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da Karl Marx - Friedrich Engels, Opere Complete, vol. 20, pag 236-243, Editori Riuniti, Roma, 1987
trascrizione per www. resistenze. org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
per il prossimo anniversario della scomparsa di Engels (05/08/1895)
 
Friedrich Engels
 
Recensione del libro primo del «Capitale» per il «Demokratisches Wochenblatt» (212)
 
Demokratisches Wochenblatt, n. 12, 21 marzo 1868
 
«II capitale» di Marx*
 
I
 
Da quando ci sono al mondo capitalisti e operai non è mai apparso libro che per gli operai fosse importante quanto questo. Il rapporto tra capitale e lavoro, il cardine su cui gira tutto il nostro odierno sistema sociale, è qui per la prima volta spiegato in modo scientifico e con una profondità e un acume quali erano possibili solo a un tedesco. Per quanto preziosi siano gli scritti di un Owen, di un Saint-Simon, di un Fourier, che tali resteranno, era riservato a un tedesco di raggiungere la vetta dalla quale tutta la regione dei moderni rapporti sociali appare in una nitida chiarezza, come lo è tutto il paesaggio montuoso sottostante per l'osservatore che si trova sulla cima più alta.
 
L'economia politica fino a oggi ci ha insegnato che il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e la misura di ogni valore, cosicché due oggetti la cui produzione è costata un eguale tempo di lavoro possiedono anche lo stesso valore e, dato che in media solo valori uguali sono scambiabili tra di loro, devono anche esser scambiati l'uno contro l'altro. Ma al tempo stesso insegna che esiste una sorta di lavoro accumulato, che essa chiama capitale; che questo capitale, grazie alle risorse in esso contenute, moltiplica per cento e per mille la produttività del lavoro vivo, e pretende perciò una certa retribuzione, chiamata profitto o guadagno. Come sappiamo tutti, nella realtà ciò si traduce in un aumento sempre più massiccio dei profitti del lavoro accumulato, in un aumento sempre più colossale dei capitali dei capitalisti, mentre il salario del lavoro vivo si riduce sempre più e la massa degli operai che vivono solo del loro salario si fa sempre più numerosa e più povera. Come si può risolvere questa contraddizione? Come può ai capitalisti rimanere un profitto, nel caso che l'operaio riceva come compenso il pieno valore del lavoro che ha aggiunto al suo prodotto? E poiché vengono scambiati solo valori uguali, dovrebbe accadere appunto cosi. D'altra parte, come possono esser scambiati valori uguali, come può l'operaio ricevere il pieno valore del suo prodotto, se, come ammettono molti economisti, questo prodotto è diviso tra lui e il capitalista? L'economia è finora restata perplessa davanti a questa contraddizione, e scrive o balbetta frasi confuse e insignificanti. Anche i critici socialisti dell'economia non sono stati finora in grado altro se non di mettere in rilievo la contraddizione; nessuno l'ha risolta, fino a che Marx non ha seguito il processo genetico di questo profitto fino al suo luogo di nascita, e con ciò ha chiarito tutto.
 
Nella spiegazione del capitale, Marx parte dal dato di fatto, semplice e notorio, che i capitalisti valorizzano il loro capitale mediante lo scambio: comprano mercé per il loro denaro e la vendono poi per più denaro di quanto sia loro costata. Ad esempio, un capitalista compra del cotone per 1000 talleri, e lo rivende a 1100 talleri, e «guadagna» così 100 talleri. Quest'eccedenza di 100 talleri rispetto al capitale iniziale Marx la chiama plusvalore. Da dove nasce questo plusvalore? Secondo la supposizione degli economisti vengono scambiati solo valori uguali e, nell'ambito dell'astratta teoria, questo è anche giusto. La compera del cotone e la sua rivendita non possono perciò procurare plusvalore, come non può procurarlo lo scambio di un tallero d'argento contro trenta groschen d'argento (1), e l'ulteriore permuta della moneta spicciola contro il tallero d'argento: cosi non si diventa né più ricchi né più poveri. Il plusvalore non può però nascere neanche dal fatto che i venditori vendono le merci al di sopra del loro valore, o i compratori le comprano al di sotto del loro valore, perché ognuno è via via ora compratore ora venditore, e perciò si ristabilirebbe l'equilibrio. E nemmeno può venire dal fatto che i compratori e i venditori si imbrogliano a vicenda, dato che questo non creerebbe alcun nuovo valore o plusvalore, ma non farebbe che suddividere altrimenti tra i capitalisti il capitale disponibile. Sebbene il capitalista acquisti le merci al loro valore e al loro valore le venda, tira fuori più capitale di quanto ne ha immesso. Come accade ciò?
 
