la cui influenza il cervello di una scimmia si è
trasformato gradualmente in un cervello umano, molto più grande e perfetto
secondo ogni verosimile ipotesi. Al perfezionamento del cervello si accompagnò
però di pari passo il perfezionamento dei suoi strumenti più immediati: gli organi
sensoriali. Come il graduale sviluppo del linguaggio è necessariamente
accompagnato da un corrispondente affinamento dell'organo dell'udito, così più
in generale lo sviluppo del cervello è accompagnato da quello di tutti i sensi.
L'aquila vede molto più lontano dell'uomo, ma l'occhio dell'uomo scorge molto
di più nelle cose che non quello dell'aquila. Il cane ha narici assai più
penetranti dell'uomo, ma non distingue fra di loro la centesima parte degli
odori che per l'uomo sono ben determinati indici di cose differenti. E il
tatto, che nella scimmia esiste solo al suo più grezzo stato iniziale, si è
andato formando solo con la formazione della mano umana, attraverso il lavoro.
Lo sviluppo del cervello e dei sensi al suo servizio, della coscienza che si
andava facendo vieppiù chiara, della capacità di astrarre e di ragionare,
esercitò di rimando la sua influenza sul lavoro e sul linguaggio, dando ad
entrambi un nuovo impulso per un ulteriore sviluppo. Questo ulteriore sviluppo
non arrivò davvero a una definitiva conclusione quando l'uomo arrivò a
distinguersi in modo definitivo dalla scimmia. Tale sviluppo invece, nelle
linee generali, è proseguito possente; certo in misura diversa a seconda dei
popoli e delle epoche, qua e là perfino interrompendosi e subendo delle
involuzioni in un dato posto e in una data epoca. Esso fu da un lato
potentemente stimolato, dall'altro indirizzato in un senso determinato da un
nuovo elemento che compare quando l'uomo diviene veramente tale: la società.
Sono certamente trascorsi centinaia di migliaia di anni (non più, per la storia
della terra, di quel che sia un secondo per la vita umana *)
prima che dai branchi di scimmie arrampicatrici venisse fuori una società di
uomini. Ma alla fine essa si trovò formata. E qual è la differenza che noi
troviamo ancora una volta come differenza caratteristica tra il branco di
scimmie e la tribù di uomini? Il
lavoro. Il branco di scimmie si limitava a devastare il proprio
territorio di pascolo, quel territorio i cui limiti erano segnati o dalla
posizione geografica o dalla resistenza di un branco confinante. Il branco
intraprendeva sì migrazioni e battaglie, per conquistare nuovo terreno di
pascolo, ma era incapace di trar fuori dal suo territorio di pascolo più di
quel che la natura stessa offriva (a prescindere dal fatto che
inconsapevolmente lo concimava con i suoi escrementi).
Una volta che tutti i possibili territori di pascolo erano stati occupati non
poteva più aver luogo nessun incremento della popolazione delle scimmie; il
numero delle bestie poteva tutt'al più mantenersi costante. Ma presso tutte le
bestie ha luogo, in misura elevata, lo spreco del nutrimento, e con esso
l'uccisione in germe del nuovo nutrimento. Il lupo non risparmia, come fa il
cacciatore, la femmina del capriolo, che gli deve fornire nel prossimo anno i
piccoli. Le capre di Grecia, distruggendo con il loro pascolare i piccoli
arbusti all'inizio della loro crescita, hanno spogliato di vegetazione tutti i
monti del paese. Questa "depredazione" propria delle bestie riveste
un importante ruolo nella graduale trasformazione delle specie animali, in
quanto le costringe ad assuefarsi a un nutrimento diverso dal loro abituale:
con ciò nuovi composti chimici entrano nel loro sangue, e tutta la costituzione
dell'organismo si altera a poco a poco, finché si estinguono le vecchie specie
nelle forme in cui si erano una volta fissate.
Non v'è dubbio che tale depredazione ha potentemente contribuito
all'umanizzazione dei nostri antenati. Una razza di scimmie, molto più avanti
di tutte le altre per intelligenza e capacità di adattamento, dovette essere
portata da questa depredazione ad allargare sempre di più il numero delle
piante per il suo nutrimento, a scegliere di queste piante sempre di più le parti
adatte alla nutrizione di modo che, insomma, il nutrimento divenne sempre più
vario e più varie con esso le sostanze immesse nell'organismo, i presupposti
chimici dell'umanizzazione. Tutto ciò non era però ancora vero e proprio
lavoro.
