da Lenin, Opere Complete,
vol. 15, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp.. 23-33
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP
Lenin
Marxismo
e revisionismo
Scritto nella prima metà di aprile (seconda metà di marzo) del 1908.
Pubblicato nella raccolta Karl Marx
(1818-1883), Pietroburgo 1908.
Firmato Vl. Ilin.
Un noto adagio dice che, se gli assiomi della geometria urtassero gli interessi
degli uomini, si cercherebbe senza dubbio di confutarli. Le teorie
storico-naturali, che colpiscono i vecchi pregiudizi della teologia, hanno
provocato e provocano tuttora la lotta più furibonda. Non meraviglia quindi che
la dottrina di Marx, la quale serve direttamente a educare e organizzare la
classe d'avanguardia della società moderna, addita i compiti di questa classe e
dimostra che, in virtù dello sviluppo economico, la sostituzione del regime
attuale con un ordine nuovo è inevitabile, non meraviglia che questa dottrina
abbia dovuto farsi strada lottando a ogni passo.
Non parliamo della scienza e della filosofia borghesi, insegnate ufficialmente
da professori ufficiali per istupidire la giovane generazione delle classi
possidenti e «aizzarla» contro i nemici esterni e interni. Questa scienza non
vuole nemmeno sentir parlare del marxismo, che proclama smentito e annientato;
e i giovani scienziati, che fanno carriera confutando il socialismo, e le
vecchie cariatidi, che stanno di guardia ai comandamenti di tutti i possibili
«sistemi» decrepiti, attaccano Marx con lo stesso zelo. Lo sviluppo del
marxismo, la diffusione e il consolidamento delle sue idee in seno alla classe
operaia rendono inevitabilmente più frequenti e furiosi questi attacchi
borghesi contro il marxismo, che tuttavia, dopo ogni «colpo di grazia»
infertogli dalla scienza ufficiale, diventa più vigoroso, più temprato e più
vitale.
Ma anche fra le dottrine legate alla lotta della classe operaia, e diffuse
prevalentemente in seno al proletariato, il marxismo non ha affatto conquistato
di colpo le sue posizioni. Nei primi cinquant'anni di vita (dagli anni quaranta
del secolo scorso) il marxismo si è battuto contro teorie che gli erano
radicalmente ostili. Nella prima metà degli anni quaranta Marx e Engels hanno
fatto i conti con i giovani hegeliani radicali, che si trovavano sulle
posizioni dell'idealismo filosofico. Verso la fine degli anni quaranta ha avuto
inizio, nel campo delle dottrine economiche, la lotta contro il proudhonismo (1). Negli anni cinquanta questa battaglia è coronata dalla
critica dei partiti e delle dottrine venuti alla luce nel tempestoso 1848.
Negli anni sessanta dal campo della teoria generale la lotta si sposta in un
campo più immediatamente vicino al movimento operaio: si ha allora l'espulsione
del bakuninismo dall'Inter
nazionale (2). All'inizio
degli anni settanta, per un breve periodo, si fa avanti in Germania il
proudhoniano Mühlberger; alla fine degli anni settanta il positivista Dühring.
Ma l'influenza dell'uno e dell'altro sul proletariato è già del tutto
insignificante. Il marxismo ha ormai trionfato incondizionatamente su tutte le
altre ideologie del movimento operaio.
Negli anni novanta questa vittoria era, nel complesso, un fatto compiuto.
Persino nei paesi latini, dove le tradizioni del proudhonismo hanno resistito
più a lungo, i partiti operai hanno di fatto costruito i loro programmi e la
loro tattica su un fondamento marxista. La rinnovata organizzazione
internazionale del movimento operaio - sotto la forma di congressi
internazionali periodici - si è posta subito e quasi senza lotta sul terreno
del marxismo in tutte le questioni essenziali. Ma, non appena il marxismo ha
soppiantato tutte le dottrine a esso ostili, dotate di qualche consistenza, le
tendenze che trovavano espressione in queste dottrine hanno preso a ricercare
altre strade. Le forme e i pretesti della lotta sono cambiati, ma la lotta è
continuata. E il secondo cinquantennio di vita del marxismo ha avuto inizio
(negli anni novanta) con la lotta di una corrente ostile al marxismo in seno al
marxismo stesso.
