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Karl Marx
CRITICA DEL PROGRAMMA DI GOTHA
Realizzato da Marx nel 1875 e pubblicato da Engels nel 1891.
Le lettere scritte a Bebel e a Kautsky sono di Engels
La traduzione è conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca.
INDICE
Prefazione di Friedrich Engels
Lettera a Wilhelm Brake
Note in margine al programma del Partito operaio tedesco
I
IV
Lettera ad August Bebel
Lettera a Karl Kautsky
Note
Prefazione di Friedrich Engels [1]
Il manoscritto qui pubblicato - tanto la lettera di accompagnamento
a Bracke come la critica del progetto di programma - fu mandato a Bracke nel
1875, poco prima del Congresso di unificazione di Gotha, perché lo comunicasse
a Geib, Auer, Bebel, e Liebknecht e quindi lo rinviasse a Marx. Poiché il
Congresso del partito di Halle ha messo all’ordine del giorno del partito la
discussione del programma di Gotha, crederei di commettere un atto illecito se
sottraessi ancora più a lungo alla pubblicità questo importante documento, anzi
il più importante documento relativo alla discussione attuale.
Ma il manoscritto ha anche un’altra e ben maggiore importanza. Per la prima
volta è esposta qui in modo chiaro e netto la posizione di Marx di fronte
all’indirizzo seguito da Lassalle dal suo ingresso nel movimento, e tanto per
ciò che riguarda i principi economici quanto per ciò che riguarda la tattica di
Lassalle.
La severità senza riguardi con cui viene esaminato qui il progetto di
programma, l’inesorabilità con cui vengono esposti i risultati ottenuti e messi
in luce i difetti del progetto - tutto questo non può più offendere oggi, dopo
quindici anni. Lassalliani veri e propri esistono soltanto più all’estero, come
rovine isolate, e il programma di Gotha è stato abbandonato ad Halle persino
dai suoi autori come assolutamente insufficiente.[2]
Ho tuttavia omesso e sostituito con dei puntini, dove ciò si poteva fare senza
nuocere alla sostanza, alcune espressioni e alcuni giudizi aspri, relativi a
singole persone. Marx stesso lo farebbe, se pubblicasse oggi il manoscritto. Il
suo linguaggio, qua e là violento, fu dettato da due circostanze. In primo
luogo Marx ed io eravamo intimamente legati e cresciuti col movimento tedesco
più che con qualsiasi altro; il decisivo passo indietro che veniva annunziato
in questo progetto di programma doveva toccarci dunque in modo particolarmente
vivo. Ma in secondo luogo eravamo impegnati allora, appena due anni dopo il
Congresso dell’Aia dell’Internazionale [3], nella lotta
più violenta contro Bakunin e i suoi anarchici, che ci rendevano responsabili
di tutto ciò che accadeva in Germania nel movimento operaio. Dovevamo dunque
attenderci che ci si attribuisse anche la segreta paternità di questo
programma. Queste considerazioni ora non hanno più ragion di essere, e con esse
non ha più ragion d’essere la necessità dei passi in questione.
Anche per ragioni relative alla legge sulla stampa alcuni passaggi sono stati
sostituiti da puntini. Ove ho dovuto scegliere un’espressione più attenuata,
l’ho messa in parentesi quadre. Nel resto, la riproduzione del manoscritto è
letterale.
Londra, 6 gennaio 1891
Londra, 5 maggio 1875
Caro Bracke!
Le seguenti note critiche in margine al programma di unificazione debbono essere
comunicate, dopo averle lette, a Geib e Auer, Bebel e Liebknecht, perché ne
prendano conoscenza. Sono sovraccarico di lavoro e debbo già superare di molto
la quantità di lavoro che i medici mi hanno prescritto. Perciò non è stato
punto un “piacere” per me lo scrivere uno scartafaccio così lungo. Ma la cosa
era necessaria, affinché i passi che io dovrò fare in seguito non vengano
fraintesi dagli amici del partito, a cui è destinata questa comunicazione. -
Alludo al fatto che dopo il Congresso di unificazione Engels ed io
pubblicheremo una breve dichiarazione, in cui dichiareremo che non condividiamo
i principi del suddetto programma e che non abbiamo niente a che fare con esso.
Ciò è assolutamente necessario, perché all’estero si diffonde premurosamente
l’opinione, alimentata dai nemici del partito - e opinione assolutamente falsa
- che noi dirigeremmo segretamente di qui il movimento del cosiddetto partito
eisenacchiano. Ancora in uno scritto russo [4],
pubblicato poco tempo fa, Bakunin, per esempio, mi rende responsabile non solo
di tutti i programmi, ecc. di quel partito, ma persino di ogni passo fatto da
Liebknecht dal momento della sua cooperazione col partito del popolo.
Prescindendo da questo è mio dovere non riconoscere nemmeno con un silenzio
diplomatico un programma che, secondo la mia convinzione, deve essere
assolutamente respinto e che demoralizza il partito.
Ogni passo di movimento reale è più importante di una dozzina di programmi. Se
non si poteva dunque - e le circostanze non lo permettevano - andare oltre il programma di Eisenach, si
sarebbe dovuto semplicemente concludere un accordo per l’azione contro il
nemico comune. Ma se si fanno dei programmi di principio (invece di rinviarli
sino al momento in cui un programma sia stato preparato da una più lunga
attività comune), si elevano al cospetto di tutto il mondo le pietre miliari
dalle quali si giudica il livello del movimento di partito. I capi dei
lassalliani sono venuti a noi perché le circostanze li hanno costretti. Se si
fosse loro dichiarato in anticipo che non si sarebbe fatto alcun traffico ai
principi, si sarebbero dovuti
accontentare di un programma di azione o di un piano di organizzazione per
un’azione comune. Invece si permette loro di intervenire armati di mandati e si
riconoscono questi mandati come obbligatori; si fa quindi una resa a
discrezione a quelli che hanno bisogno di aiuto. Per coronar l’opera, essi [5] tengono ancora un congresso prima del congresso di
compromesso, mentre il partito vero tiene il suo congresso post festum. E’ evidente che si
voleva evitare ogni critica e non permettere al proprio partito di riflettere.
Si sa che il semplice fatto dell’unificazione appaga gli operai, ma si sbaglia
pensando che questo successo momentaneo non sia stato comprato a un prezzo
troppo caro. Del resto il programma non ha nessun valore anche prescindendo dal
fatto che consacra il credo lassalliano.
Nei prossimi giorni vi manderò gli ultimi fascicoli dell’edizione francese del Capitale, La continuazione della
stampa è stata per lungo tempo impedita dal divieto del governo francese. Si
finirà in settimana o all’inizio della settimana seguente. Avete ricevuto i sei
precedenti fascicoli? Inviatemi per favore anche l’indirizzo di Bernardo Becker
a cui voglio pure inviare gli ultimi fascicoli. La libreria del Volksstaat ha maniere sue speciali.
Così per esempio, sino ad ora, non mi ha fatto avere nemmeno un solo esemplare
della ristampa del Processo dei
comunisti a Colonia.
Con i migliori saluti
Vostro Karl Marx
Note in
margine al programma del Partito operaio tedesco
I
l. “Il lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà, e poiché un lavoro utile è possibile
solo nella società e mediante la società, il frutto del lavoro appartiene
integralmente, a ugual diritto, a tutti i membri della società”
Prima parte del paragrafo. “Il
lavoro è la fonte di ogni ricchezza e di ogni civiltà.”
Il lavoro non è la fonte di
ogni ricchezza. La natura è la
fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!)
altrettanto quanto il lavoro, che esso stesso, è soltanto la manifestazione di
una forza naturale, la forza-lavoro umana. Quella frase si trova in tutti i
sillabari, e intanto è giusta in quanto è sottinteso che il lavoro si esplica con i mezzi e con gli
oggetti che si convengono. Ma un programma socialista non deve indulgere a tali
espressioni borghesi tacendo le condizioni
che solo danno loro un senso. E il lavoro dell’uomo diventa fonte di valori
d’uso, e quindi anche di ricchezze, in quanto l’uomo entra preventivamente in
rapporto, come proprietario, con la natura, fonte prima di tutti i mezzi e
oggetti di lavoro, e la tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno i
loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché dalle condizioni naturali
del lavoro ne consegue che l’uomo, il quale non ha altra proprietà all’infuori
della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di
civiltà, lo schiavo di quegli uomini che si sono resi proprietari delle
condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e
quindi può vivere solo col loro permesso.
Lasciamo ora la proposizione come essa è e scorre, o piuttosto come essa
zoppica. Che cosa se ne sarebbe atteso come conseguenza? Evidentemente questo:
“Poiché il lavoro è la fonte di ogni ricchezza, anche nella società nessuno si
può appropriare ricchezza se non come prodotto del lavoro. Se dunque un membro
della società non lavora egli stesso, vuol dire che egli vive di lavoro altrui
e che si appropria anche della propria cultura a spese di lavoro altrui.”
