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Friedrich Engels: Anti-Dühring – [ Indice ]

 

Seconda Sezione: Economia

 

I. Oggetto e metodo

 

L'economia politica nel senso più lato è la scienza delle leggi che regolano la produzione e lo scambio dei mezzi materiali di sussistenza nella società umana. Produzione e scambio sono due funzioni diverse. Può esserci la produzione senza lo scambio, non lo scambio -che proprio per sua essenza è solo scambio di prodotti- senza la produzione. Ognuna di queste due funzioni sociali sta sotto l'influenza di azioni esterne, per lo più particolari, e perciò ha, per lo più, le sue particolari leggi. Ma d'altra parte esse in ogni momento si condizionano l'un l'altra ed agiscono l'una sull'altra in tale misura da potersi caratterizzare come l'ascissa e l'ordinata della curva economica.

 

Le condizioni, in base alle quali gli uomini producono e scambiano, mutano di paese in paese, e in ogni paese, a loro volta, di generazione in generazione. L'economia politica non può quindi essere la stessa per tutti i paesi e per tutte le epoche storiche. Dall'arco e dalla freccia, dal coltello di pietra e dall'atto di scambio, puramente occasionale, del selvaggio, fino alla macchina a vapore dalla forza di mille cavalli, al telaio meccanico, alle strade ferrate e alla Banca d'Inghilterra, c'è una distanza enorme. Gli abitanti della Terra del Fuoco, come non sono arrivati alla produzione standardizzata e al commercio su scala mondiale, così non sono arrivati ai maneggi cambiari e ad un crac di Borsa. Chi volesse trattare l'economia della Terra del Fuoco secondo le stesse leggi vigenti nella moderna Inghilterra, evidentemente non potrebbe arrivare che al luogo comune più banale. L'economia politica è perciò essenzialmente una scienza storica. Essa si occupa di una materia che appartiene alla storia, vale a dire di una materia in continuo cambiamento; indaga anzitutto le leggi particolari di ogni singola fase di sviluppo della produzione e dello scambio; e solo alla fine di questa indagine potrà stabilire le poche leggi assolutamente generali, valide per la produzione e lo scambio in genere. Con tutto ciò è evidente per se stesso che le leggi valide per determinati modi di produzione e per determinate forme di scambio hanno validità anche per tutti i periodi storici cui sono comuni quei modi di produzione e quelle forme di scambio. Così, per es., con l'introduzione della moneta metallica, entrano in vigore una serie di leggi che continuano ad essere valide per tutti i paesi e i periodi storici nei quali la moneta metallica serve da mezzo di scambio.

 

Con la maniera e la specie di produzione e di scambio di una società storicamente determinata e con le condizioni storiche preliminari di questa società, sono dati contemporaneamente anche la maniera e la specie della distribuzione dei prodotti. Nella comunità tribale o di villaggio, con la proprietà comune del suolo con la quale, o con le cui sopravvivenze molto ben riconoscibili, tutti i popoli civili hanno fatto il loro ingresso nella storia, è naturale che si abbia una distribuzione dei prodotti pressoché eguale; allorché si presenta una considerevole disuguaglianza distributiva tra i membri, questa è già un sintomo dell'incipiente dissoluzione della comunità. Sia la grande che la piccola agricoltura ammettono, a seconda delle condizioni storiche preliminari da cui si sono sviluppate, forme molto diverse di distribuzione. Ma è evidente che la grande agricoltura determina una distribuzione assolutamente diversa da quella determinata dalla piccola agricoltura; che la grande agricoltura presuppone o produce un antagonismo di classe, tra padroni di schiavi e schiavi, fra signori della terra e servi della gleba, tra capitalisti e salariati, mentre la piccola agricoltura non implica affatto una differenza di classi tra gli individui impiegati nella produzione agricola, anzi al contrario, la semplice esistenza di questa differenza di classi indica l'incipiente decadenza dell'economia parcellare. L'introduzione e la diffusione della moneta metallica in un paese dove sinora è stata in vigore esclusivamente o prevalentemente l'economia naturale, sono sempre legate ad un sovvertimento più o meno rapido della distribuzione che sino a quel momento è stata in vigore, e precisamente in guisa che la disuguaglianza distributiva tra i singoli, e quindi il contrasto tra ricchi e poveri, si viene sempre più accentuando. L'industria artigiana locale, corporativa, del medioevo, rendeva impossibile l'esistenza di grandi capitalisti e di salariati a vita, così come necessariamente li generano la grande industria moderna, l'odierno sistema creditizio, e la forma di scambio adeguata allo sviluppo che l'una o l'altro hanno raggiunto: la libera concorrenza.