L'ex marxista ortodosso Bernstein ha dato il nome a questa corrente (3), perché
ha fatto più rumore e formulato più organicamente le correzioni da
apportare a Marx, la revisione di Marx, il revisionismo. Persino in Russia,
dove, naturalmente, - in forza dell'arretratezza economica del paese e a causa
del predominio della popolazione contadina, schiacciata dalle sopravvivenze
della servitù della gleba, - il socialismo non marxista si è mantenuto più a
lungo, persino in Russia, esso si trasforma sotto i nostri occhi in
revisionismo. Sia nella questione agraria (programma di municipalizzazione di
tutta la terra) che nelle questioni generali del programma e della tattica i
nostri socialpopulisti sostituiscono sempre più con «correzioni» a Marx gli
ultimi residui, ormai in decomposizione, del loro vecchio sistema, a suo modo
coerente e radicalmente ostile al marxismo.
Il socialismo premarxista è sconfitto. Esso prosegue la lotta non più sul suo
proprio terreno, ma sul terreno generale del marxismo, come revisionismo.
Vediamo dunque quale sia il contenuto ideale del revisionismo.
Nel campo della filosofia il revisionismo si è messo a rimorchio della
«scienza» professorale borghese. I professori «ritornano a Kant», e il revisionismo si trascina sulle orme dei
neokantiani (4);
i professori ripetono le
trivialità pretesche, rimasticate mille volte, contro il materialismo
filosofico, e i revisionisti, sorridendo in tono di condiscendenza, borbottano
(parola per parola, secondo l'ultimo Handbuch) che il materialismo è stato già «confutato» da un pezzo; i
professori trattano Hegel come un «cane morto» (5) e, predicando essi stessi l'idealismo, ma
un idealismo mille volte più meschino e triviale di quello hegeliano, stringono
le spalle con disprezzo davanti alla dialettica, e i revisionisti strisciano
sulle loro orme nel pantano dell'involgarimento filosofico della scienza,
sostituendo alla dialettica «sottile» (e rivoluzionaria) la «semplice» (e pacifica)
«evoluzione»; i professori si guadagnano i loro stipendi adattando i loro
sistemi idealistici e «critici» alla «filosofia» medievale dominante (cioè alla
teologia), e i revisionisti li seguono sforzandosi di fare della religione un
«fatto privato», non già nei confronti dello Stato moderno, ma nei confronti
del partito della classe d'avanguardia.
Non occorre dire, perché la cosa è chiara di per sé, quale sia il reale
significato di classe di queste «correzioni» a Marx. Rileviamo soltanto che
l'unico marxista che nella socialdemocrazia internazionale abbia criticato dal
punto di vista del materialismo dialettico conseguente le inverosimili
trivialità spacciate dai revisionisti è stato Plekhanov. Questo fatto deve
essere sottolineato tanto più energicamente oggi, cioè nel momento in cui si
fanno dei tentativi profondamente sbagliati di spacciare il ciarpame filosofico
reazionario per una critica dell'opportunismo tattico di Plekhanov (*).
Nel passare all'economia politica bisogna anzitutto osservare che in questo
campo le «correzioni» dei revisionisti sono state assai più varie e
circostanziate. Ci si è sforzati di influire sul pubblico con i «nuovi dati
dello sviluppo economico». Si è detto che la concentrazione della produzione e
la sostituzione della grande alla piccola produzione non avvengono affatto nel
campo dell'agricoltura e avvengono con estrema lentezza nel campo del commercio
e dell'industria. Si è detto che le crisi sono oggi divenute più rare, meno
acute, e che con ogni probabilità i trusts e i cartelli daranno al capitale la
possibilità di eliminarle del tutto. Si è detto che la «teoria del crollo»
verso cui marcia il capitalismo è una teoria inconsistente, perché le
contraddizioni di classe tendono ad attenuarsi, ad attutirsi. Si è detto,
infine, che non è male correggere la teoria del valore di Marx secondo gli
insegnamenti di Böhm-Bawerk.