Invece di questo, col giro di parole: “e
poiché” viene aggiunta una seconda proposizione per trarre una
conclusione da essa e non dalla prima.
Seconda parte del paragrafo:
“Un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società.”
Secondo la prima proposizione il lavoro era la fonte di ogni ricchezza e di
ogni civiltà, e quindi nessuna società era possibile senza lavoro. Ora veniamo
a sapere, viceversa, che nessun lavoro “utile” è possibile senza società.
Si sarebbe potuto dire ugualmente bene che solo nella società un lavoro
inutile, e persino dannoso alla società stessa, può diventare una fonte di
guadagno, che solo nella società si può vivere di ozio, ecc., ecc., - si
sarebbe potuto, in breve, trascrivere tutto Rousseau.
E che cosa è lavoro “utile”? Solo il lavoro che porta l’effetto utile voluto.
Un selvaggio - e l’uomo è un selvaggio, dopo che ha cessato di essere una scimmia
- che abbatte un animale con un sasso, che raccoglie frutti, ecc., compie un
lavoro “utile.”
In terzo luogo: la conclusione:
“E poiché un lavoro utile è possibile solo nella società e mediante la società,
il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual diritto, a tutti i
membri della società.”
Bella conclusione! Se il lavoro utile è possibile solo nella società e mediante
la società, il frutto del lavoro appartiene alla società - e al singolo
lavoratore ne tocca solo quel tanto che non è necessario per mantenere la
“condizione” del lavoro, la società.
In realtà questa proposizione è stata sostenuta in ogni tempo dai difensori del
regime sociale esistente. In
prima linea vengono le pretese del governo, con tutto ciò che vi sta attaccato,
perché esso è l’organo della società per il mantenimento dell’ordine sociale;
indi vengono le pretese delle diverse specie di proprietà privata, poiché le
diverse specie di proprietà privata sono le basi della società, e così via. Si
vede che queste frasi vuote si possono girare e rigirare come si vuole.
La prima e la seconda parte del paragrafo hanno un costrutto intelligibile solo
in questa redazione:
“Il lavoro diventa fonte della ricchezza e della civiltà solo come lavoro
sociale” o, ciò che è lo stesso, “nella società e mediante la società.”
Questa proposizione è indiscutibilmente esatta, perché se anche il lavoro
isolato (premesse le sue condizioni oggettive) può creare valori d’uso, esso
non può creare né ricchezze né civiltà.
Ma ugualmente inoppugnabile è l’altra proposizione:
“Nella misura in cui il lavoro si sviluppa socialmente e in questo modo diviene
fonte di ricchezza e di civiltà, si sviluppano povertà e indigenza dal lato
dell’operaio, ricchezza e civiltà dal lato di chi non lavora.”
Questa è la legge di tutta la storia sinora vissuta. Quindi, invece di fare
delle frasi generiche sul “lavoro” e sulla “società,” bisognava dimostrare
concretamente come nella odierna società capitalistica si sono finalmente
costituite le condizioni materiali, ecc., che abilitano e obbligano gli operai
a spezzare quella maledizione sociale.
Ma in realtà l’intero paragrafo, sbagliato nella forma e nel contenuto, è stato
inserito soltanto per poter scrivere come rivendicazione sulla bandiera del
partito la formula di Lassalle sul “frutto integrale del lavoro.” Tornerò in
seguito sul “frutto del lavoro,” sull’”ugual diritto,” ecc., poiché la stessa
cosa ritorna in forma alquanto diversa.
2. “Nella società presente, i mezzi di lavoro sono monopolio della classe dei
capitalisti. La dipendenza della classe operaia da ciò determinata è la causa
della miseria e dell’asservimento in tutte le forme.”
Questa proposizione, presa dallo Statuto internazionale è, in questa edizione
“corretta,” falsa.
Nella società presente i mezzi di lavoro sono monopolio dei proprietari
fondiari (il monopolio della proprietà fondiaria è anzi base del monopolio del
capitale) e dei capitalisti. Lo
Statuto internazionale non menziona nel passo relativo né l’una né l’altra
classe dei monopolizzatori. Esso parla del “monopolio dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti dell’esistenza.”
L’aggiunta “fonti dell’esistenza”
mostra a sufficienza che la terra è compresa nei mezzi di lavoro.
La correzione fu portata perché Lassalle, per ragioni ora universalmente note,
attaccava solo la classe dei
capitalisti, non i proprietari fondiari. In Inghilterra il capitalista, per lo
più, non è in pari tempo proprietario del suolo su cui sorge la sua fabbrica.
3. “L’emancipazione del lavoro richiede la elevazione dei mezzi di lavoro a
proprietà comune della società e l’organizzazione collettiva del lavoro
complessivo con giusta ripartizione del frutto del lavoro.”
Invece di “elevazione dei mezzi di lavoro a proprietà comune” sarebbe meglio
dire loro “trasformazione in proprietà comune”; ma la cosa è d’importanza
secondaria.
Che cosa è “frutto del lavoro”? Il prodotto del lavoro o il suo valore? E,
nell’ultimo caso, il valore complessivo del prodotto o solo quella parte di
valore, che il lavoro ha aggiunto al valore dei mezzi di produzione consumati?
“Frutto del lavoro” è una rappresentazione vaga, che Lassalle ha messo al posto
di concetti economici determinati.
Che cosa è “giusta ripartizione”?
Non affermano i borghesi che l’odierna ripartizione è “giusta”? E non è essa in
realtà l’unica ripartizione “giusta” sulla base dell’odierno modo di
produzione? Sono i rapporti economici regolati da concetti giuridici oppure non
sgorgano, al contrario, i rapporti giuridici da quelli economici? Non hanno
forse i membri delle sètte socialiste le più diverse concezioni della “giusta”
ripartizione?
Per sapere che cosa si deve intendere in questo caso sotto la frase “giusta
ripartizione,” dobbiamo confrontare il primo paragrafo con questo. Quest’ultimo
paragrafo suppone una società in cui “i mezzi di lavoro sono proprietà comune e
il lavoro complessivo è organizzato su una base collettiva,” mentre nel primo
paragrafo vediamo che “il frutto del lavoro appartiene integralmente, a ugual
diritto, a tutti i membri della società.”
“A tutti i membri della società”? Anche a quelli che non lavorano? E dove se ne
va allora il “frutto integrale del lavoro”? Solo ai membri della società che
lavorano? E dove se ne va, allora, “l’ugual diritto” di tutti i membri della
società?
Ma “tutti i membri della società” e “l’ugual diritto” sono evidentemente solo
modi di dire. Il nocciolo sta in questo, che in questa società comunista ogni
operaio deve ricevere un lassalliano “frutto del lavoro” “integrale.”
Se prendiamo la parola “frutto del lavoro” nel senso del prodotto del lavoro,
il frutto del lavoro sociale è il prodotto
sociale complessivo.
Ma da questo si deve detrarre:
Primo: quel che occorre per
reintegrare i mezzi di produzione consumati.
Secondo: una parte
supplementare per l’estensione della produzione.
Terzo: un fondo di riserva o di
assicurazioni contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc.
Queste detrazioni dal “frutto integrale del lavoro” sono una necessità
economica, e la loro entità deve essere determinata in parte con un calcolo di
probabilità in base ai mezzi e alle forze presenti, ma non si possono in alcun
modo calcolare in base alla giustizia.
Rimane l’altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo
di consumo.
Prima di venire alla ripartizione individuale, anche qui bisogna detrarre:
Primo: le spese d’amministrazione
generale che non rientrano nella produzione.
Questa parte è ridotta sin dall’inizio nel modo più notevole rispetto alla
società attuale, e si ridurrà nella misura in cui la nuova società si verrà
sviluppando.
Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione di
bisogni sociali, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc.
Questa parte aumenta sin dall’inizio notevolmente rispetto alla società attuale
e aumenterà nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando.
Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro, ecc.,
in breve, ciò che oggi appartiene alla cosiddetta assistenza ufficiale dei
poveri.
Soltanto ora arriviamo a quella “ripartizione,” che è la sola che, sotto
l’influenza di Lassalle, grettamente viene presa in considerazione dal
programma, cioè la ripartizione di quella parte dei mezzi di consumo che viene
ripartita tra i produttori individuali della comunità.
Il “frutto integrale del lavoro” si è già nel frattempo cambiato nel frutto del
lavoro “ridotto,” benché ciò che viene sottratto al producente nella sua
qualità di privato torni a suo vantaggio nella sua qualità di membro della
società.