 

Con le differenze nella distribuzione, appaiono invece le differenze di classe. La società si divide in classi privilegiate e diseredate, sfruttatrici e sfruttate, dominanti e dominate; e lo Stato, al quale raggruppamenti naturali di comunità dello stesso ceppo erano giunti nel loro progressivo sviluppo in un primo tempo solo al fine di tutelare i loro interessi comuni (in Oriente, per esempio, l'irrigazione) e per proteggersi all'esterno, da ora in poi assume, nella stessa misura, il fine di mantenere con la forza le condizioni di vita e di dominio della classe dominante contro la classe dominata.

 

La distribuzione, però, non è un semplice risultato passivo della produzione e dello scambio: essa reagisce nella stessa misura su entrambi. Ogni nuovo modo di produzione o ogni nuova forma di scambio, in principio vengono inceppati non solo dalle vecchie forme e dalle istituzioni politiche ad esse corrispondenti, ma anche dal vecchio modo di distribuzione. Solo con una lunga lotta essi potranno conquistarsi la forma di distribuzione loro adeguata. Ma quanto più un dato modo di produzione e di scambio è mobile, quanto più è capace di perfezionamento e di sviluppo, tanto più rapidamente anche la distribuzione raggiunge un grado in cui supera le condizioni che l'hanno generata, e in cui viene a conflitto con la forma di produzione e di scambio esistente fino allora. Le vecchie comunità naturali di cui si è già parlato, possono esistere per secoli, come oggi ancora presso gli indù e gli slavi, prima che il traffico col mondo esterno produca al loro interno quelle differenze di fortune, in conseguenza delle quali subentra la loro dissoluzione. Per contro, la moderna produzione capitalistica, che ha appena trecento anni e che solo dall'introduzione della grande industria, quindi da cento anni, è diventata dominante, in questo breve corso di tempo ha dato origine a contrasti nella distribuzione -da una parte, concentrazione dei capitali nelle mani di pochi e, dall'altra, concentrazione nelle grandi città delle masse pauperizzate- contrasti che necessariamente la conducono alla rovina.

 

In ogni periodo, il nesso tra la distribuzione e le condizioni materiali di esistenza di una società è così insito nella natura delle cose da rispecchiarsi regolarmente nell'istinto popolare. Sino a quando un modo di produzione si trova nella fase ascendente della parabola del suo sviluppo, è salutato con gioia perfino da coloro che nel modo di distribuzione ad esso corrispondente hanno tutto da perdere. Caso questo che si è verificato per gli operai inglesi al sorgere della grande industria. Sino a quando questo modo di produzione resta socialmente normale si è anche completamente soddisfatti della distribuzione, e se una protesta si eleva, essa parte dal seno delle stesse classi dominanti (Saint-Simon, Fourier, Owen) e da principio non trova nessun favore tra le masse sfruttate. Solo allorché il modo di produzione in oggetto ha percorso un buon tratto della sua parabola discendente, allorché esso per metà è sopravvissuto a se stesso, allorché le condizioni della sua esistenza sono in gran parte scomparse e il suo successore già batte alla porta, solo allora la distribuzione, che va diventando sempre più diseguale, appare ingiusta, solo allora le sopravvivenze si appellano alla cosiddetta giustizia eterna. Questo appello alla morale e alla giustizia non ci aiuta ad andare avanti di un passo nella scienza, la scienza economica non può vedere nell'indignazione morale, per giustificata che essa possa anche essere, un argomento, ma solo un sintomo. Il suo compito è invece quello di dimostrare che gli inconvenienti sociali di recente emersi sono conseguenze necessarie del modo di produzione vigente, ma che ad un tempo sono anche sintomi del suo imminente dissolvimento, e di scoprire nella forma del processo economico in dissolvimento gli elementi della futura nuova organizzazione della produzione e dello scambio, che eliminerà quegli inconvenienti. L'indignazione, che fa i poeti [73], è completamente al suo posto quando descrive questi inconvenienti o quando attacca gli apologeti dell'armonia che nell'interesse della classe dominante negano o velano questi inconvenienti; ma quanto poco essa provi nel caso particolare, risulta già dal fatto che in ogni epoca della storia che si è svolta sinora si trova abbastanza materia per essa.