Il lavoro comincia con la preparazione di strumenti. E quali sono gli strumenti
più antichi, quelli che ritroviamo per primi? Quelli che dobbiamo ritenere come
i più antichi, stando a ciò che è stato scoperto del patrimonio degli uomini
preistorici, e stando a ciò che ci dice tanto il modo di vivere dei primi
popoli di cui ci tramanda notizia la storia, che il modo di vivere attuale dei
selvaggi più arretrati? Sono strumenti per la caccia e per la pesca: i primi,
al tempo stesso, armi.
Ma la caccia e la pesca presuppongono il passaggio dall'alimentazione puramente
vegetale al gusto della carne: e questo è un altro passo essenziale nel
processo di umanizzazione. L'alimentazione
carnea conteneva, quasi bell'e pronte, le sostanze più essenziali
delle quali l'organismo ha bisogno per rinnovare i suoi tessuti; abbreviò i
tempi della digestione e con essa di tutti gli altri processi vegetativi
dell'organismo, cioè di quei processi che hanno il loro corrispondente nel
regno vegetale; e portò con ciò un acquisto di tempo, di sostanze, di energia,
per l'attivazione della vita più propriamente animale. E quanto più l'uomo in
divenire si allontanava dalla pianta, tanto più si elevava anche al disopra
della bestia.
Come l'abitudine al cibo vegetale, accanto alla carne, ha trasformato il cane e
il gatto selvaggio in servitori dell'uomo, così l'assuefazione alla carne come
cibo, accanto ai vegetali, ha contribuito a dare all'uomo in divenire forza
fisica e indipendenza. Ma la nutrizione carnea esercitò la sua influenza più
importante sul cervello, al quale pervenivano, in copia molto maggiore di
prima, le sostanze necessarie per il suo nutrimento e per il suo sviluppo, e
che si poté quindi sviluppare in modo più rapido e più completo di generazione
in generazione. Col permesso dei signori vegetariani, l'uomo non si sarebbe
formato senza alimentazione carnea; e se è pur vero che l'alimentazione carnea
ha prima o poi, per un certo periodo, condotto tutti i popoli a noi conosciuti
all'antropofagia (gli antenati dei berlinesi, i Veletabi o Velsi, mangiavano i
loro genitori ancora nel X secolo) (4) la cosa ormai non ci
tocca più.
L' alimentazione carnea portò a due nuovi progressi di importanza decisiva:
l'uomo imparò a servirsi del fuoco e ad addomesticare le bestie. Il primo fatto
abbreviò ancor di più il processo digestivo, portando alla bocca un cibo,
potremmo dire, già per metà digerito; il secondo fatto rese più abbondante
l'alimentazione carnea, aprendo, accanto alla caccia, una nuova regolare forma
di rifornimento, e procurò inoltre, con il latte e i suoi prodotti, un nuovo
nutrimento di valore certo non inferiore alla carne per composizione. I due
fatti divennero così, già in modo diretto, nuovi mezzi di emancipazione per
l'uomo; ci porterebbe ora troppo lontano il soffermarci nei dettagli sulla loro
influenza indiretta, per quanto importante essa sia stata per lo sviluppo
dell'uomo e della società.
L'uomo imparò a vivere sotto ogni clima, così come imparò a mangiare tutto ciò
che era commestibile. L'uomo, l'unico animale che possedesse in sé la compiuta
capacità di farlo, si espanse su tutta la terra abitabile. Gli altri animali
che si sono assuefatti ad ogni clima - gli animali domestici e gli insetti - lo
hanno fatto non da soli, con i propri mezzi, ma al seguito dell'uomo. Il
passaggio dal clima uniformemente caldo della patria d'origine a quello di
regioni più fredde, nelle quali l'anno si divideva in estate e inverno, creò
nuovi bisogni: abitazione e vestiario per proteggersi dal freddo e
dall'umidità. Nuovi campi di lavoro e con essi nuove attività, che
allontanarono sempre di più l'uomo dall'animale.