Come è scomparsa la frase del “frutto integrale del lavoro,” scompare ora la
frase del “frutto del lavoro” in generale.
Nell’interno della società collettivista, basata sulla proprietà comune dei
mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il
lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi
posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori
individuali non diventano più parti costitutive del lavoro complessivo
attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L’espressione “frutto del
lavoro,” che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così
ogni senso.
Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma
viceversa, come sorge dalla
società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico,
morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno essa
è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni -
esattamente ciò che dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità
individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della
somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del
singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale conferita da
lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla
società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la
detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli
ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale a un lavoro
corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in
una forma, la riceve in un’altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci
in quanto è scambio di valori uguali. Contenuto e forma sono mutati, perché
nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e
perché d’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori
dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di
questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello
scambio di merci equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma
contro una uguale quantità in un’altra.
L’uguale diritto è qui perciò
sempre, secondo il principio, diritto
borghese, benché principio e pratica non si accapiglino più, mentre
l’equivalenza delle cose scambiate nello scambio di merci esiste solo nella media, non per il caso singolo.
Nonostante questo processo, questo ugual
diritto è ancor sempre contenuto entro un limite borghese. Il diritto
dei produttori è proporzionale
alle loro prestazioni di lavoro, l’uguaglianza consiste nel fatto che esso
viene misurato con una misura uguale,
il lavoro.
Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi
nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo;
e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata
o l’intensità, altrimenti cessa di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale, per
lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché
ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente
l’ineguale attitudine individuale e quindi la capacità di rendimento come
privilegi naturali. Esso è perciò, pel
suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. Il
diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell’applicazione di un’uguale
misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non
fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono
sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto
secondo un lato determinato:
per esempio in questo caso, soltanto
come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni
altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l’altro no; uno ha più figli
dell’altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione
al fondo di consumo sociale, l’uno riceve dunque più dell’altro, l’uno è più
ricco dell’altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il
diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale.
Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società
comunista, quale è uscita dopo i lunghi travagli del parto dalla società
capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione
economica e dello sviluppo culturale da essa condizionato, della società.
In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la
subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi
anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale; dopo che il lavoro non
è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo
che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze
produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la
loro pienezza, - solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere
superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: - Ognuno secondo le sue
capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!
Mi sono occupato ampiamente del “frutto integrale del lavoro” da una parte,
dall’altra parte dell’”ugual diritto,” della “giusta ripartizione,” per
mostrare quanto si vaneggia, allorché da un lato si vogliono nuovamente imporre
come dogmi al nostro partito concetti, che in un certo momento avevano un
senso, ma che ora sono diventati frasi antiquate; e, dall’altro lato, quanto la
concezione realistica, così faticosamente acquisita al partito ma che ora si è
radicata in esso, viene di nuovo deformata con fandonie ideologiche di
carattere giuridico e simili, così comuni tra i democratici e i socialisti
francesi.
Prescindendo da quanto si è detto sin qui, era soprattutto sbagliato fare della
cosiddetta ripartizione
l’essenziale e porre su di essa l’accento principale.
La ripartizione dei mezzi di consumo è in ogni caso soltanto conseguenza della
ripartizione dei mezzi di produzione. Ma quest’ultima ripartizione è un
carattere del modo stesso di produzione. Il modo di produzione capitalistico,
per esempio, poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono
a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà
della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale
della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione
così ripartiti, ne deriva da se l’odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se
i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne
deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall’attuale.
Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui
una parte della democrazia), l’abitudine di considerare e trattare la
distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di
rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno
alla distribuzione. Dopo che il rapporto reale è stato da molto tempo messo in
chiaro, perché tornare nuovamente indietro?
4. “L’emancipazione del lavoro dev’essere l’opera della classe operaia, di
fronte alla quale tutte le altre classi costituiscono una sola massa reazionaria.”
La prima strofa è presa dalle parole introduttive degli Statuti internazionali,
ma in forma “migliorata.” Ivi si dice: “L’emancipazione della classe operaia,
dev’essere l’opera degli operai stessi.” Qui invece “la classe operaia” ha da
liberare: che cosa? “Il lavoro.” Capisca chi può.
In cambio l’antistrofa è una citazione di Lassalle della più bell’acqua: “di
fronte alla quale (alla classe operaia) tutte le altre classi costituiscono una sola massa reazionaria.”
Nel Manifesto comunista si
dice:
“Di tutte le classi, che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il
proletariato è una classe veramente
rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono colla grande
industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino.”
La borghesia è concepita qui come classe rivoluzionaria - in quanto organizzatrice
della grande industria - rispetto alle classi feudali e ai ceti medi, i quali
vogliono difendere tutte le posizioni sociali che sono l’immagine di modi di
produzione antiquati. Queste ultime classi non costituiscono dunque insieme alla borghesia una sola massa reazionaria.
D’altra parte il proletariato è rivoluzionario rispetto alla borghesia, perché,
cresciuto egli stesso sul terreno della grande industria, si sforza di
strappare alla produzione il carattere capitalistico, che la borghesia cerca di
eternare. Ma il Manifesto
aggiunge, che “i ceti medi... diventano rivoluzionari in vista della loro
imminente caduta nelle condizioni del proletariato.”
Anche da questo punto di vista è dunque un assurdo affermare che esse
costituiscano insieme alla borghesia e ai feudali, per giunta, “una sola massa
reazionaria” rispetto alla classe operaia.
Nelle ultime elezioni [6] si è forse detto agli
artigiani, ai piccoli industriali, ecc. e ai contadini: di fronte a noi voi costituite insieme ai borghesi e
ai feudali una sola massa reazionaria?
Lassalle sapeva a memoria il Manifesto
comunista, come i suoi credenti le scritture sacre redatte da lui. Se
egli dunque lo ha falsato in modo così grossolano, ciò è stato fatto soltanto
allo scopo di giustificare la sua alleanza con gli avversari assolutisti e
feudali contro la borghesia.
Nel paragrafo che stiamo esaminando, inoltre, la sua sapiente sentenza viene
citata a sproposito, senza alcun legame con la citazione deturpata dello Statuto
dell’Internazionale. Si tratta dunque qui semplicemente di un’impertinenza, e
tale da non dispiacere al signor Bismarck; una di quelle vigliaccherie a buon
mercato, quali ne ha il Marat di Berlino. [7]
5. “La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale,
essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune
agli operai di tutti i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei
popoli.”
In opposizione al Manifesto comunista
e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento
operaio dal più angusto punto di vista nazionale. Si va dietro a lui in questo,
e ciò dopo l’azione dell’Internazionale!
S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si
deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato
della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il
contenuto, ma “per la forma.” Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale,” per
esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito”
del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. Ogni
buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio
estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di
politica internazionale.
E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla
coscienza che il risultato del suo sforzo “sarà l’affratellamento internazionale dei popoli,” - frase presa
a prestito dalla Lega borghese della libertà e della pace [8],
e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle
classi operaie, nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi.
Nemmeno una parola, dunque delle funzioni
internazionali della classe operaia tedesca! E così essa deve far fronte
alla propria borghesia, affratellata, contro di essa, con la borghesia di tutti
gli altri paesi, e alla politica di cospirazione internazionale del signor
Bismarck.
In realtà l’internazionalismo del programma è infinitamente al di sotto perfino di quello del partito del
libero scambio. Anche questo partito sostiene che il risultato del suo sforzo è
“l’affratellamento internazionale dei popoli.” Ma esso fa pure qualche cosa per rendere internazionale il commercio e
non si accontenta di sapere che tutti i popoli, nel proprio paese, a casa loro,
fanno del commercio.
L’attività internazionale delle classi operaie non dipende in alcun modo
dall’esistenza della “Associazione internazionale degli Operai.” Questa fu
soltanto il primo tentativo di creare un organo centrale di quella attività;
tentativo che, con l’impulso che dette, ebbe un risultato permanente, ma, nella
sua prima forma storica, non
poteva più essere continuato a lungo dopo la caduta della Comune di Parigi.
La Norddeutsche di Bismarck era
completamente nel suo diritto quando annunciava, con soddisfazione del suo
padrone, che il partito operaio tedesco ha ripudiato, nel nuovo programma,
l’internazionalismo. [9]
“Prendendo le mosse da questi principi, il Partito operaio tedesco si sforza di
raggiungere con tutti i mezzi legali lo Stato
libero - e - la società
socialista; l’eliminazione del sistema del salario con la legge bronzea del salario - e - dello
sfruttamento sotto ogni aspetto; la eliminazione di ogni disuguaglianza sociale
e politica.”
Sullo Stato “libero” ritornerò più tardi.