 

L'economia politica, come scienza delle condizioni e delle forme nelle quali le diverse società umane hanno prodotto e scambiato e nelle quali hanno volta per volta distribuito i loro prodotti in modo conforme a questa produzione e a questo scambio, l'economia politica in questa estensione così lata, deve tuttora esser creata. La scienza economica che sinora possediamo si limita quasi esclusivamente alla genesi e allo sviluppo del modo di produzione capitalistico: comincia con la critica delle sopravvivenze delle forme feudali di produzione e di scambio, dimostra la necessità della loro sostituzione con forme capitalistiche, sviluppa quindi le leggi del modo di produzione capitalistico e delle forme di scambio ad esso corrispondenti, sotto l'aspetto positivo, cioè secondo l'aspetto per cui esse assecondano i fini generali della società, e conclude con la critica socialista del modo di produzione capitalistico, cioè con l'esposizione delle sue leggi sotto l'aspetto negativo, con la dimostrazione che, mediante il suo peculiare sviluppo, questo modo di produzione porta al punto in cui esso stesso si rende impossibile. Questa critica dimostra che le forme capitalistiche di produzione e di scambio diventano sempre più un vincolo insopportabile per la stessa produzione, che il modo di distribuzione, che quelle forme necessariamente determinano, ha prodotto una situazione delle classi che di giorno in giorno diventa più intollerabile, quell'antagonismo che diventa ogni giorno più acuto tra capitalisti, sempre in minor numero ma sempre più ricchi, e tra salariati pauperizzati sempre in maggior numero e le cui condizioni nel complesso diventano sempre peggiori; e infine che quelle abbondanti forze produttive che si sono prodotte in seno al modo di produzione capitalistico, che da questo non possono più essere dominate, aspettano solo di essere prese in possesso da una società organizzata per la cooperazione secondo un piano, al fine di assicurare a tutti i membri della società i mezzi di sussistenza e alle loro capacità il libero sviluppo: e ciò in una misura che precisamente andrà sempre crescendo.

 

Per effettuare compiutamente questa critica dell'economia borghese, non era sufficiente la conoscenza della forma capitalistica della produzione, dello scambio e della distribuzione. Si dovevano del pari indagare e raffrontare, almeno nelle loro grandi linee, le forme che l'hanno preceduta o che è accaduto ad essa sussistono ancora in paesi meno sviluppati. Un'indagine e un raffronto siffatti sono stati sinora compiuti nel loro complesso solo da Marx e perciò dobbiamo anche quasi esclusivamente alle sue ricerche ciò che sinora è stato stabilito sulla teoria dell'economia politica preborghese.

 

Malgrado sia sorta in alcune menti geniali del secolo XVII, l'economia politica in senso stretto, nella formulazione fatta dai fisiocratici e da Adam Smith, è essenzialmente figlia del secolo XVIII e si allinea alle conquiste dei grandi illuministi francesi contemporanei, con tutti i pregi e i difetti di quell'epoca. Ciò che abbiamo detto per gli illuministi vale anche per gli economisti del tempo. La nuova scienza non era per loro l'espressione dei rapporti e dei bisogni della loro epoca, ma l'espressione della ragione eterna; le leggi della produzione e dello scambio da essa scoperte non erano leggi di una forma storicamente determinata di quelle attività, ma leggi naturali eterne; esse venivano dedotte dalla natura dell'uomo. Ma quest'uomo, esaminato più da vicino, era il borghese medio del tempo, nella sua fase di transizione al borghese moderno, e la sua natura consisteva nel produrre e nel commerciare nei rapporti storicamente determinati di quel tempo.