La lotta contro i revisionisti su questi problemi ha impresso al pensiero
teorico del socialismo internazionale un impulso tanto fecondo quanto quello
suscitato dalla polemica di Engels contro Dühring venti anni prima. Le
argomentazioni dei revisionisti sono state analizzate con i fatti e le cifre
alla mano. Si è dimostrato che i revisionisti idealizzano sistematicamente la
piccola produzione moderna. Il fatto della superiorità tecnica e commerciale
della grande produzionesulla
piccola, non solo nell'industria ma anche nell'agricoltura, è attestato da dati
inconfutabili. Ma nell'agricoltura la produzione di merci è sviluppata molto
più debolmente, e i moderni economisti e statistici non sanno in genere mettere
in evidenza quei settori (e talora persino quelle operazioni) speciali
dell'economia agricola da cui risulta che l'agricoltura viene attratta
progressivamente nell'orbita degli scambieconomici mondiali. La piccola produzione resiste sulle macerie
dell'economia naturale mediante l'illimitato peggioramento dell'alimentazione,
la carestia cronica, il prolungamento della giornata lavorativa, il
peggioramento qualitativo del bestiame e dell'allevamento, in breve, con gli
stessi mezzi con cui la produzione artigiana ha resistito alla manifattura
capitalistica. Ogni progresso della scienza e della tecnica scalza in modo
inevitabile e inesorabile le fondamenta della piccola produzione nella società
capitalistica, e l'economia politica socialista ha il compito di analizzare
questo processo in tutte le sue forme, spesso intricate e confuse, ha il
compito di dimostrare al piccolo produttore che gli è impossibile resistere in
regime capitalistico, che l'economia contadina non ha sbocchi in questo regime
e che il contadino deve porsi di necessità sulle posizioni del proletario. In
questa questione i revisionisti peccano sotto il profilo scientifico, perché
generalizzano superficialmente dei fatti isolati, avulsi dalla connessione con
tutto il regime capitalistico, e peccano sul piano politico, perché incitano
inevitabilinente, lo vogliano o no, il contadino o lo spingono a far proprie le
posizioni del proprietario (cioè della borghesia), invece di spingerlo verso le
posizioni del proletariato rivoluzionario.
Le cose sono andate anche peggio per i revisionisti riguardo alla teoria delle
crisi e alla teoria del crollo. Solo per un periodo molto breve e solo chi
aveva la vista corta poteva pensare di rivedere i princIpi della dottrina di
Marx sotto l'influsso di alcuni anni di ripresa. e prosperità industriale. La
realtà ha mostrato ben presto ai revisionisti che le crisi non avevano fatto il
loro tempo: alla prosperità è subentrata la crisi. Sono cambiate le forme,
l'ordine di successione, la fisionomia delle singole crisi, ma le crisi
continuano a essere parte integrante del regime capitalistico. I cartelli e i
trusts, mentre hanno unificato la produzione, ne hanno accentuato al tempo
stesso, e sotto gli occhi di tutti, l'anarchia, aggravando l'insicurezza del
proletariato e l'oppressione del capitale e inasprendo così oltre ogni limite
le contraddizioni di classe. Che il capitalismo proceda verso il crollo - sia nel senso delle singole crisi politiche
ed economiche che nel senso della catastrofe completa di tutto il regime
capitalistico - l'hanno dimostrato con singolare evidenza e in dimensioni
particolarmente ampie i giganteschi trusts contemporanei. La recente crisi
finanziaria in America, il terribile aggravarsi della disoccupazione in
tutt'Europa, per non parlare dell'imminente crisi industriale, annunciata da
molti sintomi, tutto questo ha fatto si che le recenti «teorie» dei
revisionisti venissero dimenticate da tutti e, a quanto sembra, persino da
molti revisionisti. L'importante è di non dimenticare gli insegnamenti che
questa instabilità propria degli intellettuali ha dato alla classe operaia.
Riguardo alla teoria del valore basterà dire che, a parte le lamentazioni e le
allusioni, assai nebulose, alla Böhm-Bawerk, i revisionisti non hanno dato un
bel niente e non hanno quindi lasciato traccia alcuna nello sviluppo del
pensiero scientifico.
Sul piano politico il revisionismo ha tentato di rivedere il fondamento reale
del marxismo, la dottrina della lotta di classe. La libertà politica, la
democrazia, il suffragio universale, ci è stato detto, distruggono le basi
stesse della lotta di classe e confutano la vecchia tesi del Manifesto
comunistasecondo
cui gli operai non hanno patria. In regime di democrazia, dove domina la
«volontà della maggioranza», non si può più considerare lo Stato come un organo
del dominio di classe e non ci si può più sottrarre all'alleanza con la
borghesia progressista, propugnatrice di riforme sociali, contro i reazionari.
È incontestabile che queste obiezioni dei revisionisti danno vita a un sistema
abbastanza organico di idee, cioè al sistema già noto da un pezzo delle
concezioni liberali borghesi. I liberali hanno sempre sostenuto che il
parlamentarismo borghese distrugge le classi e la divisione in classi, perché
tutti i cittadini senza distinzione hanno diritto al voto, hanno diritto di
partecipare agli affari dello Stato. Ma tutta la storia dell'Europa nella
seconda metà del XIX secolo, tutta la storia della rivoluzione russa all'inizio
del secolo XX dimostrano chiaramente quanto siano assurde queste concezioni.
