www.resistenze.org - materiali resistenti in linea - iper-classici - 28-07-09 - n. 284

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Friedrich Engels: Anti-Dühring – [ Indice ]

 

Seconda Sezione: Economia

 

V. Teoria del valore

 

Sono passati circa cento anni da quando a Lipsia apparve un libro che, sino all'inizio di questo secolo, ha avuto più di trenta edizioni e che autorità, predicatori e filantropi di tutte le specie diffusero, distribuirono e prescrissero in generale come libro di lettura per le scuole elementari in città e in campagna. Questo libro si chiamava "L'amico dei fanciulli" di Rochow ed aveva il fine di istruire i giovani rampolli dei contadini e degli artigiani sulla loro vocazione e sui loro doveri verso i loro superiori nella società e nello Stato, e parimente ispirar loro un benefico senso di appagamento della loro sorte terrena, del pane nero e delle patate, del servizio feudale, del basso salario, delle paterne bastonate e delle altre piacevolezze del genere, e tutto ciò servendosi delle idee illuministiche allora correnti nel paese. A questo fine si mostrava alla gioventù della città e della campagna quale saggia istruzione della natura sia il fatto che l'uomo debba guadagnarsi il suo sostentamento e i suoi godimenti col lavoro e quanto perciò debbano sentirsi felici il contadino e l'artigiano del fatto che sia loro permesso di condire il proprio pasto con aspro lavoro invece di soffrire, come il grasso crapulone, di dispepsia, di mal di fegato o di stitichezza e di non poter ingoiare che a malavoglia le più scelte leccornie. Gli stessi luoghi comuni che il vecchio Rochow riteneva adatti per i giovani contadini dell'Elettorato di Sassonia del suo tempo, Dühring, a pag. 14 e seguenti del suo "Corso", ce li offre come l'"elemento assolutamente fondamentale" dell'economia politica più recente.

 

"I bisogni umani hanno come tali le loro leggi naturali che li regolano e, riguardo al loro incremento, sono racchiusi entro limiti che solo innaturalmente possono essere violati, per un certo tempo, sino a che da questa violazione conseguono disgusto, tedio della vita, decrepitezza, mutilazione sociale e finalmente salutare annientamento (...) Un giuoco fatto solamente di piaceri, senza un altro fine serio, porta presto all'apatia o, ciò che è lo stesso, all'esaurimento di ogni capacità di sentire. Un lavoro reale in una forma qualsiasi è quindi la naturale legge sociale di formazioni sane (...) Se gli impulsi e i bisogni fossero senza una contropartita porterebbero con sé appena un'esistenza infantile e non già uno sviluppo di una vita storicamente evoluta. Se fossero soddisfatti e pienamente senza pena, presto si esaurirebbero e lascerebbero una vita vuota fatta di intervalli pietosi in attesa del riapparire di quegli impulsi e di quei bisogni (...) La dipendenza della soddisfazione degli istinti e delle passioni dal superamento di un ostacolo economico è quindi, sotto ogni rapporto, una benefica legge fondamentale della struttura esterna e della costituzione interna dell'uomo" ecc. ecc.

 

Come si vede, le più banali banalità del reverendo Rochow celebrano in Dühring il loro centenario e per giunta come "fondazione radicale" dell'unico "sistema socialitario" veramente critico e scientifico.

 

Poste le basi, Dühring può quindi continuare a costruire. Applicando il metodo matematico egli ci dà in primo luogo, secondo l'esempio del vecchio Euclide, una serie di definizioni. E ciò tanto più comodamente in quanto può subito stabilire le sue definizioni in modo tale che ciò che col loro aiuto deve essere dimostrato sia già in parte contenuto in esse. Così veniamo a sapere anzitutto che il concetto conduttore di tutta l'economia, quale sinora si è presentata, si chiama ricchezza e che la ricchezza, come sinora è stata realmente intesa sul piano della storia universale, e come ha sviluppato il suo regno, è la "potenza economica sugli uomini e le cose". Ciò è doppiamente inesatto. In primo luogo la ricchezza delle antiche comunità tribali e di villaggio non era affatto un dominio su uomini. E in secondo luogo, anche nelle società che si muovono sul piano degli antagonismi di classe, la ricchezza, nella misura in cui include un dominio su uomini, include prevalentemente e quasi esclusivamente un dominio su uomini in virtù e per mezzo del dominio su cose. A partire dal tempo remotissimo in cui la cattura e lo sfruttamento degli schiavi divennero rami distinti di attività, gli sfruttatori di lavoro e di schiavi dovettero comprare gli schiavi, dovettero acquistare il dominio sugli uomini solo per mezzo del dominio sulle cose, sul prezzo di acquisto e sui mezzi di mantenimento e di lavoro dello schiavo. In tutto il medioevo il grande possesso fondiario è la condizione preliminare grazie alla quale la nobiltà feudale arriva ad avere contadini tributari e servi, e al giorno d'oggi finanche un bambino di sei anni vede che la ricchezza domina sull'uomo esclusivamente per mezzo delle cose di cui dispone.