 

Dopo avere sufficientemente appreso dalla Filosofia chi sia il nostro "fondatore critico", Dühring, e che cosa sia il suo metodo, potremo predire senza difficoltà anche il modo con cui costui concepirà l'economia politica. Nella Filosofia, tranne laddove vaneggiava semplicemente (come nella filosofia della natura), la sua maniera di vedere le cose era una caricatura di quella del XVIII secolo. Non si trattava di leggi dello sviluppo storico, ma di leggi di natura, di verità eterne. Relazioni sociali, quali la morale e il diritto, erano determinate non in base alle condizioni storicamente presenti in ogni periodo, ma dai due famosi uomini dei quali l'uno o sottometteva l'altro o non lo sottometteva, caso, quest'ultimo, che disgraziatamente sinora non si è mai dato. Ci inganneremo dunque solo di poco se trarremo la conclusione che Dühring ridurrà parimenti l'economia a verità definitive di ultima istanza, a leggi naturali eterne, ad assiomi tautologici di una desolante mancanza di contenuto, ma che accanto a tutto questo reintrodurrà di contrabbando, facendolo passare per la porticina di servizio, tutto il contenuto positivo dell'economia, sin dove gli è noto; e che non farà sorgere la distribuzione, come fatto sociale, dalla produzione e dallo scambio, ma la rinvierà ai suoi famosi due uomini perché la sbrighino definitivamente. E poiché tutti questi artifici sono per noi vecchie conoscenze, tanto più qui potremo essere brevi.

 

In effetti Dühring ci dichiara già a pagina 2 [74] che la sua Economia si riferisce a ciò "che è stato stabilito" nella sua Filosofia e che si "appoggia in certi punti essenziali a verità di ordine superiore ormai fissate in un campo più elevato di indagine". Dappertutto lo stesso importuno autoincensamento. Dappertutto il trionfo di Dühring su ciò che Dühring ha stabilito e fissato. Fissato in effetti, l'abbiamo visto in lungo e in largo... ma come si fissa il coperchio di una bara [75].

 

Subito dopo abbiamo "le più generali leggi di natura di tutta l'economia"... avevamo dunque proprio indovinato. Ma queste leggi di natura non permettono una giusta intelligenza della storia passata se non allorché

 

"le si indaghino in quella determinazione più prossima che i loro risultati hanno subito per opera delle forme politiche dell'assoggettamento e del raggruppamento. Istituzioni politiche quali la schiavitù e la servitù salariale, alla quale si associa, come loro gemella, la proprietà fondata sulla violenza, devono considerarsi come forme istituzionali economico-sociali di natura puramente politica: esse formano, nel mondo quale è sinora, la cornice entro la quale soltanto si son potuti manifestare gli effetti di leggi economiche naturali".

 

Questa frase è la fanfara che come un Leitmotiv [76] wagneriano ci annuncia l'avvicinarsi dei famosi due uomini. Ma è ancora di più: il tema fondamentale di tutto il libro di Dühring. Nel diritto Dühring non ci ha saputo offrire altro che una cattiva traduzione socialista della teoria egualitaria di Rousseau, tale che da anni se ne possono sentire di molto migliori in ogni ritrovo operaio parigino. Qui egli ci dà una non migliore traduzione socialista delle querimonie degli economisti sulla falsificazione delle leggi economiche naturali eterne e dei loro effetti, dovuta all'ingerenza dello Stato, della violenza. E con ciò egli sta meritatamente del tutto solo tra i socialisti. Ogni operaio socialista, senza differenza, qualunque sia la sua nazionalità, sa benissimo che la violenza non fa che proteggere lo sfruttamento ma non lo causa; che la base del suo sfruttamento è il rapporto tra capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via puramente economica e niente affatto per via di violenza.

 