Con la libertà del capitalismo «democratico» le differenze economiche non si
attenuano, ma si accentuano e si inaspriscono. Il parlamentarismo non elimina
ma mette a nudo l'essenza delle repubbliche borghesi più democratiche come
organi dell'oppressione di classe. Aiutando a illuminare e ad organizzare masse
popolari infinitamente più grandi di quelle che partecipavano prima attivamente
alle vicende politiche, il parlamentarismo non contribuisce per questa via a
eliminare le crisi e le rivoluzioni politiche, ma contribuisce a rendere più
acuta la guerra civile nel corso di queste rivoluzioni. Gli avvenimenti di
Parigi nella primavera del 1871 e quelli di Russia nell'inverno del 1905 hanno
dimostrato nel modo più chiaro come si giunga inevitabilmente a questo
inasprimento della guerra civile. La borghesia francese, per soffocare il
movimento proletario, non ha esitato un istante ad accordarsi con il nemico di
tutta la nazione, ad accordarsi con l'esercito straniero, che le aveva
saccheggiato la patria.
Chi non comprende l'inevitabile dialettica interna del parlamentarismo e della
democrazia borghese, che porta a risolvere i conflitti ricorrendo a forme sempre
più aspre di violenza di massa, non saprà mai condurre nemmeno sul terreno del
parlamentarismo un'agitazione e una propaganda di principio, che preparino
realmente le masse operaie a partecipare vittoriosamente a questi «conflitti».
L'esperienza delle alleanze, degli accordi e dei blocchi con il liberalismo
socialriformistico in Occidente e con il riformismo liberale (cadetti) nella
rivoluzione russa ha dimostrato persuasivamente che questi accordi possono solo
annebbiare la coscienza delle masse, non accentuando ma attenuando il
significato reale della loro lotta, legando i combattenti agli elementi più
inetti alla lotta, più instabili e inclini al tradimento. Il millerandismo
francese - cioè l'esperienza più significativa nell'applicazione della tattica
politica revisionistica su vasta scala, su una scala realmente nazionale - ha dato del revisionismo un giudizio
pratico che il proletariato del mondo intero non dimenticherà mai.
Il naturale coronamento delle tendenze economiche e politiche del revisionismo
è stato il suo atteggiamento verso l'obiettivo ultimo del movimento socialista.
«Il fine è nulla, il movimento è tutto »: queste alate parole di Bernstein
esprimono meglio di tante lunghe disquisizioni l'essenza del revisionismo.
Determinare la propria linea di condotta caso per caso; adattarsi ai fatti del
giorno e alle svolte dei piccoli fatti politici; dimenticare gli interessi
fondamentali del proletariato e i tratti essenziali di tutto il regime
capitalistico, di tutta l'evoluzione del capitalismo; sacrificare questi
interessi fondamentali ai reali o presunti vantaggi del momento: ecco la
politica revisionistica. Dalla sostanza stessa di questa politica risulta
chiaramente che essa può assumere forme infinitamente varie e che ogni problema
in qualche misura «nuovo», ogni svolta più o meno inattesa e imprevista, pur se
modifica in misura infima e per un periodo assai breve il corso fondamentale
degli eventi, deve suscitare inevitabilmente questa o quella variante del
revisionismo.
Il revisionismo è reso inevitabile dalle sue radici di classe nella società
moderna. Il revisionismo è un fenomeno internazionale. Per ogni socialista in
qualche modo esperto e capace di riflettere non può esistere il minimo dubbio
che i rapporti tra gli ortodossi e i bernsteiniani in Germania, tra i seguaci
di Guesde e quelli di Jaurès (e oggi soprattutto i seguaci di Brousse) in
Francia, tra la Federazione socialdemocratica e il Partito laburista
indipendente in Inghilterra, tra de Brouckère e Vandervelde in Belgio, tra integralisti
e riformisti in Italia, tra bolscevichi e menscevichi in Russia sono
dappertutto, nella loro essenza, omogenei, nonostante l'immane varietà di
condizioni nazionali e situazioni storiche di questi paesi nel momento attuale.
La «divisione» in seno al socialismo internazionale del nostro tempo già oggi
si produce in sostanza secondo una linea unicanei diversi paesi, attestando così l'immenso progresso
realizzato rispetto a trenta o quarant'anni fa, quando nei diversi paesi
lottavano tra loro in seno al socialismo internazionale unico tendenze
eterogenee. Anche il «revisionismo di sinistra», che si è delineato oggi nei
paesi latini come «sindacalismo rivoluzionario», si adatta al marxismo
«correggendolo»: Labriola in Italia, Lagardelle in Francia si richiamano senza
tregua a un Marx ben compreso contro un Marx male inteso.