Per l'azione congiunta della mano, degli organi vocali e del cervello, che
esercitò la sua influenza non soltanto su ogni singolo individuo, ma anche
sulla società, gli uomini divennero capaci di compiere operazioni sempre più
complicate, di proporsi mete sempre più elevate e di raggiungerle. Il lavoro
stesso, col passare delle generazioni, divenne altra cosa: divenne più
completo, più multiforme.
Alla caccia e alla pesca seguì l'agricoltura, a quest'ultima la filatura e la
tessitura, la lavorazione dei metalli, la ceramica, la navigazione. Insieme al
commercio e all'industria comparvero infine l'arte e la scienza; dalle tribù
vennero fuori le nazioni e gli stati. Si svilupparono il diritto e la politica,
e con essi si sviluppò il riflesso fantastico delle cose umane nella mente
umana: la religione. Di fronte a tutte queste creazioni, che si presentavano
come prodotti diretti della mente e che sembravano dominare le società umane, i
più modesti prodotti del lavoro manuale furono relegati in un secondo piano;
tanto più che la mente organizzatrice del lavoro poté far eseguire da mani che
non erano le proprie il lavoro ideato, e ciò sin dai primissimi stadi dello sviluppo
sociale (per es., già nella famiglia semplice).
Tutto il merito dei rapidi progressi della civiltà venne attribuito alla mente,
allo sviluppo e all'attività del cervello; gli uomini si abituarono a spiegare
la loro attività con il loro pensiero invece che con i loro bisogni (che senza
dubbio nel cervello si riflettono, e giungono alla coscienza). Sorse così, col
tempo, quella concezione idealistica della vita, che ha dominato le menti sin
dalla fine della civiltà antica. Essa è ancora tanto dominante, che persino gli
scienziati materialisti della scuola darwinista non riescono ancora a farsi
un'idea chiara delle origini dell'uomo, perché, essendo ancora sotto l'influsso
ideologico dell'idealismo non riconoscono la funzione che ha avuto il lavoro in
quel processo.
Come si è già accennato, anche gli animali, proprio come l'uomo, seppure non
nella stessa misura, modificano con la loro attività la natura che li circonda.
E le modificazioni da essi apportate all'ambiente reagiscono a loro volta, come
abbiamo visto, su quegli animali stessi che ne sono stata la causa. Poiché
nella natura non esistono avvenimenti isolati. Ogni fatto agisce sull'altro e
viceversa. Il più delle volte, è proprio la dimenticanza di questo movimento in
tutte le direzioni, di questa azione mutua, che impedisce ai nostri scienziati
di veder chiaro nei più semplici fenomeni.
Abbiamo osservato come le capre abbiano impedito il rimboschimento della
Grecia; le capre e i maiali sbarcati a Sant'Elena dai primi naviganti che vi
approdarono hanno quasi portato a termine la loro opera di distruzione
dell'antica vegetazione e hanno così preparato il terreno adatto all'espansione
delle piante portate più tardi da nuovi navigatori e da colonizzatori. Ma se
gli animali esercitano un'influenza duratura sull'ambiente in cui vivono, la
cosa avviene senza alcuna intenzione ed è, per gli animali stessi, qualcosa di
casuale.
Quanto più però l'uomo si allontana dall'animale, tanto più la sua influenza
sulla natura assume l'aspetto di attività premeditata, svolta secondo un piano
indirizzato a ben determinati scopi, anticipatamente noti. L'animale distrugge
la vegetazione di una regione senza sapere quello che fa. L'uomo la distrugge
per seminare sul terreno così sgombrato e per piantarvi alberi e viti, e sa che
egli riavrà la semente moltiplicata. Egli trasferisce da una regione all'altra
piante utili e animali domestici, e modifica così la flora e la fauna di interi
continenti. Ma v'è di più. Con l'allevamento, ad arte, tanto le piante che gli
animali vengono modificati in modo tale dalla mano dell'uomo, da divenire
irriconoscibili. Le piante selvagge, dalle quali discende la varietà del nostro
grano, si cercano ancora invano. E' ancor sempre in discussione da quali bestie
selvagge derivino i nostri cani, che tante differenze hanno tra loro stessi, o
le nostre altrettanto varie razze di cavalli.