Ora ci si dice in tutte lettere che in ogni questione economica "si potranno distinguere due processi, quello della produzione e quello della distribuzione"; inoltre che il noto e superficiale J. B. Say ha aggiunto ancora un terzo processo, quello dell'uso, del consumo, ma non ha saputo dire niente di sensato, come niente di sensato ne hanno saputo dire i suoi successori. Ma lo scambio, o circolazione, sarebbe solo una sottodivisione della produzione, alla quale appartiene tutto ciò che deve avere luogo perché i prodotti arrivino agli ultimi ed effettivi consumatori. Se Dühring confonde i due processi della produzione e della circolazione, essenzialmente distinti anche se interdipendenti, e afferma senza scomporsi che evitando quella confusione può solo "sorger confusione", con ciò dimostra semplicemente di non conoscere o di non intendere l'enorme sviluppo che proprio la circolazione ha percorso negli ultimi cinquanta anni, ciò che del resto è anche confermato nel seguito del suo libro. Ma non basta. Dopo aver semplicemente fuso in un tutto unico, come produzione, la produzione e lo scambio, pone accanto alla produzione la distribuzione, come un secondo processo completamente esteriore, che col primo non ha assolutamente niente a che fare. Noi abbiamo visto che la distribuzione, nelle sue linee decisive, è di volta in volta il risultato necessario dei rapporti di produzione e di scambio di una società determinata, nonché delle condizioni storiche preliminari di questa società, e precisamente abbiamo esposto il concetto che se conosciamo questi rapporti e queste condizioni, possiamo con precisione trarre le conclusioni sul modo di distribuzione vigente in questa società. Ma vediamo del pari che Dühring, se non vuole diventare infedele ai principi "stabiliti" nella sua concezione della morale, del diritto e della storia, deve negare questi fatti economici elementari, e specialmente deve negarli se gli tocca di introdurre di contrabbando nell'economia i suoi indispensabili due uomini. E una volta che la distribuzione si è felicemente sbarazzata di ogni nesso con la produzione e lo scambio, può aver luogo il grande evento.

 

Richiamiamoci per intanto alla memoria come la cosa si è svolta per la morale e per il diritto. Qui Dühring cominciava originariamente con un uomo solamente e diceva:

 

"Un uomo in quanto sia pensato come singolo o, ciò che fa lo stesso, come fuori di ogni nesso con gli altri, non può avere doveri. Per lui non c'è un dovere, ma solo un volere".

 

Ma che cos'altro è quest'uomo che viene pensato come privo di doveri, come singolo, se non un fastidioso "ebreo primigenio Adamo" nel paradiso terrestre, dove è senza peccati perché non può commetterne? Ma anche su questo Adamo della filosofia della realtà incombe la caduta nel peccato. Accanto a questo Adamo compare improvvisamente, non certo un'Eva dall'ondeggiante chioma ricciuta. Ma un secondo Adamo ancora. E subito Adamo ha dei doveri e... li respinge. Invece di considerare suo fratello come pari a lui nei diritti e stringerselo al seno, lo sottomette al suo dominio, lo asservisce... e delle conseguenze di questo primo peccato, del peccato originale dell'asservimento, soffre tutta la storia universale sino al giorno d'oggi, e per questo per Dühring essa non vale neanche un quattrino.

 

Se dunque Dühring, diciamolo incidentalmente, ha creduto di aver sufficientemente abbandonato al disprezzo la "negazione della negazione", caratterizzandola come brutta copia della vecchia storia del peccato originale e della redenzione, che cosa dobbiamo dire allora della sua recentissima edizione della stessa teoria? (Infatti col tempo "ci approssimeremo", per servirci di un'espressione da rettili [77], anche alla redenzione.) In ogni caso è pur certo che noi preferiamo la vecchia leggenda tribale semitica nella quale per il maschio e per la femmina valeva pur la pena di uscire dallo stato di innocenza, e che a Dühring resterà incontestata la gloria di aver costruito il suo peccato originale con due maschi.

 

Sentiamo dunque la traduzione del peccato originale in termini economici:

 

"All'idea della produzione può in ogni caso dare uno schema ideale appropriato il rappresentare un Robinson che con le sue forze sta di fronte alla natura, isolato e non ha niente da spartire con nessuno (...) Parimente opportuno per rendere evidente ciò che vi è di più essenziale nell'idea della distribuzione è lo schema ideale di due individui le cui forze economiche si combinano e che devono evidentemente in qualche forma intendersi l'un l'altro per quel che si riferisce alle loro quote. Non occorre in effetti più di questo semplice dualismo per rappresentare con ogni rigore alcuni dei più importanti rapporti distributivi e per studiare embrionalmente le leggi nella loro necessità logica (...) Qui si può pensare egualmente tanto alla cooperazione su un piede di eguaglianza quanto alla combinazione delle forze mediante l'oppressione completa di una delle parti, che poi viene costretta a servigi di natura economica come schiava o semplice strumento, e proprio solo come strumento viene anche mantenuta (...) Tra lo stato di eguaglianza e di nullità da una parte e quello di onnipotenza e di partecipazione unilaterale attiva dall'altra, si trova una serie di casi ad occupare le quali hanno provveduto con ricca varietà gli eventi della storia universale. Una visione universale delle diverse istituzioni storiche della giustizia e dell'ingiustizia è qui il presupposto essenziale (...)"