 

Ma perché Dühring è costretto ad ammannire questa falsa definizione della ricchezza? Perché è costretto ad infrangere il nesso reale delle cose quale sinora è stato vigente in tutte le società divise in classi? Per trascinare la ricchezza dal campo dell'economia a quello della morale. Il domino sulle cose è assolutamente buono, invece il dominio sugli uomini è del maligno; e poiché Dühring si è interdetto di spiegare il dominio sugli uomini per mezzo del dominio sulle cose, può fare un'audace colpo di mano e spiegare senz'altro il dominio sugli uomini per mezzo della sua amata violenza. La ricchezza, in quanto domina sull'uomo, è la "rapina", e così siamo arrivati ad una edizione peggiorata del vecchissimo detto di Proudhon: "La proprietà è il furto" [96].

 

E con ciò, invero, siamo riusciti felicemente a considerare la ricchezza dai due punti di vista essenziali della produzione e della distribuzione: ricchezza come dominio su cose, ricchezza di produzione, lato buono; ricchezza come dominio su uomini, ricchezza della distribuzione quale sinora esiste, lato cattivo; aboliamolo! Applicato alle condizioni odierne ciò vuol dire: il modo di produzione capitalistico è buono e può restare, invece il modo di distribuzione capitalistico non vale niente e deve essere eliminato. A un tale assurdo si arriva scrivendo di economia senza neppure avere un concetto del nesso tra produzione e distribuzione.

 

Dopo la ricchezza, il valore viene definito come segue: "Il valore è la valutazione che le cose e le prestazioni economiche trovano nello scambio". Questa valutazione corrisponde "al prezzo o a qualsiasi altro termine equivalente, per es. al salario". In altre parole: il valore è il prezzo. O piuttosto, per non fare torto a Dühring e riprodurre l'assurdo della sua definizione usando il più possibile i suoi stessi termini: il valore sono i prezzi. Infatti a p. 19 egli dice: "il valore e i prezzi che lo esprimono in denaro", facendo quindi, egli stesso, la constatazione che lo stesso valore ha prezzi differentissimi e di conseguenza anche altrettanti valori differenti. Se Hegel non fosse morto da gran tempo, si impiccherebbe. Con tutto il suo teologismo non avrebbe potuto escogitare questo valore che è altrettanti valori diversi quanti sono i prezzi che ha. Ancora una volta si deve proprio possedere la sicurezza di Dühring per inaugurare una nuova e più radicale fondazione dell'economia con la dichiarazione che non si conosce altra differenza tra prezzo e valore, se non che il primo è espresso in denaro e l'altro no.

 

Ma con ciò continuiamo sempre ad ignorare che cosa sia il valore e ancor più come si determina. Dühring è quindi costretto a tirare fuori ulteriori spiegazioni:

 

"Parlando assolutamente in generale, la legge fondamentale della comparazione e dell'apprezzamento su cui poggiano il valore e i prezzi che lo esprimono in denaro, ha la sua base anzitutto nel campo della pura produzione, prescindendo dalla distribuzione che nel concetto di valore porta solo un secondo elemento. Gli ostacoli maggiori o minori, che la diversità delle condizioni naturali porta agli sforzi intesi a procurarsi le cose e che perciò rende necessarie delle erogazioni maggiori o minori di forza economica, determinano anche (...) il maggiore o minore valore", e questo viene valutato a seconda della "resistenza che all'acquisto oppongono la natura e le condizioni (...) La misura in cui noi incorporiamo le cose" (nelle cose) "la nostra propria forza è la causa immediatamente decisiva dell'esistenza del valore in generale e dell'esistenza di una particolare grandezza di esso."