Dunque, per l’avvenire, il Partito operaio tedesco dovrà credere alla “legge
bronzea del salario” di Lassalle! Perché essa non vada perduta, si commette
l’assurdo di parlare dell’”eliminazione del sistema del salario” (si doveva
dire: sistema del lavoro salariato) con
la “legge bronzea del salario.” Se elimino il lavoro salariato, elimino,
naturalmente anche le sue leggi, siano esse “bronzee” oppure flosce. Ma la
lotta di Lassalle contro il lavoro salariato si aggira quasi esclusivamente
attorno a questa cosiddetta legge. Per provare, dunque, che la sètta
lassalliana ha vinto, si deve eliminare il “sistema del salario con la legge bronzea del salario” e
non senza di essa.
Della “legge bronzea del salario,” com’è noto, a Lassalle non appartiene che la
parola “bronzea,” che egli ha preso a prestito dalle “eterne, grandi, bronzee
leggi” di Goethe. La parola bronzea
è un sigillo a cui gli ortodossi si riconoscono tra di loro. Ma se accetto la
legge con la impronta di Lassalle, e perciò nel senso che egli le ha dato,
debbo accettarla anche con la sua giustificazione. E quale è questa
giustificazione? - Come ha dimostrato Lange subito dopo la morte di Lassalle, è
la teoria della popolazione di Malthus (predicata dallo stesso Lange). Ma se
questo è esatto io non posso
eliminare la legge, se anche elimino cento volte il sistema del lavoro
salariato, perché in questo caso la legge non regola soltanto il sistema del
lavoro salariato, ma ogni
sistema sociale. Ed è precisamente poggiandosi su questo che gli economisti
hanno dimostrato da cinquant’anni e più che il socialismo non può eliminare la
miseria essendo questa di origine
naturale, ma può solo renderla
generale, distribuirla su tutta la superficie della società ad un tempo.
Ma tutto questo non è la cosa principale. Prescindendo completamente dalla falsa concezione della legge da parte di Lassalle, il vero
rivoltante regresso consiste in questo:
Dopo la morte di Lassalle si è fatto strada nel nostro partito il criterio scientifico che il salario non è ciò
che sembra essere, cioè il valore e rispettivamente il prezzo del lavoro, ma solo una forma mascherata del valore, rispettivamente del prezzo della forza-lavoro. Con ciò tutta la vecchia concezione
borghese del salario, come la critica finora diretta contro di essa, è stata
una volta per sempre gettata a mare e si è messo in chiaro che l’operaio
salariato ha il permesso di lavorare per la sua propria vita, cioè di vivere, solo in quanto lavora, per
un certo tempo, gratuitamente, per il capitalista (e quindi anche per quelli
che insieme col capitalista consumano il plusvalore); che tutto il sistema di
produzione capitalistico si aggira attorno al problema di prolungare questo
lavoro gratuito prolungando la giornata di lavoro o sviluppando la produttività
cioè con una maggiore tensione della forza-lavoro, ecc,; che dunque il sistema
del lavoro salariato è un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa
sempre più dura nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del
lavoro, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio. E dopo
che questo criterio si è fatto sempre più e più strada nel nostro partito, si
ritorna ai dogmi di Lassalle, benché ormai si debba sapere che Lassalle non sapeva ciò che è il salario, ma,
seguendo gli economisti borghesi, prendeva la parvenza per la sostanza della
cosa.
E’ come se tra gli schiavi venuti finalmente a capo del mistero della schiavitù
e diventati ribelli, uno schiavo prigioniero di concetti antiquati scrivesse
nel programma della ribellione: la schiavitù dev’essere abolita, perché il
mantenimento degli schiavi nel sistema della schiavitù non può sorpassare un
certo massimo poco elevato!
Il semplice fatto che i rappresentanti del nostro partito sono stati capaci di
commettere un così enorme attentato al criterio diffuso nella massa del
partito, mostra da solo con quale insolente leggerezza, con quale mancanza di
coscienza essi si sono accinti alla redazione del programma di compromesso!
Invece dell’indeterminata frase conclusiva del paragrafo “l’eliminazione di
ogni disuguaglianza politica e sociale,” si doveva dire che con l’abolizione
delle distinzioni di classe, scompaiono da sé tutte le disuguaglianze sociali e
politiche che ne derivano.
“Il Partito operaio tedesco, per spianare
la via alla soluzione della questione
sociale, chiede l’istituzione di cooperative di produzione con l’aiuto dello Stato, sotto il controllo
democratico del popolo lavoratore. Le cooperative di produzione si debbono creare, per l’industria e
per l’agricoltura, in tali proporzioni, che
da esse sorga l’organizzazione socialista del lavoro complessivo.”
Dopo la “legge bronzea del salario” di Lassalle, lo specifico del profeta. La
via viene “spianata” in degna maniera. In luogo della esistente lotta di
classi, subentra una frase da giornalista: “la questione sociale” alla cui “soluzione” si “spiana la via.” Invece che da un processo di
trasformazione rivoluzionaria della società l’”organizzazione socialista del
lavoro complessivo” - “sorge” dall’”aiuto dello Stato,” che lo Stato dà a
cooperative di produzione, che esso,
e non l’operaio, “crea.” Che si
possa costruire con l’aiuto dello Stato una nuova società, come si costruisce
una nuova ferrovia, è degno dell’immaginazione di Lassalle.
Per un resto di pudore l’”aiuto dello Stato” viene posto sotto il controllo
democratico del “popolo lavoratore.”
In primo luogo, “il popolo lavoratore” in Germania consta nella sua maggioranza
di contadini e non di proletari.
In secondo luogo, “democratico” significa in tedesco “secondo la volontà del
popolo” (volksherrschaftlich).
Ma che cosa vuol dire “il controllo secondo la volontà del popolo esercitato
dal popolo lavoratore”? E per un popolo di lavoratori, poi, il quale ponendo
allo Stato queste rivendicazioni dimostra di avere piena coscienza di non
essere al potere e di non essere maturo per il potere!
E’ superfluo estendersi qui sulla critica della ricetta data da Buchez sotto
Luigi Filippo, in antitesi ai
socialisti francesi e accettata dagli operai reazionari dell’Atelier [10].
La cosa principale inoltre non consiste nell’avere fatto entrare nel programma
questa cura specifica miracolosa, ma nell’essere andati indietro dalla
posizione del movimento di classe a quella del movimento delle sètte.
Il fatto che gli operai vogliono instaurare le condizioni della produzione
cooperativa su una scala sociale, e per cominciare nel loro paese, su una scala
nazionale, significa soltanto che essi lavorano al rivolgimento delle attuali
condizioni di produzione, e non ha niente di comune con la fondazione di
società cooperative con l’aiuto dello Stato. Ma, per ciò che riguarda le
odierne società cooperative, esse hanno un valore soltanto in quanto sono creazioni operaie indipendenti, non
protette né dai governi né dai borghesi.
Vengo ora al capitolo democratico.
A. “Base libera dello Stato.”
Dapprima, secondo il II capitolo, il Partito operaio tedesco mira allo “Stato
libero.”
Stato libero: che cosa è questo?
Non è punto scopo degli operai, che si sono liberati dal gretto spirito di
sudditanza, di rendere libero lo Stato. Nel Reich tedesco lo “Stato” è “libero”
quasi come in Russia. La libertà, consiste nel mutare lo Stato da organo
sovrapposto alla società in organo assolutamente subordinato ad essa, e anche
oggigiorno le forme dello Stato sono più libere o meno libere nella misura in
cui limitano la “libertà dello Stato.”
Il Partito operaio tedesco - almeno se fa proprio il programma - mostra come in
esso non sono penetrate a fondo le idee socialiste; perché, invece di trattare
la società presente (e ciò vale anche per ogni società futura) come base dello Stato esistente (e futuro
per la futura società), tratta piuttosto lo Stato come un ente indipendente,
che ha le sue proprie basi spirituali
e morali libere.
E ora veniamo al deplorevole abuso che il programma fa delle parole “Stato odierno” “società odierna” e al manifesto
ancora più deplorevole, che esso crea circa lo Stato a cui dirige le sue
rivendicazioni!
La “società odierna” è la società capitalistica, che esiste in tutti i paesi
civili, più o meno libera di appendici medioevali, più o meno modificata dallo
speciale svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo “Stato
odierno,” invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich
tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è diverso che
negli Stati Uniti. “Lo Stato odierno” è dunque una finzione.
Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte
differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno
della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di
vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri
essenziali. In questo senso si può parlare di uno “Stato odierno,” in
contrapposto al futuro, in cui la presente radice dello Stato, la società
borghese, sarà perita.
Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società
comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora,
che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può
rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la parola
popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure
di una spanna.
Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della
trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un
periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Ma il programma non si occupa né di quest’ultima né del futuro Stato della
società comunista.
Le sue rivendicazioni politiche non contengono nulla oltre all’antica ben nota
litania democratica: suffragio universale, legislazione diretta, diritto del
popolo, armamento del popolo, ecc. Esse sono una pura eco del partito popolare
borghese, della Lega per la pace e la libertà. Esse sono tutte rivendicazioni
che, nella misura in cui non sono esagerate da una rappresentazione fantastica,
sono già realizzate. Ma lo
Stato in cui esse sono realizzate non si trova entro i confini del Reich
tedesco, ma nella Svizzera, negli Stati Uniti, ecc. Questa specie di “Stato
futuro” è uno Stato odierno benché esistente fuori “dell’ambito” del Reich
tedesco.
Si è però dimenticata una cosa. Poiché il Partito operaio tedesco dichiara
espressamente di muoversi entro “l’odierno Stato nazionale” e quindi entro il suo Stato, entro il Reich
tedesco-prussiano - altrimenti le sue rivendicazioni sarebbero in massima parte
prive di senso, perché si rivendica solo ciò che non si ha - esso non dovrebbe
dimenticare la cosa principale, e cioè che tutte quelle belle cosette poggiano
sul riconoscimento della cosiddetta sovranità del popolo e perciò sono a posto
solo in una repubblica democratica.
Poiché non si ha il coraggio - e saviamente, giacché le circostanze impongono
prudenza - di chiedere la repubblica democratica, come fecero i programmi
operai francesi sotto Luigi Filippo e sotto Luigi Napoleone, non si sarebbe
dovuto ricorrere alla finta, che non è né “onesta” [11]
né “dignitosa,” di richiedere cose, che hanno senso solo in una repubblica
democratica, ad uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare,
mascherato di forme parlamentari, mescolato con appendici feudali, influenzato
già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi
polizieschi; e per giunta assicurare solennemente a questo Stato che ci si
immagina di strappargli qualcosa di simile con “mezzi legali.”
La stessa democrazia volgare, che vede nella repubblica democratica il regno
millenario e non si immagina nemmeno che appunto in questa ultima forma statale
della società borghese si deve decidere definitivamente con le armi la lotta di
classe - la stessa democrazia volgare sta ancora infinitamente al di sopra di
questa specie di democratismo entro i confini di ciò che è permesso dalla
polizia e non è permesso dalla logica.
Che, in realtà, s’intende per “Stato” la macchina del governo, ossia lo Stato,
in quanto costituisce un organismo a sé, separato dalla società in seguito a
una divisione del lavoro, lo mostrano già le parole: “il Partito operaio
tedesco richiede come base economica
dello Stato un’imposta progressiva unica sul reddito, ecc.” Le imposte
sono la base economica della macchina del governo e niente altro. Nello Stato
futuro esistente nella Svizzera questa rivendicazione è quasi soddisfatta. Una
imposta sul reddito presuppone le diverse fonti di reddito delle diverse classi
sociali, quindi la società capitalistica. Non vi è quindi nulla di sorprendente
nel fatto che i fautori della riforma finanziaria di Liverpool - dei borghesi
col fratello di Gladstone alla testa avanzino la stessa rivendicazione.
B. “Il Partito operaio tedesco chiede come base spirituale e morale dello
Stato:
l. Educazione popolare generale
ed uguale per tutti per opera
dello Stato. Istruzione generale obbligatoria, insegnamento gratuito.”
Educazione popolare uguale per tutti?
Che cosa ci si immagina con queste parole? Si crede forse che nella società
odierna (e solo di essa si tratta) l’educazione possa essere uguale per tutte le classi? Oppure si
vuole che anche le classi superiori debbano essere coattivamente ridotte a
quella modesta educazione - la scuola popolare - che sola è compatibile con le
condizioni economiche, non solo degli operai salariati, ma anche dei contadini?
“Istruzione generale obbligatoria. Insegnamento gratuito.” La prima esiste
anche in Germania, il secondo nella Svizzera e negli Stati Uniti per le scuole
popolari. Se in alcuni Stati dell’America del Nord anche gli istituti di
istruzione superiore sono “gratuiti,” in linea di fatto ciò significa soltanto
che si sopperisce alle spese per l’educazione delle classi dirigenti coi mezzi
forniti in generale dalle imposte. Lo stesso vale, per giunta, per
l’”assistenza giuridica gratuita” richiesta al paragrafo A. 5. La giustizia
criminale è dappertutto gratuita. La giustizia civile si aggira quasi
esclusivamente intorno a conflitti di proprietà; tocca quindi quasi
esclusivamente le classi possidenti. Debbono esse fare le loro cause a spese
della tasca del popolo?
Il paragrafo sulle scuole avrebbe dovuto per lo meno chiedere delle scuole
tecniche (teoriche e pratiche) in unione con la scuola popolare.
E’ assolutamente da respingere una “educazione
del popolo per opera dello Stato.” Fissare con una legge generale i
mezzi delle scuole popolari, la qualifica del personale insegnante, i rami
d’insegnamento, ecc., e, come accade negli Stati Uniti, sorvegliare per mezzo
di ispettori dello Stato l’adempimento di queste prescrizioni legali, è
qualcosa di affatto diverso dal nominare lo Stato educatore del popolo!
Piuttosto si debbono ugualmente escludere governo e Chiesa da ogni influenza
sulla scuola. Nel Reich tedesco-prussiano (e non si ricorra alla vana
scappatoia di dire che si parla di uno “Stato futuro”; abbiamo veduto come
stanno le cose a questo proposito) è lo Stato, al contrario, che ha bisogno di
un’assai rude educazione da parte del popolo.
Ma l’intiero programma, nonostante tutta la fanfara democratica, è
continuamente ammorbato dallo spirito di fede servile nello Stato, proprio
della sètta lassalliana, o, ciò che non è meglio, dalla fede democratica nei
miracoli, o è piuttosto un compromesso tra queste due specie di fede nei
miracoli, entrambe ugualmente lontane dal socialismo.
“Libertà della scienza,” dice
un paragrafo della Costituzione prussiana. Perché dunque parlarne qui!
“Libertà di coscienza!” Se in
questo periodo di Kulturkampf [12] si volessero ricordare al liberalismo le sue vecchie
parole d’ordine, ciò si potrebbe fare solo in questa forma: ognuno deve poter
soddisfare tanto i suoi bisogni religiosi quanto i suoi bisogni materiali senza
che la polizia vi ficchi il naso. Ma il partito operaio doveva pure in questa
occasione esprimere la sua convinzione che la “libertà di coscienza” borghese
non è altro che la tolleranza di ogni specie possibile di libertà di coscienza religiosa, e che il partito operaio si
sforza, invece, di liberare le coscienze dallo spettro della religione. Ma si
preferisce non andare oltre il limite.
Sono giunto alla fine, perché l’appendice che segue nel programma, non
costituisce un elemento caratteristico di esso. Perciò mi esprimerò qui assai
brevemente.
2. “Giornata di lavoro normale.”
Nessun partito operaio di nessun altro paese si è limitato ad una tale
rivendicazione indeterminata, ma tutti hanno sempre fissato la lunghezza della
giornata di lavoro che considerano normale nelle circostanze del momento.
3. “Limitazione del lavoro delle donne e divieto del lavoro dei fanciulli.”
Il regolamento della giornata di lavoro deve già includere la limitazione del
lavoro delle donne, in quanto si riferisce a durata, interruzioni, ecc. della
giornata di lavoro; altrimenti può solo significare esclusione del lavoro delle
donne da rami di lavoro che sono specialmente nocivi per l’organismo femminile
o incompatibili col sesso femminile per la moralità. Se si pensava a questo
bisognava dirlo.
“Proibizione del lavoro dei fanciulli.”
Qui era assolutamente necessario dare i limiti d’età.
La proibizione generale del
lavoro dei fanciulli è incompatibile con l’esistenza della grande industria, ed
è perciò un vano, pio desiderio. La sua realizzazione - quando fosse possibile
- sarebbe reazionaria, perché se si regola severamente la durata del lavoro
secondo le diverse età e si prendono altre misure precauzionali per la
protezione dei fanciulli, il legame precoce tra il lavoro produttivo e la istruzione
è uno dei più potenti mezzi di trasformazione della odierna società.
4. “Sorveglianza da parte dello Stato dell’industria di fabbrica, artigiana e
casalinga.”
Trattandosi dello Stato tedesco-prussiano si doveva chiedere concretamente che
gli ispettori possano venir licenziati solo per via giudiziaria; che ogni
operaio possa denunziarli ai tribunali per violazione del loro dovere; che
debbano essere dei medici.
5. “Regolamento del lavoro carcerario.”