 

e, per concludere, tutta la distribuzione si trasforma in una "sistemazione giuridica dei rapporti economici della distribuzione".

 

Ora finalmente Dühring poggia di nuovo i piedi sulla terra ferma. A braccetto coi suoi due uomini può sfidare il suo secolo. Ma dietro a questa trinità c'è ancora un Innamorato.

 

"Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre il sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario caloVcagaouV [bello e buono, cioè nobile] ateniese, teocrate etrusco, civis romanus" (cittadino romano), "barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno o capitalista" (Marx, "Capitale", I, seconda edizione, pag. 227.) [78].

 

Dopo avere appreso in questo modo che cosa sia la forma fondamentale dello sfruttamento comune a tutte le forme di produzione esistite fino ad oggi, nella misura in cui si muovono sul piano degli antagonismi di classe, a Dühring restava solo da applicarvi i suoi due uomini e la base dell'economia della realtà, che si profonda sino alle radici, sarebbe stata pronta. Ed egli non ha esitato neppure un momento a dare esecuzione a questa "idea che crea un sistema". Lavoro senza contropartita, oltre il tempo di lavoro necessario al mantenimento dell'operaio: è questo il punto. L'Adamo che qui si chiama Robinson fa sgobbare senza tregua il suo secondo Adamo, Venerdì. Ma perché dunque Venerdì sgobba più di quanto è necessario per il suo mantenimento? Anche questa questione trova parzialmente la sua risposta in Marx. Ma questa risposta è troppo lunga per i due uomini. La cosa viene liquidata in breve: Robinson "opprime" Venerdì, lo costringe "come schiavo o strumento a servigi economici" e lo mantiene "anche, solo come strumento". Con questa novissima "svolta creatrice", Dühring, per così dire, prende due piccioni con una fava. Anzitutto si risparmia la fatica di spiegare le diverse forme sinora assunte dalla distribuzione, le loro differenze e le loro cause: tutte queste insieme non valgono assolutamente niente, poggiano tutte sull'oppressione, sulla violenza. Avremo da parlarne tra breve. E in secondo luogo trasferisce così tutta la teoria della distribuzione dal campo economico a quello della morale e del diritto, cioè dal campo dei fatti materiali che sono ben saldi, a quello delle opinioni e dei sentimenti che più o meno oscillano. Quindi non ha più bisogno di indagare o di dimostrare, ma solo di continuare allegramente a declamare senza tregua e può esigere che la distribuzione dei prodotti del lavoro non si regoli secondo le sue cause reali, ma secondo ciò che a lui, Dühring, appare morale e giusto. Ma ciò che a Dühring appare giusto non è affatto immutabile e quindi è molto lontano dall'essere una verità autentica. Infatti queste verità sono proprio, secondo lo stesso Dühring, "in generale immutabili". Nell'anno 1868 Dühring affermava ("I destini del mio memoriale sociale ecc.") che è

 

"nella tendenza di ogni civiltà superiore il dare un carattere sempre più netto alla proprietà e che qui e non in una confusione dei diritti e delle sfere della sovranità risiedono l'essenza e l'avvenire dello sviluppo moderno". E affermava inoltre che non poteva assolutamente concepire "come una trasformazione del lavoro salariato in un'altra forma di guadagno avesse mai a conciliarsi con le leggi della natura umana e dell'organizzazione per sua natura necessaria del corpo sociale".

 

Quindi nel 1868 proprietà privata e lavoro salariato sono necessari per natura e perciò giusti; nel 1876 [79] sono entrambi conseguenza della violenza e della "rapina" e quindi ingiusti. E non possiamo assolutamente sapere che cosa, a distanza di qualche anno, potrà sembrare morale e giusto ad un genio così possentemente impetuoso nel suo dire e perciò, in ogni caso, faremo meglio, nella nostra trattazione della distribuzione delle ricchezze, ad attenerci alle leggi economiche reali ed obiettive e non all'idea, momentanea, mutevole, soggettiva di Dühring, di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto.