 

Ciò, nella misura in cui ha un senso, significa: il valore di un prodotto di lavoro è determinato dal tempo di lavoro necessario per la sua produzione, e questo lo sappiamo da gran tempo anche senza Dühring. Invece di presentarci il fatto così semplicemente, bisogna che lo contorca in una formula oracolare. È semplicemente falso che la misura in cui ciascuno incorpora in una qualche cosa la sua forza (per attenerci a questo stile pomposo) sia la causa immediatamente decisiva del valore e della sua grandezza. In primo luogo ciò che qui importa è in quale cosa la forza viene incorporata e in secondo luogo il modo in cui viene incorporata. Se il nostro qualcuno crea una cosa che per altri non ha nessun valore d'uso, tutta quanta la sua forza non crea un atomo di valore; e se si ostina a produrre con le sue mani un oggetto che una macchina produce venti volte più a buon mercato, i diciannove ventesimi della forza che egli incorpora non producono né valore né una particolare grandezza di esso.

 

Inoltre vuol dire sovvertire completamente l'argomento il trasformare in un superamento semplicemente negativo di una resistenza il lavoro produttivo, che crea prodotti positivi. Dovremmo in questo caso, per riuscire ad avere una camicia, procedere all'incirca nel modo che segue: in primo luogo superiamo la resistenza opposta dal seme di cotone ad essere seminato e a crescere, poi la resistenza opposta dal cotone maturo ad essere raccolto, imballato e spedito, poi la resistenza opposta dal filo ad essere tessuto, quella opposta dal tessuto ad essere imbiancato e cucito e finalmente la resistenza che la camicia pronta oppone ad essere indossata.

 

Ma perché queste contorsioni e queste assurdità infantili? Per venire, per mezzo della "resistenza" e del "valore di produzione", del valore vero, ma sinora solo ideale, a quel "valore di distribuzione" falsato dalla violenza e che solo sinora ha avuto corso nella storia:

 

"Oltre alla resistenza che oppone la natura (...) c'è ancora un altro ostacolo puramente sociale (...) Tra l'uomo e la natura appare una potenza che ostacola e questa è ancora una volta l'uomo. L'uomo concepito come essere singolo e isolato è libero di fronte alla natura (...) La situazione si configura diversamente allorché ne immaginiamo un secondo che, la spada in pugno, impedisca ogni accesso alla natura e alle sue risorse e per lasciar passare chieda, in qualsiasi forma, un prezzo. Questo secondo uomo (...) grava, per così dire, il primo di tributi e così egli è la ragione per cui il valore di ciò di cui si aspira finisce per esser maggiore di quanto potrebbe essere, senza questo ostacolo politico e sociale all'acquisto o alla produzione dell'oggetto (...) Svariatissime sono le forme particolari assunte da questa valutazione artificialmente aumentata delle cose, che naturalmente ha la sua concomitante contropartita in una corrispondente diminuzione della valutazione del lavoro (...) è perciò un'illusione il voler considerare sin dal principio il valore come un equivalente nel senso proprio della parola, cioè come qualche cosa che valga egualmente, o come un rapporto di scambio istituitosi in conformità al principio dell'eguaglianza di prestazione o controprestazione (...) Al contrario la caratteristica di una giusta teoria del valore è che la causa della valutazione, che in questa teoria viene pensata nel modo più generale, non coincide con la forma particolare che assume la valutazione fondata sulla costrizione della distribuzione. Questa forma si muta con la costituzione sociale, mentre il valore specificamente economico può essere solo un valore di produzione misurato rispetto alla natura e perciò si modificherà solo con gli ostacoli naturali e tecnici che la produzione pura e semplice incontra".

 

Il valore che una cosa ha in pratica consta quindi, secondo Dühring, di due parti: in primo luogo del lavoro in essa contenuto e in secondo luogo dell'aggiunta di un tributo estorto "con la spada in pugno". In altri termini il valore oggi valido è un prezzo di monopolio. Se dunque, secondo questa teoria, tutte le merci hanno un tale prezzo di monopolio, sono possibili solo due casi. O ciascuno torna a perdere come compratore quello che ha guadagnato come venditore; i prezzi si sono modificati in quanto al nome, ma in realtà, nel loro rapporto specifico, sono rimasti uguali; e allora tutto resta com'era e il celeberrimo valore di distribuzione è una mera parvenza. O invece le pretese aggiunte di tributi rappresentano una reale somma di valore, ossia quella somma di valore che è prodotta dalla classe lavoratrice creatrice di valore, ma di cui si appropria la classe dei monopolisti, e allora questa somma di valore consiste semplicemente in lavoro non pagato; in questo caso, malgrado l'uomo con la spada in pugno, e le pretese aggiunte di tributi, ritorniamo di nuovo alla teoria marxiana del plusvalore.