Domanda piccina in un programma generale operaio. In ogni caso bisognava dire
chiaramente che non si vuole, per paura della concorrenza, che i delinquenti
comuni siano trattati come bestiame e che si tolga loro l’unico mezzo di
correggersi, il lavoro produttivo. Eppure questo era il minimo che si potesse
attendere da socialisti.
6. “Una efficace legge sulla responsabilità.”
Si doveva dire che cosa s’intende per legge “efficace” sulla responsabilità.
Si osservi inoltre come, trattando della giornata normale di lavoro, si è
trascurata quella parte della legislazione di fabbrica che riguarda le misure
sanitarie e la protezione contro i pericoli, ecc. La legge sulla responsabilità
entra in azione soltanto quando vengono violate queste prescrizioni.
In breve, anche quest’appendice si distingue per la sua redazione trasandata.
Dixi et salvavi animam meam.
Londra, 18 (28) marzo 1875
Caro Bebel!
Ho ricevuto la vostra lettera del 23 febbraio e sono contento che stiate così
bene di salute.
Mi chiedete qual è la mia opinione circa la questione dell’unità. Purtroppo ci
siamo trovati nella stessa situazione di voi. Né Liebknecht né alcun altro ci
ha fatto una comunicazione qualunque, e perciò anche noi conosciamo soltanto
ciò che vi è sui giornali, e sui giornali non vi è stato niente; fino a che
otto giorni fa non ci è giunto il progetto di programma. Esso ha destato in noi
non poco stupore.
Il nostro partito ha così spesso steso la mano ai lassalliani per una
conciliazione o per lo meno per un’alleanza, ed è stato così spesso e così
sprezzantemente respinto dagli Hasenclever, Hasselmann e Tölckes, che ogni
bambino poteva tirarne la conclusione che se questi uomini oggi vengono a noi e
offrono di mettersi d’accordo, si debbono trovare in un terribile frangente. Ma
considerando il ben noto carattere di costoro, noi siamo in dovere di sfruttare
questo frangente per strappare tutte le garanzie possibili affinché essi non
possano a scapito del nostro partito ristabilire agli occhi dell’opinione
pubblica operaia la loro posizione scossa. Si dovrebbe riceverli in modo
estremamente freddo e con diffidenza, far dipendere l’unificazione dal grado
della loro buona disposizione a lasciar cadere le loro parole d’ordine settarie
e il loro aiuto statale, e accettare in sostanza il programma di Eisenach del
1869 o una sua edizione corretta, adattata alla situazione odierna. Il nostro
partito non ha assolutamente nulla da
imparare dai lassalliani nel campo teorico, cioè in ciò che è decisivo
per il programma; i lassalliani invece hanno molto da imparare dal nostro
partito. La prima condizione della fusione avrebbe dovuto essere che cessassero
di essere settari, lassalliani; che dunque rinunciassero prima di tutto alla
panacea universale dell’aiuto statale, o per lo meno lo riducessero ad una
misura transitoria subordinata, accanto e dopo molte altre. Il progetto di
programma dimostra che i nostri, cento volte superiori ai capi lassalliani
teoricamente sono cento volte inferiori a loro per scaltrezza politica; ancora
una volta gli “onesti” sono stati duramente gabbati dai disonesti.
Prima di tutto, si accetta la frase lassalliana sonora, ma storicamente falsa,
che rispetto alla classe operaia tutte le altre classi costituirebbero una sola
massa reazionaria. Questa affermazione è vera solo in singoli casi eccezionali,
per esempio in una rivoluzione del proletariato come la Comune, o in un paese
in cui non soltanto la borghesia ha foggiato a propria immagine lo Stato e la
società, ma dopo di essa anche la piccola borghesia democratica ha portato
questa trasformazione sino alle sue ultime conseguenze. Se per esempio in
Germania la piccola borghesia democratica appartenesse a questa massa
reazionaria, come avrebbe potuto il Partito socialdemocratico operaio procedere
per anni in stretta alleanza con essa, cioè col partito del popolo? E come può
il Volksstaat [13]
prendere quasi tutto il suo contenuto politico dalla democratica
piccolo-borghese Frankfurter Zeitung?
[14] E come si possono includere in questo stesso
programma non meno di sette rivendicazioni che coincidono direttamente e
letteralmente col programma del partito del popolo e della democrazia
piccolo-borghese? Intendo le sette rivendicazioni politiche da l a 5 , e da l a
2, di cui non ve ne è una sola che non sia democratico-borghese. [15]
In secondo luogo, il principio del carattere internazionale del movimento
operaio viene per il presente completamente negato nella pratica degli uomini
che per cinque anni e nelle circostanze più difficili hanno difeso questo
principio nel modo più glorioso. La posizione degli operai tedeschi alla testa
del movimento europeo riposa essenzialmente
sul loro atteggiamento schiettamente internazionalistico durante la guerra;
nessun altro proletariato si sarebbe condotto così bene. Ed ora questo
principio dovrebbe essere negato da loro nel momento in cui dappertutto
all’estero gli operai gli danno tanto più rilievo quanto più i governi si
sforzano di soffocare ogni loro tentativo di attuarlo in una organizzazione! E
che cosa rimane in sostanza dell’internazionalismo del movimento operaio? La
pallida prospettiva, non di una futura cooperazione degli operai europei per la
loro liberazione, no, ma di una futura “fratellanza internazionale dei popoli,”
degli “Stati uniti d’Europa” dei borghesi della Lega della pace!
Naturalmente non era necessario parlare dell’Internazionale come tale. Ma per
lo meno non si doveva fare nessun passo addietro rispetto al programma del 1869
e dire, ad esempio, che benché
il partito operaio tedesco operi innanzi
tutto entro i confini statali che gli sono posti (esso non ha nessun
diritto di parlare a nome del proletariato europeo, e specialmente di dire
delle cose sbagliate), esso è cosciente della sua solidarietà con gli operai di
tutti i paesi e sarà sempre pronto ad adempiere nell’avvenire, come ha fatto
sino ad ora, gli obblighi impostigli da questa solidarietà. Simili obblighi
esistono anche senza che ci si proclami o consideri parte
dell’”Internazionale”; e consistono ad esempio in aiuti materiali e nella lotta
contro il crumiraggio in caso di sciopero, nel curare che gli organi di partito
mantengano gli operai tedeschi informati del movimento estero, nel condurre
un’agitazione contro minaccianti o scoppiate guerre di gabinetto, nel
comportarsi nel corso di esse così come si è dato mirabile esempio nel 1870 e
1871.
In terzo luogo, i nostri si sono lasciata imporre la “legge bronzea del
salario” lassalliana, che riposa su una concezione economica del tutto antiquata,
cioè che l’operaio riceve in media solo il minimo del salario e precisamente perché secondo la teoria della
popolazione di Malthus vi sono sempre troppi operai (questa era la
dimostrazione lassalliana). Orbene, Marx ha ampiamente dimostrato nel Capitale che le leggi che regolano il
salario sono molto complicate; che a seconda della situazione prevale ora
l’una, ora l’altra di esse, che esse non sono quindi per niente bronzee, ma al
contrario molto elastiche; e che il problema non può affatto venire risolto con
un paio di parole, come si immaginava Lassalle. La dimostrazione malthusiana
della legge che Lassalle ha copiato da Malthus e da Ricardo (falsificando
quest’ultimo), com’essa si trova citata ad esempio nel Libro di lettura per operai, pagina 5, da un altro opuscolo di
Lassalle, è stata ampiamente confutata da Marx nel capitolo sul “processo di
accumulazione del capitale.” Facendo propria la “legge bronzea del salario” di
Lassalle si sono quindi accettati un principio falso e una falsa dimostrazione
di esso.
In quarto luogo, il programma presenta come rivendicazione sociale unica l’aiuto statale
lassalliano nella sua, forma più sfacciata, come Lassalle l’aveva rubato a
Buchez, e ciò dopo che Bracke ha dimostrato molto bene tutta la inconsistenza di
questa rivendicazione; [16] dopo che quasi tutti, se non
tutti, gli oratori del nostro partito nella lotta contro i lassalliani sono
stati costretti a prendere posizione contro questo “aiuto statale.” Il nostro
partito non poteva umiliarsi di più. L’internazionalismo abbassato al livello
di Armand Gögg [17], il socialismo al livello del
repubblicano borghese Buchez, che avanzava questa rivendicazione contro i socialisti, per batterli!