 

Se dell'imminente rovesciamento dell'odierna distribuzione dei prodotti del lavoro con i suoi stridenti contrasti di miseria e di fasto, di fame e di gozzoviglia, non avessimo certezza migliore della coscienza che questo modo di produzione è ingiusto e che finalmente il diritto deve pur trionfare un giorno, le nostre cose andrebbero male e noi potremmo aspettare un pezzo. I mistici medievali che sognavano del regno millenario che si avvicinava, avevano già la coscienza dell'ingiustizia degli antagonismi delle classi. Alle soglie della storia moderna, trecentocinquanta anni fa, Thomas Münzer lo proclamò alto nel mondo. Nella rivoluzione borghese inglese come in quella francese risuona lo stesso grido e... si spegne. E se oggi lo stesso grido che invoca l'abolizione degli antagonismi e delle differenze delle classi e che fino al 1830 lasciava fredde le classi lavoratrici e sofferenti, se oggi questo grido trova un'eco in milioni di voci, se conquista un paese dopo l'altro e precisamente nello stesso ordine e con la stessa intensità con cui nei singoli paesi si sviluppa la grande industria, se nel tempo di una generazione umana ha conquistato una potenza tale da potere affrontare tutte le potenze riunite contro di esso ed essere certo della vittoria in un prossimo futuro: da dove proviene tutto ciò? Dal fatto che la grande industria moderna ha creato da una parte un proletariato, una classe che per la prima volta nella storia può porre l'esigenza dell'abolizione non di questa o di quella particolare organizzazione di classe, o di questo o di quel privilegio particolare di classe, ma delle classi in generale, e che è messa nella condizione di dovere fare trionfare tale esigenza sotto pena di sprofondare nella condizione del coolie [facchino] cinese. E dal fatto che la stessa grande industria, dall'altra parte, ha creato nella borghesia una classe che possiede il monopolio di tutti i mezzi di produzione e i mezzi di sussistenza, ma che, in ogni periodo di ascesa vertiginosa e in ogni crisi che lo segue, dimostra di essere incapace di dominare ancora in avvenire le forze produttive che, crescendo, sono sfuggite al suo potere; una classe sotto la cui guida la società corre verso la rovina, come una locomotiva il cui macchinista è troppo debole per aprire le valvole di sicurezza che si sono bloccate. In altri termini proviene dal fatto che sia le forze produttive create dal moderno modo di produzione capitalistico, sia anche il sistema di distribuzione dei beni da esso creato, sono caduti in flagrante contraddizione con quello stesso modo di produzione e precisamente in tal modo che, a meno che tutta la società moderna debba andare in rovina, deve aver luogo un rivoluzionamento del modo di produzione e di distribuzione che elimini tutte le differenze di classe. Su questo fatto materiale, tangibile, che, in una forma più o meno chiara, ma con necessità irresistibile, si oppone alla mente dei proletari sfruttati, su questo fatto e non sulle idee che questo o quel filosofo in pantofole hanno del giusto e dell'ingiusto, si fonda la certezza di vittoria del socialismo moderno.

 

 

Note

 

73. Questa espressione proverbiale arriva da Giovenale, Satira I, v. 79, "si natura negat, facit indignatio versum" (se la natura non può, l'indignazione fa i versi).

 

74. Nella seconda sezione dell'"Anti-Dühring", tranne il capitolo X, tutti questi riferimenti senza ulteriore indicazione concernono la seconda edizione (1876) del "Cursus der National - und Socialökonomie..." di Dühring.

 

75. Qui Engels fa un gioco di parole intraducibile in italiano.

 

76. Motivo conduttore, tema ricorrente di un'opera musicale, collegato per esempio all'apparire di un personaggio.

 

77. Erano detti "rettili" i giornalisti e gli organi di stampa che stavano al soldo del governo Bismarck. Questi, in un discorso alla Camera dei deputati prussiana del 30 gennaio 1869 aveva definito "rettili" gli avversari del governo. Il termine si diffuse, ma nella voce popolare cambiò significato, passando a designare i giornalisti venali sostenitori del governo Bismarck e pagati dal fondo destinato ad appoggiare la stampa filogovernativa. Lo stesso Bismarck, parlando al Reichstag il 9 febbraio 1876, fu costretto ad ammettere che il nuovo significato del termine "rettili" aveva avuto in Germania la più ampia diffusione.

 

 

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