 

Consideriamo tuttavia alcuni aspetti del celeberrimo "valore di distribuzione". A p. 153 e seguenti leggiamo:

 

"Anche la formazione dei prezzi mediante la concorrenza individuale deve considerarsi come una forma della distribuzione economica e della reciproca imposizione di tributi (...) si immagini che la scorta di una merce necessaria improvvisamente diminuisca in misura considerevole: sorgerà allora da parte dei venditori un potere di sfruttamento senza limiti (...) quali enormi proporzioni possa assumere l'aumento dei prezzi è mostrato particolarmente da quelle situazioni anormali nelle quali per una durata considerevole sono troncati i rifornimenti di articoli necessari, ecc."

 

Inoltre anche nel corso normale delle cose ci sarebbero monopoli virtuali che permetterebbero un aumento arbitrario dei prezzi, per es. nelle strade ferrate, nelle società che riforniscono le città di acqua, di gas illuminante, ecc. Che tali occasioni di sfruttamento monopolistico si verifichino, è noto da un pezzo. Ma che i prezzi di monopolio che così si producano debbano valere non come eccezioni e come casi speciali, ma precisamente come esempio classico del processo con cui si determina oggi il valore, questo è nuovo. Come si stabiliscono i prezzi dei mezzi di sussistenza? Andate in una città assediata dove sono troncati i rifornimenti e informatevi! Così risponde Dühring. Come agisce la concorrenza nella determinazione dei prezzi di mercato? Interrogate il monopolio, esso vi darà la risposta.

 

Del resto anche in questi monopoli non si può scoprire l'uomo che con la spada in pugno starebbe dietro ad essi. Al contrario, in città assediate, di solito l'uomo con la spada in pugno, il comandante, se fa il suo dovere, mette rapidamente fine al monopolio e requisisce le scorte sottoposte al monopolio, al fine di un'equa distribuzione, e in quanto al resto, gli uomini con la spada in pugno, allorché hanno tentato di fabbricare un "valore di distribuzione", non altro hanno raccolto che cattivi affari e perdite di denaro. Gli olandesi, monopolizzando il commercio delle Indie orientali, hanno rovinato il loro monopolio e il loro commercio. I due governi più forti che siano mai esistiti, il governo rivoluzionario nordamericano e la Convenzione nazionale francese, ebbero l'ardire di volere imporre un calmiere dei prezzi e fallirono miseramente. Da anni il governo russo lavora per far salire a Londra, per mezzo di continui acquisti di lettere di credito tratte sulla Russia, il corso della cartamoneta russa, che esso deprime in Russia con emissioni del pari continue di biglietti di banca inconvertibili. Questo piacere gli è costato circa sessanta milioni di rubli in pochi anni e il rublo vale ora meno di due marchi anziché più di tre. Se la spada ha la magica potenza economica che Dühring le attribuisce, perché nessun governo ha potuto mai effettivamente imporre che una moneta cattiva avesse alla lunga il "valore di distribuzione" di una buona, o che degli assegnati avessero il valore di distribuzione dell'oro? E dove è quella spada che esercita il comando sul mercato mondiale?

 

Inoltre c'è ancora un'altra forma principale nella quale il valore di distribuzione rende possibile l'appropriazione di prestazioni altrui senza contropartita: la rendita del possesso, cioè la rendita fondiaria e l'interesse del capitale. Per il momento ne prendiamo atto solamente per poter dire che questo è tutto ciò che veniamo a saper sul famoso "valore di distribuzione". Tutto? Non ancora completamente tutto. Ascoltiamo:

 