E' del resto ovvio che a noi non viene in mente di contestare agli animali la
capacità di agire secondo un piano, premeditatamente. Al contrario. Attività
orientata secondo un piano esiste già, in germe, dovunque protoplasma, albume
vivente, esiste e reagisce: compie cioè dei movimenti, sia pur semplici, in
conseguenza di determinati stimoli esterni. Tali reazioni hanno luogo là dove
ancora non ci sono addirittura cellule, per non parlare di cellule nervose. Il
modo in cui le piante che divorano insetti afferrano la loro preda appare sotto
un certo aspetto come un'azione predisposta secondo un piano, per quanto del
tutto inconsapevole. Negli animali, nella misura in cui si sviluppa il sistema
nervoso, si sviluppa la capacità di un'azione preordinata e cosciente, capacità
che raggiunge già un alto livello nei mammiferi.
Nella "caccia alla volpe" inglese si può osservare ogni giorno con
quanta precisione la volpe sappia impiegare la sua grande conoscenza dei
luoghi, per sfuggire ai suoi persecutori, e quanto ben conosca e utilizzi tutte
le particolarità del terreno atte a interrompere la traccia. Nel caso dei
nostri animali domestici più altamente sviluppatisi nella consuetudine con
l'uomo, possiamo osservare ogni giorno atti di scaltrezza che stanno
assolutamente allo stesso livello di quelli che fanno i piccoli dell'uomo.
Poiché, come la storia dello sviluppo del seme umano nel grembo materno non
rappresenta altro che un'abbreviata ripetizione della storia dello sviluppo,
lunga milioni di anni, degli organismi degli animali nostri antenati, a partire
dai vermi, così lo sviluppo spirituale del piccolo dell'uomo non rappresenta
che una ripetizione, solo ancor più abbreviata, dello sviluppo intellettuale di
quegli antenati, perlomeno dei più recenti. Ma nessuna preordinata azione di
nessun animale è riuscita a imprimere sulla terra il sigillo della sua volontà.
Ciò doveva essere proprio dell'uomo.
Insomma, l'animale si limita a usufruire
della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza;
l'uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola: la domina. Questa è l'ultima,
essenziale differenza tra l'uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il
lavoro che opera questa differenza.(**)
Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La
natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima
istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e
terza istanza ha effetti del tutto diversi, impreveduti, che troppo spesso
annullano a loro volta le prime conseguenze. Le popolazioni che sradicavano i
boschi in Mesopotamia, in Grecia, nell'Asia Minore e in altre regioni per
procurarsi terreno coltivabile, non pensavano che così facendo creavano le
condizioni per l'attuale desolazione di quelle regioni, in quanto sottraevano
ad esse, estirpando i boschi, i centri di raccolta e i depositi dell'umidità. (5)
Gli italiani della regione alpina, nel consumare sul versante sud gli abeti
così gelosamente protetti al versante nord non presentivano affatto che, così
facendo, scavavano la fossa all'industria pastorizia sul loro territorio; e
ancor meno immaginavano di sottrarre, in questo modo, alle loro sorgenti alpine
per la maggior parte dell'anno quell'acqua che tanto più impetuosamente quindi
si sarebbe precipitata in torrenti al piano durante l'epoca delle piogge.
Coloro che diffusero in Europa la coltivazione della patata, non sapevano di
diffondere la scrofola assieme al bulbo farinoso.
Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un
conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come
chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello
e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella
capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue
leggi e di impiegarle in modo più appropriato.
E, in effetti, comprendiamo ogni giorno più esattamente le sue leggi e
conosciamo ogni giorno di più quali sono gli effetti immediati e quelli remoti
del nostro intervento nel corso abituale della natura. In particolare, dopo i
poderosi progressi compiuti dalla scienza in questo secolo, siamo sempre più in
condizione di conoscere, e quindi di imparare a dominare anche gli effetti
naturali più remoti, perlomeno per quello che riguarda le nostre abituali
attività produttive. Ma quanto più ciò accade, tanto più gli uomini non solo
sentiranno, ma anche sapranno, di formare un'unità con la natura, e tanto più
insostenibile si farà il concetto, assurdo e innaturale, di una
contrapposizione tra spirito e materia, tra uomo e natura, tra anima e corpo,
che è penetrato in Europa dopo il crollo del mondo dell'antichità classica e
che ha raggiunto il suo massimo sviluppo nel cristianesimo.