Nel migliore dei casi però l’”aiuto statale” nel senso lassalliano è solo una tra le numerose misure per
raggiungere lo scopo, che qui viene indicato con l’espressione insipida: “Per
avviarsi alla soluzione della questione sociale,” come se per noi esistesse
ancora una questione sociale
teoricamente insoluta! Se
dunque si dicesse: il partito operaio tedesco lotta per la soppressione del
lavoro salariato e quindi delle differenze di classe mediante l’introduzione
della produzione collettiva nell’industria e nell’agricoltura e su scala
nazionale; esso sostiene ogni misura atta a raggiungere questo scopo - nessun
lassalliano potrebbe avere qualcosa da obiettare.
In quinto luogo, non si fa parola dell’organizzazione della classe operaia come
classe a mezzo dei sindacati di mestiere. E questo è un punto molto essenziale,
perché questa è la vera organizzazione di classe del proletariato, in cui esso
combatte le sue lotte quotidiane contro il capitale, in cui si addestra, e che
oggi nemmeno la peggiore reazione (come ora a Parigi) non è più in grado di
distruggere. Data l’importanza che questa organizzazione assume anche in
Germania, noi pensiamo che sarebbe assolutamente necessario ricordarla nel
programma, e possibilmente farle un posto nell’organizzazione del partito.
Tutto questo hanno fatto i nostri per far piacere ai lassalliani. E che cosa
hanno concesso gli altri? Che figuri nel programma un mucchio di rivendicazioni puramente democratiche
abbastanza confuse, di cui alcune non sono altro che oggetti di moda, come per
esempio la “legislazione da parte del popolo,” che esiste nella Svizzera e reca
più danno che utile, se pure reca in generale qualche cosa. Amministrazione da parte del popolo,
almeno significherebbe qualche cosa. Manca egualmente la prima condizione di
ogni libertà: che tutti gli impiegati siano responsabili delle azioni compiute
nell’esercizio delle loro funzioni rispetto ad ogni cittadino davanti ai
tribunali comuni e secondo il diritto comune. E non voglio indugiarmi sul fatto
che rivendicazioni come la libertà della scienza e la libertà di coscienza
figurano in ogni programma liberale borghese e qui appaiono un po’ fuori di
luogo.
Lo Stato popolare libero si è trasformato in Stato libero. Secondo il senso
grammaticale di queste parole, uno Stato libero è quello che è libero verso i
suoi cittadini, cioè è uno Stato con un governo dispotico. Sarebbe ora di farla
finita con tutte queste chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune,
che non era più uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci
hanno abbastanza rinfacciato lo “Stato popolare,” benché già il libro di Marx
contro Proudhon [18] e in seguito il Manifesto comunista
dicano esplicitamente che con l’instaurazione del regime sociale socialista lo
Stato si dissolve da sé e scompare. Non essendo lo Stato altro che
un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella
rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici, parlare di uno
“Stato popolare libero” è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno
non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dello schiacciamento dei
suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato
come tale cessa di esistere. Noi proporremmo quindi di mettere ovunque invece
della parola “Stato,” la parola “Comune,” una vecchia eccellente parola
tedesca, che corrisponde alla parola francese “Commune.”
“Eliminazione di ogni disuguaglianza sociale e politica” è anche una frase
molto dubbia invece di: “Soppressione di tutte le differenze di classe.” Tra
paese e paese, tra provincia e provincia persino tra località e località
sussisterà sempre una certa
disuguaglianza di condizioni di esistenza, che si potrà ridurre a un minimo, ma
non si potrà mai sopprimere del tutto. Gli abitanti delle Alpi avranno sempre
condizioni di vita diverse da quelle degli abitanti della pianura. La
rappresentazione della società socialista come regno dell’uguaglianza è una
rappresentazione francese unilaterale, derivante dal vecchio “libertà,
uguaglianza, fratellanza”. E’ una rappresentazione che era giustificata a suo
tempo e a suo luogo come una determinata tappa
dello sviluppo; ma che oggi dovrebbe essere superata come tutte le
unilateralità delle vecchie scuole socialiste, perché esse creano soltanto
confusione e perché si sono trovate forme più precise di esposizione della
questione.
Termino, benché quasi ogni parola sarebbe da criticare in questo programma, che
inoltre è redatto in modo fiacco e scolorito. Esso è tale che, se verrà
approvato, Marx od io non potremmo mai
considerarci aderenti al nuovo
partito creato su questa base, e dovremmo riflettere molto esso - anche
pubblicamente. Tenete conto che all’estero si considera noi come responsabili di ogni parola e di ogni atto del Partito
socialdemocratico operaio tedesco. Così fa seriamente alla posizione che
dovremmo assumere verso di Bakunin nel suo scritto Politica e anarchia, in cui ci fa carico di ogni parola
inconsiderata detta o scritta da Liebknecht dalla fondazione del Demokratisches Wochenblatt. [19] La gente si immagina che noi dirigiamo tutto di qui a
bacchetta, mentre voi sapete quanto me che noi non ci siamo mai menomamente
immischiati nelle questioni interne di partito, e se lo abbiamo fatto è stato
solo per correggere, possibilmente, errori che a nostro modo di vedere si erano
commessi, e per giunta soltanto nel
campo teorico. Comprenderete però voi stesso, che questo programma
costituisce una svolta che potrebbe molto facilmente costringerci a respingere
da noi ogni responsabilità per il partito che lo accetterà.
In generale il programma ufficiale di un partito ha minore importanza di ciò
che esso fa. Ma un nuovo
programma è sempre una bandiera innalzata pubblicamente, e il mondo esteriore
da esso giudica il partito. Perciò esso non dovrebbe contenere in nessun caso
un passo indietro, come il progetto in considerazione di fronte al programma di
Eisenach. Si dovrebbe anche riflettere a ciò che diranno di questo programma gli
operai degli altri paesi; quale impressione farà questa capitolazione di tutto
il proletariato socialista tedesco davanti al lassallianismo.
Sono inoltre convinto che una unità su questa
base non durerà un anno. Le migliori teste del nostro partito dovrebbero
prestarsi a rimasticare le frasi lassalliane imparate a memoria sulla legge
bronzea dei salari e sull’aiuto statale? Vorrei ben vedervi voi a farlo! E se
lo faceste, i vostri uditori vi fischierebbero. D’altra parte sono convinto che
i lassalliani insistono precisamente su questi
punti del programma, come lo strozzino Shylock per avere la sua libbra di
carne. Si verrà alla scissione; ma avremo restaurato l’”onore” di Hasselmann,
Hasenclever, Tölcke, e consorti; noi usciremo dalla scissione più deboli e i
lassalliani più forti; il nostro partito avrà perduto la sua verginità politica
e non potrà mai più combattere di buon animo contro le frasi lassalliane, che
esso avrà già scritto per un periodo di tempo sulla sua stessa bandiera; e
quando i lassalliani ripeteranno di essere l’unico genuino partito operaio e i
nostri dei borghesi, il programma sarà là per dimostrarlo. Tutte le misure
socialiste nel programma appartengono a
loro, e il nostro
partito non vi ha aggiunto altro che rivendicazioni della democrazia
piccolo-borghese, la quale però è anch’essa designata da lui nel programma stesso come parte della “massa
reazionaria”!
Avevo trattenuto la lettera, perché sarete messo in libertà il 1° aprile in
onore del compleanno di Bismarck, e non volevo esporla al rischio di essere
sequestrata in un tentativo di farla giungere di contrabbando. Ed ecco arriva
una lettera di Bracke, che ha anche lui dei dubbi seri sul programma e vuole
conoscere la nostra opinione. Perciò mando a lui la lettera da trasmettervi,
affinché egli la legga e io non debba riscrivere ancora una volta tutta la
storia. Mi sono del resto espresso chiaramente anche con Ramm; a Liebknecht ho
scritto soltanto brevemente, Non gli posso perdonare che di tutta questa
faccenda egli non ci abbia comunicato una
sola parola (mentre Ramm ed altri credevano che egli ci avesse
esattamente informati), sino a che non è stato, per così dire, troppo tardi. E’
vero che egli ha sempre fatto così, e di qui l’ampio carteggio sgradevole che
noi, Marx ed io, abbiamo avuto con lui, ma questa volta ce l’ha fatta troppo
grossa e ci rifiutiamo decisamente di
seguirlo.
Fate in modo di venire qui in estate. Naturalmente abiterete con me e se il
tempo sarà bello potremo andare un paio di giorni ai bagni di mare, il che vi
farà certamente bene dopo il lungo stare rinchiuso.
Amichevolmente vostro
F. E
Lettera a Karl Kautsky [20]
Londra, 23 febbraio 1891
Caro Kautsky,
Avrai ricevuto le mie rapide congratulazioni dell’altro ieri. Torniamo quindi
allo stesso argomento, alla lettera di Marx [21].
La paura che essa desse un’ arma agli avversari è apparsa ingiustificata.