"Malgrado il duplice punto di vista che emerge dalla conoscenza dell'esistenza di un valore di produzione e di un valore di distribuzione, tuttavia resta sempre alla loro base un qualche cosa di comune, come quell'oggetto di cui constano tutti i valori e con cui perciò debbono anche misurarsi. La misura immediata naturale è l'erogazione della forza e la più semplice unità è la forza umana nel senso più crudo del termine. Quest'ultima si riporta al tempo di esistenza in cui il mantenersi con i propri mezzi rappresenta a sua volta il superamento di una certa soglia di difficoltà per procacciarsi il cibo e per vivere. Il valore di distribuzione o valore di appropriazione si trova propriamente ed esclusivamente là dove c'è il potere di disporre di cose che non si sono prodotte, o, per dirla in modo più familiare, dove queste cose stesse vengono scambiate con prestazioni o beni aventi un reale valore di produzione. L'elemento comune, quale si trova significato e rappresentato in ogni espressone del valore, e perciò anche negli elementi costituiti del valore di cui ci si appropria mediante la distribuzione senza contropartita, consiste nell'erogazione di forza umana, che si (...) trova incorporata (...) in ogni merce".

 

Che cosa dobbiamo dire su questo punto? Se il valore di ogni merce deve essere misurato con l'erogazione di forza umana incorporata nelle merci, dove vanno a finire allora il valore di distribuzione, il sovrapprezzo, l'imposizione di tributi? Dühring ci dice invero che anche cose che non si sono prodotte, e che quindi non sono capaci di un valore propriamente detto, possono acquisire un valore di distribuzione ed essere scambiate con cose prodotte, aventi un valore. Ma dice nello stesso tempo che tutti i valori, e quindi anche i valori di distribuzione puri ed esclusivi, consistono in erogazione di forza incorporata in essi. Ma con questo disgraziatamente noi non riusciamo a capire come in una cosa che non è stata prodotta possa incorporasi una erogazione di forza. In ogni caso quel tanto che in tutto questo intrecciarsi di valori appare chiaro, è finalmente che il valore di distribuzione, i sovrapprezzi imposti alle merci in virtù della posizione sociale, l'imposizione di tributi per mezzo della spada, ancora una volta non contano nulla; i valori delle merci sono determinati unicamente dall'erogazione di forza umana, vulgo lavoro, che si trova incorporata in essi? Prescindendo dalla rendita fondiaria e da pochi prezzi di monopolio, Dühring dice quindi, solo più vagamente e più confusamente, la stessa cosa che la teoria del valore ricardiano-marxiana, tanto deprecata, aveva già detto da molto tempo con molta maggiore chiarezza e precisione?

 

Lo dice, e nello stesso tempo dice il contrario. Marx, movendo dalle indagini di Ricardo, dice: il valore delle merci è determinato dal lavoro genericamente umano e socialmente necessario che è incorporato in esse e che trova a sua volta la misura nella sua durata nel tempo. Il lavoro è la misura di ogni valore, esso stesso però non ha valore. Dühring, dopo avere, nella sua maniera confusa, presentato anche il lavoro come misura del valore, prosegue: esso " si riporta al tempo di esistenza in cui il mantenersi con i propri mezzi rappresenta a sua volta il superamento di una certa soglia di difficoltà per procacciarsi il cibo e per vivere". Trascuriamo la confusione, dovuta a puro e semplice amore di originalità, tra tempo di lavoro, che è la sola cosa che qui importa, e tempo di esistenza, che sinora non ha mai creato né misurato valori. Trascuriamo anche la falsa partenza "socialitaria" che il "mantenersi con i propri mezzi" di questo tempo di esistenza dovrebbe introdurre; dacché il mondo è esistito e sino a che esisterà, ognuno deve mantenere se stesso, nel senso che consuma, egli stesso, i suoi mezzi di sostentamento. Se ammettiamo che Dühring si sia espresso in linguaggio economico e con precisione, la frase riportata o non significa nulla o significa che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro incorporato in essa, e il valore di questo tempo di lavoro è determinato dai mezzi di sussistenza necessari per il mantenimento del lavoratore durante questo tempo. E ciò per la società odierna significa che il valore di una merce è determinato dal salario in essa contenuto.