Non possiamo indugiare qui sull'analisi del contenuto ideale di questorevisionismo, che è ancora ben
lontano dall'essersi sviluppato come il revisionismo opportunistico, che non è
ancora diventato un fenomeno internazionale, che non ha ancora affrontato
nessuna battaglia pratica importante con il partito socialista in nessun paese.
Ci limiteremo quindi a parlare del «revisionismo di destra» che abbiamo
descritto sopra.
Che cosa rende inevitabile il revisionismo nella società capitalistica? Perché
esso è più profondo delle particolarità nazionali e dei gradi di sviluppo del
capitalismo? Perché in ogni paese capitalistico, accanto al proletariato,
esistono sempre larghi strati di piccola borghesia, di piccoli proprietari. Il
capitalismo è nato e nasce continuamente dalla piccola produzione. Tutta una
serie di «strati intermedi» viene creata immancabilmente dal capitalismo
(appendici della fabbrica, lavoro a domicilio, piccoli laboratori che sorgono
in tutto il paese per sovvenire alle necessità della grande industria, di
quella automobilistica e delle biciclette, per esempio). Questi nuovi piccoli
produttori vengono inevitabilmente respinti nelle file del proletariato.
È quindi assolutamente naturale che le concezioni piccolo-borghesi penetrino di
nuovo nelle file dei grandi partiti operai. È assolutamente naturale che così
debba avvenire e avvenga sino allo sviluppo della rivoluzione proletaria,
perché sarebbe un grave errore pensare che per compiere questa rivoluzione sia
necessaria la «completa» proletarizzazione della maggioranza della popolazione.
Ciò che noi sperimentiamo oggi soltanto sul piano ideale, le polemiche contro
gli emendamenti teorici a Marx, ciò che si manifesta oggi nella pratica solo a
proposito di certi problemi particolari del movimento operaio, le divergenze
tattiche con i revisionisti e le scissioni che si producono su questo terreno,
tutto questo la classe operaia dovrà subirlo immancabilmente e in proporzioni infinitamente
più grandi quando la rivoluzione proletaria avrà acuito tutte le questioni
controverse, concentrato tutte le divergenze sui punti che assumono un
significato immediato nel determinare la linea di condotta delle masse e
imposto, nel fuoco della lotta, di discernere i nemici dagli amici, di
respingere i cattivi alleati per vibrare al nemico colpi decisivi.
La lotta ideale del marxismo rivoluzionario contro il revisionismo alla fine
del secolo XIX è soltanto il preludio delle grandi battaglie rivoluzionarie del
proletariato, che avanza verso la vittoria completa della sua causa, nonostante
tutti i tentennamenti e le debolezze della piccola borghesia.
Note
*) Si
vedano i Saggi
intorno alla filosofia del marxismodi Bogdanov, Bazarov e altri. Non è questa la sede per
analizzare tale libro e per il momento devo limitarmi a dichiarare che in un prossimo futuro dimostrerò, in una
serie di articoli o in un opuscolo a sé (6), che tuttoquanto viene detto nel testo a
proposito dei revisionisti neokantiani è valido, nella sostanza, anche per
questi «nuovi» revisionisti neohumiani e neoberkeleyani.
1) Si veda, in
particolare, Karl Marx, Miseria della
filosofia, Roma, Edizioni Rinascita, ,1950.
2) Bakunin e Guillaume, leaders
dell'anarchismo, furono espulsi dalla I Internazionale
al congresso dell'Aja (1872). Sul bakuninismo si vedano gli scritti di Marx e
di Engels raccolti in Contro l'anarchismo, Roma,
Edizioni Rinascita, 1950, e L'Internazionale
e gli anarchici,Roma, Editori Riuniti, 1965.
3) Su Bernstein il bernsteinismo si vedano i seguenti scritti
di Lenin: Protesta dei socialdemocratici
russi, Il nostro programma, Che fare? e Dissensi nel movimento operaio europeo (nella presente
edizione, v. 4, pp. 167-181 e 211.215; v. 5, pp. 319-490; v. 16, pp. 320-324).
4) Per la
polemica di Lenin contro i «neokantiani» si vedano: Il contenuto economico del populismo e la sua critica nel libro del
signor Struve (cfr., nella presente edizione, v. 1, pp. 341-523), Una critica acritica (cfr., nella presente
edizione, v. 4, pp. 327-352) e Materialismo
e empiriocriticismo (cfr. nella presente edizione, v. 14).
5) Karl Marx, Il capitale, Roma,
,Editori ..Riuniti, 1964, I, p. 44.
6) Cfr. Materialismo e
empiriocriticismo (v. 14 della presente edizione).