Nelle attuali condizioni sociali il capitalista trova sul mercato delle merci una merce che ha la peculiare caratteristica che il suo uso è una fonte di nuovo valore, creazione di nuovo valore, e questa merce è la forza-lavoro.
 
Qual è il valore della forza-lavoro? Il valore di ogni merce viene misurato dal tempo richiesto alla sua produzione. La forza-lavoro esiste nella forma dell'operaio vivo, il quale ha bisogno di una determinata somma di mezzi di sostentamento per la propria esistenza e per la conservazione della propria famiglia, che assicura la continuità della forza-lavoro anche dopo la sua morte. Il tempo di lavoro necessario alla produzione di questi mezzi di sostentamento rappresenta perciò il valore della forza-lavoro. Il capitalista lo paga ogni settimana, e compra cosi l'uso di una settimana di lavoro dell'operaio. Fin qui i signori economisti saranno più o meno d'accordo con noi sul valore della forza-lavoro.
 
Il capitalista mette ora al lavoro il suo operaio. Entro un determinato tempo l'operaio avrà fornito tanto lavoro quanto ne era rappresentato nel suo salario settimanale. Posto che il salario settimanale di un operaio rappresenti tre giornate lavorative, l'operaio che inizia il lunedì, la sera di mercoledì ha reintegrato al capitalista l'intero valore del salario pagato. Ma cessa allora di lavorare? Niente affatto. Il capitalista ha comprato una settimana di lavoro, e l'operaio deve lavorare ancora anche gli ultimi tre giorni della settimana. Questo pluslavoro dell'operaio, al di là del tempo necessario alla reintegrazione del suo salario, è la fonte del plusvalore, del profitto, del sempre crescente ingrossamento del capitale.
 
Non si dica che è una supposizione arbitraria che l'operaio recuperi in tre giorni il salario che ha ricevuto, e che i restanti tre giorni lavori per il capitalista. Se egli impieghi proprio tre giorni a reintegrare il salario o due o quattro, è qui in realtà del tutto indifferente, e varia anche a seconda delle circostanze; ma la cosa principale è che il capitalista accanto al lavoro che paga ricava anche del lavoro che non paga, e questa non è una supposizione arbitraria, perché il giorno in cui il capitalista tirasse fuori a lungo andare dall'operaio solo tanto lavoro quanto gliene paga, quel giorno egli chiuderebbe la sua officina, perché si dissolverebbe proprio tutto il suo profitto.
 
Abbiamo qui la soluzione di tutte quelle contraddizioni. L'origine del plusvalore (di cui il profitto del capitalista costituisce una parte rilevante) è ora del tutto chiara e naturale. Il valore della forza-lavoro viene pagato, ma questo valore è assai più piccolo di quello che il capitalista riesce a tirar fuori dalla forza-lavoro, e la differenza, il lavoro non pagato, costituisce appunto la parte del capitalista o, a esser più precisi, della classe dei capitalisti. Infatti, anche il profitto, che nel precedente esempio il commerciante di cotone tirava fuori dal suo cotone, deve consistere, se i prezzi del cotone non sono saliti, in lavoro non pagato. Il commerciante deve aver venduto a un industriale cotoniero, il quale oltre a quei 100 talleri può tirar fuori dal suo prodotto ancora un guadagno, e perciò divide con lui il lavoro non pagato da lui intascato. Questo lavoro non pagato è in generale quello che mantiene tutti i componenti della società che non lavorano. Con esso vengono pagate le imposte statali e comunali, in quanto esse colpiscono la classe dei capitalisti, le rendite fondiarie dei proprietari terrieri, ecc. Su di esso poggia l'intero ordinamento sociale vigente.
 
Sarebbe d'altra parte insensato supporre che il lavoro non pagato sia nato solo nella situazione attuale, in cui la produzione è esercitata da una parte dai capitalisti e dall'altra dai lavoratori salariati. Al contrario. In tutte le epoche la classe oppressa ha dovuto fornire-lavoro non pagato. Durante tutta la lunga epoca in cui la schiavitù era la forma predominante dell'organizzazione del lavoro, gli schiavi hanno dovuto lavorare molto più di quanto fosse loro reintegrato sotto forma di mezzi di sostentamento. Sotto il regime della servitù della gleba e fino all'abolizione delle corvées per i contadini, era lo stesso; in questo caso viene persine fuori in modo tangibile la differenza fra il tempo che il contadino lavora per il suo sostentamento e il pluslavoro per il signore, perché quest'ultimo viene compiuto separatamente dal primo. La forma ora è cambiata, ma la cosa è, rimasta, e finché «una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione» (Marx, p. 243) (2).
 