 

Con questo siamo infine arrivati a ciò che propriamente Dühring vuol dire. Il valore di una merce si determina, secondo il comune linguaggio economico, mediante i costi di produzione; per contro Carey "ha messo in rilievo la verità che non i costi di produzione, ma i costi di riproduzione determinano il valore" ("Storia critica" p. 401). Che cosa siano questi costi di produzione o di riproduzione lo vedremo più tardi; qui ci limitiamo al fatto che essi constano, come è noto, di salario e di profitto del capitale. Il salario rappresenta l'"erogazione di forza" incorporata nella merce, cioè il valore di produzione. Il profitto rappresenta il tributo o sovrapprezzo che il capitalista impone grazie al suo monopolio, alla sua spada in pugno, cioè il valore di distribuzione. E così tutta la contraddittoria confusione della teoria dühringiana del valore si risolve finalmente nella più bella e armoniosa chiarezza.

 

La determinazione del valore delle merci mediante il salario, che ancora in Adam Smith si intreccia sovente con la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro, dopo Ricardo è stata bandita dall'economia scientifica e oggigiorno solo nell'economia volgare continua ancora trascinare la sua esistenza. Sono precisamente i più banali sicofanti del vigente ordinamento capitalistico quelli che predicano la determinazione del valore mediante il salario e che così contemporaneamente spacciano anche il profitto del capitalista per una specie superiore del salario, per un salario di astinenza (dovuto al fatto che il capitalista non ha dissipato nei piaceri il suo capitale), per un premio del rischio, per un salario di direzione dell'impresa, ecc. Dühring si distingue da costoro solo per il fatto che dichiara che il profitto è rapina. In altri termini Dühring fonda il suo socialismo direttamente sulle dottrine dell'economia volgare della peggiore specie. Quanto vale questa economia, tanto vale il suo socialismo. L'una e l'altro si reggono e cadono insieme.

 

Comunque questo è chiaro: che ciò che un operaio produce e ciò che costa sono cose altrettanto diverse quanto ciò che una macchina produce e ciò che costa. Il valore che un operaio crea in un tempo di lavoro di dodici ore, non ha niente in comune con il valore dei mezzi di sussistenza che consuma in questa giornata di lavoro e nel relativo periodo di riposo. In questi mezzi di sussistenza può essere incorporato un tempo di lavoro della durata di tre, quattro, sette ore, a seconda del grado di sviluppo raggiunto dalla produttività del lavoro. Supponiamo che per la sua produzione siano state necessarie sette ore di lavoro; la teoria del valore dell'economia volgare, accettata da Dühring, dice che il prodotto di dodici ore di lavoro ha il valore di sette ore di lavoro, ossia che dodici ore di lavoro sono uguali a sette ore di lavoro, ossia: 12=7. Per parlare ancora più chiaramente, un lavoratore agricolo, quali che siano le condizioni generali della società, produce una certa quantità di cereali, poniamo venti ettolitri di frumento all'anno. Durante questo tempo egli consuma una somma di valori che si esprime in una somma di quindici ettolitri di frumento. In questo caso i venti ettolitri di frumento hanno lo stesso valore dei quindici, e ciò nello stesso mercato e circostanze che peraltro restano esattamente uguali, in altri termini 20 è uguale a 15. E questa si chiama economia!

 

Tutto lo sviluppo della società umana, al di là dello stadio di selvatichezza animalesca, comincia dal giorno in cui il lavoro familiare crea più prodotti di quanti ne siano necessari al suo mantenimento, dal giorno in cui una parte del lavoro può essere applicata alla produzione non più di semplici mezzi di sussistenza, ma di mezzi di produzione. Un'eccedenza del prodotto del lavoro sui costi del mantenimento del lavoro e la formazione e l'accrescimento di un fondo sociale di produzione e di riserva per mezzo di quest'eccedenza, è stata ed è la base di ogni progresso sociale, politico ed intellettuale. Nella storia sinora questo fondo è stato il possesso di una classe privilegiata, alla quale oltre a questo possesso sono toccati anche il dominio politico e la direzione sociale. L'imminente rivoluzione sociale farà per la prima volta di questo fondo di produzione e di riserva sociale, cioè di tutta la massa di materie prime, strumenti di produzione e mezzi di sussistenza, un fondo realmente sociale, togliendone la disponibilità alla classe privilegiata e trasferendolo come bene comune a tutta la società.