Ma se è stato necessario il lavoro di millenni sol perché noi imparassimo a
calcolare, in una certa misura, gli effetti naturali più remoti della nostra
attività rivolta alla produzione, la cosa si presentava come ancor più
difficile per quanto riguarda i più remoti effetti sociali di tale attività.
Abbiamo citato il caso delle patate e della scrofola, diffusasi col loro
diffondersi. Ma cos'è la scrofola di fronte agli effetti che provocò sulle
condizioni di vita delle masse popolari di interi paesi il fatto che i
lavoratori fossero ridotti a cibarsi di sole patate? Di fronte alla carestia
che colpì l'lrlanda nel 1847 in conseguenza della malattia che distrusse le
patate, e fece finire sotto terra un milione di irlandesi che si nutrivano di
patate e quasi esclusivamente di patate, altri due milioni al di là del mare?
Quando gli arabi impararono a distillare l'alcool non si sognavano neppure di
aver creato la principale tra le armi destinate a cancellare dalla faccia della
terra gli aborigeni della ancor non scoperta America. E quando Colombo scoprì
questa America non sapeva che, così facendo, risvegliava a nuova vita la
schiavitù già da lungo tempo superata in Europa e gettava le basi per il
commercio dei negri.
Gli uomini, che con il loro lavoro produssero la macchina a vapore, tra il
diciassettesimo e il diciottesimo secolo, non avevano affatto il presentimento
di costruire lo strumento che più d'ogni altro era destinato a rivoluzionare la
situazione sociale di tutto il mondo, a procurare in particolare alla
borghesia, in un primo tempo, il predominio sociale e politico, attraverso la
concentrazione della ricchezza nelle mani della minoranza e la totale
espropriazione della stragrande maggioranza, per generare poi tra borghesia e
proletariato una lotta di classe, che può aver fine solo con l'abbattimento
della borghesia e l'abolizione di tutti i contrasti di classe. Ma anche in
questo campo noi riusciamo solo gradualmente ad acquistare una chiara visione
degli effetti sociali mediati, remoti, della nostra attività produttiva,
attraverso una lunga e spesso dura esperienza, e attraverso la raccolta e il vaglio
del materiale storico; e così ci è data la possibilità di dominare e regolare
anche questi effetti.
Ma per realizzare questa regolamentazione, occorre di più che non la sola
conoscenza. Occorre un completo capovolgimento del modo di produzione da noi
seguito fino ad oggi, e con esso di tutto il nostro attuale ordinamento sociale
nel suo complesso.
Tutti i modi di produzione fino ad oggi esistiti si sono sviluppati avendo di
mira i risultati pratici più vicini, più immediati, del lavoro. Le ulteriori
conseguenze manifestantisi solo in un tempo successivo, operanti solo per
graduale accumulazione e ripetizione, rimanevano del tutto trascurate.
L'iniziale proprietà collettiva del suolo corrispondeva da una parte a uno
stadio di sviluppo dell'uomo, che limitava in generale il suo orizzonte alle
cose più vicine, e presupponeva d'altra parte una certa abbondanza di terreno a
disposizione, che consentiva un certo giuoco di fronte ad eventuali cattivi
risultati di quell'economia primitiva di tipo forestale. Esauritasi questa
sovrabbondanza di terreno, si disgregò anche la proprietà collettiva. Ma tutte
le forme superiori di produzione hanno portato alla divisione della popolazione
in diverse classi e con ciò al contrasto tra classi dominanti e classi oppresse;
con ciò però l'interesse della classe dominante diveniva l'elemento che dava
impulso alla produzione, nella misura in cui quest'ultima non si limitava alle
più indispensabili necessità di vita degli oppressi.
Questo processo si è sviluppato, nella maniera più completa nel modo di
produzione capitalistico oggi dominante nell'Europa occidentale. I singoli
capitalisti, che dominano la produzione e lo scambio, possono preoccuparsi solo
degli effetti pratici più immediati della loro attività. Anzi questi stessi
effetti - per quel che concerne l'utilità dell'articolo prodotto o commerciato
- vengono posti completamente in secondo piano: l'unica molla della produzione
diventa il profitto che si può realizzare nella vendita.