Demokratisches Wochenblatt, n. 13, 28 marzo 1868
 
II
 
Nel precedente articolo abbiamo visto che ogni operaio che viene impiegato dal capitalista compie un duplice lavoro. Durante una parte del suo tempo di lavoro reintegra il salario anticipatogli dal capitalista, e questa parte del lavoro Marx la chiama il lavoro necessario. Dopo, però, deve ancora continuare a lavorare, e durante questo tempo produce il plusvalore per il capitalista, di cui il profitto costituisce una parte rilevante. Questa parte del lavoro è chiamata il pluslavoro.
 
Supponiamo che l'operaio lavori tre giorni alla settimana a reintegrare il suo salario e tre giorni a produrre il plusvalore per il capitalista. In altre parole, questo vuol dire che, su dodici ore di lavoro al giorno, egli ne lavora sei al giorno per il suo salario e sei per la produzione di plusvalore. Dalla settimana si possono tirare fuori solo sei giorni, anche ricorrendo alla domenica solo sette, ma da ogni singolo giorno si possono tirare fuori sei, otto, dieci, dodici, quindici ore di lavoro e anche più. L'operaio ha venduto al capitalista per il suo salario giornaliero una giornata lavorativa. Ma che cos'è una giornata lavorativa? Otto ore o diciotto?
 
Il capitalista è interessato a che la giornata lavorativa venga allungata il più possibile. Quanto più lunga è, tanto più plusvalore produce. L'operaio ha la giusta sensazione che ogni ora che lavora al di là della reintegrazione del salario gli venga illegittimamente sottratta; egli deve sperimentare sulla sua pelle cosa significhi lavorare troppo a lungo. Il capitalista lotta per il proprio profitto, l'operaio per la propria salute, per un paio d'ore di riposo al giorno, per poter, oltre a lavorare, dormire e mangiare, anche vivere per il resto come un uomo. Tra parentesi, non dipende affatto dalla buona volontà dei singoli capitalisti se essi si lascino o no coinvolgere in questa lotta, perché la concorrenza costringe anche il più filantropico tra di essi a unirsi ai suoi colleghi e ad adottare un orario di lavoro della stessa durata di quello da essi fissato.
 
La lotta per la determinazione della giornata lavorativa dura dalla prima apparizione storica degli operai liberi fino ai giorni nostri. In diverse industrie vigono diverse giornate lavorative tradizionali; ma nella realtà di rado esse sono rispettate. Solo laddove la legge stabilisce la giornata lavorativa e sorveglia che essa sia rispettata, si può effettivamente dire che vi sia una giornata lavorativa normale. E ciò finora accade quasi solo nei distretti industriali inglesi. Qui è stata stabilita la giornata lavorativa di 10 ore (10 ore e mezzo per cinque giorni, 7 ore e mezzo il sabato) per tutte le donne e per i ragazzi dai 13 ai 18 anni, e poiché gli uomini senza di loro non possono lavorare, anche essi sono compresi nella giornata lavorativa di dieci ore. Questa legge gli operai di fabbrica inglesi l'hanno conquistata con una perseveranza di anni, con la lotta più dura e ostinata con i fabbricanti, con la libertà di stampa, con il diritto di coalizione e di riunione e anche con un abile uso delle spaccature nella stessa classe dominante. Essa è diventata il palladio degli operai inglesi, è stata estesa man mano a tutti i grandi settori industriali, e l'anno scorso a quasi tutte le imprese, almeno a tutte quelle in cui sono impiegati donne e bambini.
 
Sulla storia della regolamentazione per legge della giornata lavorativa in Inghilterra la presente opera contiene un materiale molto ampio. Il prossimo «Parlamento della Germania settentrionale» dovrà discutere anche su un ordinamento professionale, e con esso sulla regolamentazione del lavoro di fabbrica. Ci aspettiamo che nessuno dei deputati imposti dagli operai tedeschi vada a discutere questa legge senza aver prima acquistato piena confidenza con il libro di Marx. Molte sono le cose che si possono qui imporre. Le spaccature nelle classi dominanti sono più favorevoli agli operai di quanto non siano mai state in Inghilterra, perché il suffragio universale costringe le classi dominanti a darsi da fare a gara per il favore degli operai. Quattro o cinque rappresentanti del proletariato sono in queste circostante una potenza, se sanno sfruttare la loro posizione e se anzitutto sanno di cosa si tratta, cosa che i borghesi non sanno. E il libro di Marx mette loro in mano già bell'e pronto il materiale a questo scopo.
 