 

Una delle due: o il valore delle merci si determina mediante le spese di mantenimento del lavoro necessario alla loro produzione, cioè, nella società odierna, mediante il salario. Allora ogni operaio nel suo salario riceve il valore del prodotto del suo lavoro, e quindi uno sfruttamento della classe dei salariati per mezzo della classe dei capitalisti è impossibile. Poniamo che le spese di mantenimento di un operaio siano espresse, in una data società, mediante la somma di tre marchi. Allora il prodotto giornaliero di un operaio, secondo la teoria dell'economia volgare che abbiamo riportato sopra, ha il valore di tre marchi. Supponiamo ora che il capitalista che impiega questo operaio aggiunga a questo prodotto un profitto, un tributo di un marco e lo venda a quattro marchi. Lo stesso fanno gli altri capitalisti. Ma allora l'operaio non può far fronte al suo quotidiano mantenimento con tre marchi, ne abbisogna invece anch'egli di quattro. Poiché si è supposto che tutte le altre circostanze restino identiche, il salario espresso in mezzi di sussistenza deve rimanere lo stesso, il salario espresso in denaro deve invece aumentare e precisamente da tre a quattro marchi al giorno. Ciò che i capitalisti sottraggono alla classe operaia sotto forma di profitto, glielo debbono restituire sotto forma di salario. Siamo precisamente al punto di partenza: se il salario determina il valore, non è possibile sfruttamento alcuno dell'operaio per mezzo del capitalista. Ma non è possibile neanche la formazione di un'eccedenza di prodotti; infatti, secondo il nostro presupposto, gli operai consumano precisamente tanto valore quanto ne producono. E poiché i capitalisti non producono nessun valore, non è dato scorgere di che cosa possano vivere. Ma se una tale eccedenza della produzione sul consumo, un tale fondo di produzione e di riserva tuttavia esiste, precisamente nelle mani dei capitalisti, non rimane altra spiegazione se non che gli operai consumano per il loro mantenimento semplicemente il valore delle merci, ma le merci stesse le hanno lasciate ai capitalisti per uso ulteriore.

 

O invece: se questo fondo di produzione e di riserva esiste realmente nelle mani della classe capitalistica, se realmente si è formato mediante accumulazione di profitto (lasciamo per ora fuori causa la rendita fondiaria), esso consiste necessariamente nell'eccedenza accumulata del prodotto del lavoro fornito dalla classe operaia alla classe capitalistica, eccedenza oltrepassante la somma di salari pagati dalla classe capitalistica alla classe operaia. Ma allora il valore non viene determinato dal salario, ma dalla quantità di lavoro, allora la classe operaia fornisce come prodotto di lavoro alla classe capitalistica una quantità di valore maggiore di quella che dalla classe capitalistica le viene pagata come salario e allora il profitto capitalistico, come tutte le altre forme di appropriazione di prodotto altrui non pagato, si spiega come semplice elemento costitutivo di questo plusvalore scoperto da Marx.

 

Incidentalmente: della grande scoperta con cui Ricardo apre la sua opera capitale:

 

"Che il valore di una merce (...) dipende dalla quantità di lavoro necessario alla sua produzione e non dal compenso più o meno alto pagato per questo lavoro " [97]

 

Di questa scoperta che fa epoca, in tutto il "Corso" di economia non si dice niente in nessun luogo. Nella "Storia critica" essa viene liquidata con la frase oracolare:

 

"Non fu tenuto conto" (da Ricardo) "che la misura più o meno grande in cui il salario può (!) essere un'indicazione dei bisogni della vita (...) porta necessariamente con sé anche forme molteplici di valore!".

 

Frase, questa, con cui il lettore può pensare tutto quello che vuole e con cui la cosa più sicura sarebbe per lui il non pensare assolutamente niente.

 

Ed ora il lettore, delle cinque specie di valore che Dühring ci fornisce, si cerchi da se stesso quella che più gli aggrada: o il valore di produzione che viene dalla natura, o il valore di distribuzione che è stato creato dalla malvagità degli uomini e che è caratterizzato dal fatto che è misurato dall'erogazione di forza non contenuta in esso, o in terzo luogo il valore che è misurato per mezzo del tempo di lavoro, o in quarto luogo quello che è misurato per mezzo delle spese di riproduzione o finalmente quello che è misurato per mezzo del salario. La scelta è ricca, la confusione completa e a noi non resta altro che esclamare con Dühring: "La dottrina del valore è la pietra di paragone della solidità dei sistemi economici!".

 

 

Note

 

96. P-J. Proudhon, "Qu'est-ce que la propriété?...", p. 2.

 

97. David Ricardo, "On the principles...", p. 1.

 

 

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