La scienza borghese della società, l'economia politica classica, si occupa
soprattutto degli effetti sociali immediatamente visibili dell'attività umana
rivolta alla produzione e allo scambio. Ciò corrisponde completamente
all'organizzazione sociale, di cui essa è l'espressione teorica. In una società
in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto
immediato, possono esser presi in considerazione solo i risultati più vicini,
più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la
merce fabbricata o comprata con l'usuale profittarello e non lo preoccupa
quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per
gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori
spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono
nella cenere concime sufficiente per una generazione di piante di caffè
altamente remunerative. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali
portassero via l'ormai indifeso "humus" e lasciassero dietro di sé solo
nude rocce?
Nell'attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione,
sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più
palpabile risultato. E poi ci si meraviglia ancora che gli effetti più remoti
delle attività rivolte a un dato scopo siano completamente diversi e per lo più
portino allo scopo opposto; che l'armonia tra la domanda e l'offerta si
trasformi nella loro opposizione polare, come mostra l'andamento di ogni ciclo
industriale decennale (e anche la Germania, nel "crac"(6),
ne ha esperimentato un piccolo preludio); ci si meraviglia che la proprietà
privata basata sul lavoro personale porti come necessaria conseguenza del suo
sviluppo alla mancanza di ogni proprietà per i lavoratori, mentre tutti i
possessi si concentrano sempre di più nelle mani di chi non lavora; che [….]
Qui il manoscritto si interrompe.
Note
*) Sir W. Thomson, un'autorità di primo rango in questo senso,
ha calcolato che devono essere trascorsi all'incirca cento milioni di anni dall'epoca in cui la terra è
giunta a un tal punto del suo raffreddamento da permettere la vita su di essa a
piante ed animali.(3)
**) Annotazione a matita in margine al manoscritto: «Nobilitazione»
1) Questo titolo si trova nell'indice della seconda cartella del materiale per
la «Dialettica della natura». In origine l'articolo fu scritto da Engels come
introduzione ad un lavoro più ampio intitolato «Sulle tre forme fondamentali
della servitù». Poi egli cambiò questo titolo in «L'asservimento del
lavoratore. Introduzione». Infine poiché questo lavoro non fu portato a termine
Engels dette alla parte introduttiva già scritta il titolo «Parte avuta dal
lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia», che corrisponde al
contenuto principale del manoscritto. Questo va evidentemente datato al giugno
1876. Il 10 giugno 1876, infatti, W. Liebknecht scrisse tra l'altro a Engels
che aspettava con impazienza per il «Volkstaat» il
promesso lavoro «Sulle tre forme fondamentali della servitù».
Il presente scritto fu pubblicato per la prima volta nel 1896, sulla rivista «Die Neue Zeit». (Ann. XIV, Vol. 2,
pp. 545, 554)
2) Charles Darwin, «The descent of man, end selection in
relation to sex», vol. 1, Londra,
1871, cap. 6: «Sulle parentele e la genealogia dell'uomo».
3) Le ipotesi sulla data dell'origine sulla terra, molto
discordanti, oscillano oggi tra i 2000 e i 5000 milioni di anni.
4) Engels si riferisce alla testimonianza del monaco e
scrittore tedesco Notker Labeone (circa 952-1022) citata da Jacob Grimm nella
sua opera «Deutsche Rechtsalterthumer», Gottinga, 1828 (seconda ediz. 1854), p.
488.
5) Per la questione dell'influsso dell'attività umana sui
mutamenti della vegetazione e del clima Engels si vale del libro di Carl Fraas,
«Klima und Planzenwelt in der Zeit, ein Beitag zur Geschichte beider»,
Landshut, 1847. Marx aveva richiamato l'attenzione di Engels su questo libro in
una lettera del 25 marzo 1868.
6) La crisi economica mondiale del 1873 cominciò in Germania col
«grande crack» del mese di maggio, preludio di una lunga crisi che si protrasse
fino alla fine degli anni Settanta.