Tralasciamo una serie di ricerche assai belle di interesse più teoretico, e consideriamo solo il capitolo finale, che tratta dell'accumulazione del capitale. Qui viene anzitutto dimostrato che il metodo di produzione capitalistico, messo in atto cioè da una parte dai capitalisti e dall'altra dagli operai salariati, non riproduce soltanto sempre al capitalista il suo capitale, ma riproduce anche al tempo stesso sempre la miseria degli operai; le cose sono disposte in modo che vi siano sempre da un lato capitalisti, che sono i proprietari di tutti i mezzi di sostentamento, di tutte le materie prime e di tutti gli strumenti di lavoro, e dall'altro la gran massa degli operai, che è costretta a vendere a questi capitalisti la propria forza-lavoro in cambio di una quantità di mezzi di sostentamento che nel migliore dei casi è appena sufficiente a mantenerli in grado di lavorare e ad allevare una nuova generazione di proletari in grado di lavorare. Ma il capitale non si limita a riprodursi: viene continuamente aumentato e ingrandito: e, con esso, il suo potere sulla classe degli operai privi di beni. E com'esso stesso viene riprodotto su scala sempre maggiore, cosi il moderno modo di produzione capitalistico riproduce parimenti su scala sempre maggiore, in numero sempre crescente, la classe degli operai nullatenenti. «L'accumulazione del capitale riproduce il rapporto capitalistico su scala allargata, più capitalisti o più grossi capitalisti a questo polo e più salariati a quell'altro... L' accumulazione del capitale è quindi l'aumento del proletariato» (p. 600) (3).
 
Ma dato che, grazie al progresso delle macchine, grazie ai miglioramenti nell'agricoltura, ecc. sono necessari sempre meno operai per produrre un'uguale quantità di prodotti, dato che questo perfezionamento, cioè questo rendere eccedenti operai, cresce più rapidamente della stessa crescita del capitale, cosa ne sarà di questo sempre maggior numero di operai? Essi costituiscono un esercito industriale di riserva, che in periodi di affari cattivi o mediocri è pagato sotto il valore del suo lavoro ed è impiegato in modo irregolare o va, a carico dell'assistenza pubblica, ma che in periodi di affari particolarmente vivaci è assolutamente indispensabile alla classe dei capitalisti, come si può toccare con mano in Inghilterra, ma che in ogni caso serve a infrangere la capacità di resistenza degli operai regolarmente occupati e a tener bassi i loro salari. «Quanto maggiore è la ricchezza sociale... tanto maggiore è la sovrappopolazione relativa, ossia l'esercito industriale di riserva. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all'esercito operaio attivo» (regolarmente occupato) «tanto più massiccia sarà la sovrappopolazione consolidata, ossia quegli strati operai la cui miseria è inversamente proporzionale al tormento del loro lavoro. Quanto maggiore infine lo strato dei Lazzari della classe operaia e l'esercito industriale di riserva, tanto maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta, generale, dell'accumulazione capitalistica» (p. 631) (4).
 
Queste sono, dimostrate in modo rigorosamente scientifico — e gli economisti ufficiali si guardano bene anche solo dal tentare una confutazione — alcune delle leggi fondamentali del sistema sociale moderno, capitalistico. Ma con ciò è detto tutto? Nient'affatto. Con quanto acume Marx sottolinea i lati negativi della produzione capitalistica, con altrettanta chiarezza dimostra che questa forma sociale era necessaria per sviluppare le forze produttive della società a un grado che renderà possibile uno sviluppo egualmente degno di un uomo per tutti i componenti della società. Per questo scopo tutte le forme sociali precedenti erano troppo povere. Solo la produzione capitalistica crea le ricchezze e le forze produttive a ciò necessarie, ma essa crea anche al tempo stesso nelle masse di operai oppressi la classe sociale che sempre più viene costretta a esigere l'uso di queste ricchezze e forze produttive per tutta la società, e non, come avviene oggi, per una classe monopolistica.
 
Scritto tra il 2 e il 13 marzo 1868.
 
Note:
 
*) «II capitale. Critica dell'economia politica», di Karl Marx. Libro primo, «II processo di produzione del capitale», Amburgo, O. Meissner, 1867.
 
*1) un tallero d'argento equivale a 30 groschen (grossi) d'argento
 
*2) si veda nella presente edizione il volume XXXI
 
*3) si veda nella presente edizione il volume XXXI
 
*4) si veda nella presente edizione il volume XXXI
 
212) II «Demokratiscries Wocnenblatt» fu un foglio operaio edito a Lipsia dal gennaio 1868 al settembre 1869, sotto la direzione di Wilhelm Liebknecht. Dal dicembre 1868 fu l'organo dell'Unione delle leghe operaie tedesche, alla cui testa era August Bebel. Pubblicò numerasi documenti dell'Internazionale ed ebbe un ruolo decisivo nella costituzione del Partito operaio socialdemocratico: dal congresso di fondazione di questo (Eisenach, 1869), ne divenne l'organo, cambiando la denominazione in «Der Volksstaat». Su quest'ultimo giornale la recensione di Engels fu ripubblicata il 5 e 8 aprile 1871, nn, 28 e 29.
 

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