Insinuazioni maligne possono naturalmente essere diffuse a proposito di
ciascuno e di ogni cosa, ma nel complesso gli avversari sono stati
assolutamente sbalorditi da questa critica spietata e hanno pensato: quale
forza interiore deve possedere un partito che si può concedere una cosa simile!
Ciò risulta dai fogli avversari che mi hai mandato (mille grazie!), e da quelli
che ho ricevuto per altra via. A dire il vero, questo era pure lo scopo per cui
ho pubblicato il documento. Sapevo che sulle prime avrebbe suscitato qua e là
un’impressione molto sgradevole, ma ciò era inevitabile e il contenuto era per
me di gran lunga più importante. Sapevo che il partito è abbastanza forte per
sopportare questa reazione, e contavo che oggi esso è in grado di tollerare
anche il linguaggio sincero di quindici anni or sono; che con giusto orgoglio
si sarebbe potuto riferirsi a questa prova di forze e dire: dov’è un altro
partito che osi fare lo stesso? Invece si è lasciato dire questo alla Arbeiter Zeitung di Sassonia e di
Vienna, e alla Züricher Post [22].
Se nel N. 21 della Neue Zeit
prendi su di te la responsabilità della pubblicazione, è una bella prova di
coraggio da parte tua; non dimenticare però che la prima spinta l’ho data io e
che inoltre in un certo senso ti ho costretto a farlo. Rivendico perciò la
responsabilità principale per me. Per quanto riguarda i particolari, su di essi
si può sempre essere di diverse opinioni. Ho cancellato e cambiato tutto ciò
che tu e Dietz avete richiesto, e anche se Dietz avesse cancellato di più,
avrei anche potuto lasciar fare; ve ne ho già dato parecchie prove. Ma per
quanto concerne l’essenziale, era mio
dovere pubblicare il documento appena il programma fosse venuto in
discussione. E ora poi, dopo il rapporto di Liebknecht a Halle, in cui in parte
egli utilizza con disinvoltura i suoi estratti come proprietà sua, in parte
invece polemizza contro il documento senza citarlo, Marx avrebbe certamente
contrapposto a elaborazione l’originale; e al suo posto io ero obbligato a fare
lo stesso. Disgraziatamente allora non avevo sotto mano il documento; lo trovai
solo più tardi, dopo lunghe ricerche.
Tu dici che Bebel ti scrive che il modo come Marx tratta Lassalle ha irritato i
vecchi lassalliani. Può darsi. Costoro non conoscono però la storia vera, e
sembra che non si è neanche fatto nulla per chiarir loro le cose. Se essi non
sanno che tutta la grandezza di Lassalle si basava sul fatto che Marx gli
permise per anni di farsi bello dei risultati delle ricerche di Marx come
fossero i suoi propri, e per soprappiù di falsarli per deficienza di
preparazione economica, la colpa non è mia. Ma io sono l’esecutore
testamentario letterario di Marx e come tale ho anche i miei doveri.
Lassalle appartiene da ventisei anni alla storia. Se nel periodo delle leggi
eccezionali la critica storica su di lui è stata lasciata in disparte, verrà
finalmente il momento in cui essa riprenderà i suoi diritti e si farà la luce
sulla posizione di Lassalle verso Marx. La leggenda che avvolge e divinizza la
vera figura di Lassalle non può essere per il partito un articolo di fede. Per quanto
si apprezzino altamente i meriti di Lassalle verso il movimento, la sua
funzione storica rimane equivoca. Il socialista Lassalle è accompagnato a passo
a passo dal demagogo Lassalle. Dietro l’agitatore e l’organizzatore fa capolino
dappertutto l’avvocato che diresse il processo Hatzfeld [23].
Lo stesso cinismo nella scelta dei mezzi, la stessa tendenza a circondarsi di
gente sospetta e corrotta, che si può adoprare e gettar via come semplice
strumento. Rimasto fino al 1862 praticamente un democratico volgare
specificamente prussiano con molte tendenze bonapartistiche (ho rivisto poco fa
le sue lettere a Marx), egli cambiò fronte improvvisamente per puri motivi
personali e incominciò la sua agitazione. Appena due anni dopo esigeva che gli
operai prendessero le parti della monarchia contro la borghesia, e insieme con
Bismarck, a lui affine di carattere, tesseva tali intrighi che avrebbero dovuto
portarlo a tradire veramente il movimento, se per sua fortuna non fosse stato ucciso
a tempo. Nei suoi scritti di agitazione, le idee giuste che egli prende a
prestito da Marx, si intrecciano in tal modo con le considerazioni sue proprie,
lassalliane, e regolarmente false, che è quasi impossibile separarle. Quella
parte degli operai che si sente offesa per il giudizio di Marx, non conosce
altro di Lassalle che i due anni di agitazione, e anche questi li vede
attraverso una lente colorata. Ma la critica storica non si può arrestare a
lungo, col cappello in mano, davanti a questi pregiudizi. Io avevo il diritto
di mettere in chiaro una volta per sempre i rapporti tra Marx e Lassalle.
Adesso questo è fatto, e per ora me ne posso accontentare. Inoltre io stesso ho
ora altro da fare. E la pubblicazione del giudizio spietato di Marx su Lassalle
avrà già da sola il suo effetto e incoraggerà altri. Ma se fossi costretto a
farlo, non mi rimarrebbe via di scelta: dovrei sbarazzare il terreno una volta
per sempre della leggenda lassalliana.
Che nel gruppo parlamentare [24] si sia parlato di
sottoporre a censura la Neue Zeit
è molto bello. Di che si tratta, di un fantasma della dittatura del gruppo
parlamentare del tempo della legge contro i socialisti (dittatura che era
necessaria e fu esercitata egregiamente), o di reminiscenze dell’organizzazione
un tempo rigida di Schweitzer? E’ in verità un’idea brillante quella di
sottoporre la scienza socialista tedesca, dopo la sua liberazione dalle leggi
di Bismarck contro i socialisti, a una nuova legge contro i socialisti da fabbricarsi
e applicarsi dalle istanze stesse del partito socialdemocratico. Del resto la
natura stessa pensa a che gli alberi non crescano fino al cielo [25].
L’articolo del Vorwärts mi
lascia indifferente [26]. Aspetterò che Liebknecht
racconti la storia a modo suo e poi risponderò nel tono più amichevole
possibile a entrambi. Nell’articolo del Vorwärts
vi sono solo alcune inesattezze da correggere (per esempio, che noi saremmo
stati contrari all’unità, che gli avvenimenti avrebbero dato torto a Marx,
ecc.) e vi sono delle cose evidenti da confermare. Con questa risposta penso di
chiudere la discussione da parte mia, a meno che non sia costretto a nuovi
passi da nuovi attacchi o da affermazioni inesatte.
Comunica a Dietz che sto lavorando alla Origine
[27]. Ma proprio oggi mi scrive Fischer chiedendomi tre
nuove prefazioni!
Tuo F. E.
Note
1. Engels pubblicò l’opuscolo di Marx
contro il parere dei capi della Socialdemocrazia tedesca, attenuando, com’è
detto in questa prefazione, alcune asprezze del testo marxiano. Queste ultime
sono state ripristinate in questa edizione.
2. Il Congresso di Halle, del Partito socialdemocratico
tedesco - il primo tenuto dopo l’abrogazione delle leggi eccezionali contro i
socialisti - decise il 16 ottobre 1890, su proposta di W. Liebknecht, il
principale tra gli autori del Programma di Gotha, di preparare pel Congresso
seguente un nuovo progetto di programma che venne poi approvato nell’ottobre
1891 al Congresso di Erfurt (“Programma di Erfurt”).
3. Il
quinto Congresso della I Internazionale, tenutosi all’Aia nel settembre 1872,
fu dedicato alla lotta contro i bakuninisti. La maggioranza del Congresso si
schierò col Consiglio generale, diretto da Marx. Bakunin fu escluso
dall’Internazionale.
4. Il
libro di Bakunin Lo Stato e l’anarchia,
Zurigo, 1873.
5. Cioè i capi lassalliani.
6. Le elezioni al Reichstag ebbero luogo nel gennaio 1874.
7. Verosimilmente il “Marat di Berlino” è Hasselmann,
direttore del “Neuer Sozialdemokrat,” organo centrale dei lassalliani.
8. Associazione fondata a Ginevra nel 1867, contro la quale
lottò a fondo la I Internazionale, per volere di Marx.
9. Si allude a un articolo pubblicato nella “Norddeutsche
Allgemeine Zeitung,” l’organo di Bismarck.
10. Fu la prima rivista operaia di Francia e fu pubblicata a
Parigi tra il 1840 e il 1848. La sua tendenza era cristiano-sociale.
11. Giuoco di parole: Ehrlich
(onesti) venivano chiamati gli eisenacchiani.
12. Il Kulturkampf
(la “lotta per la cultura”) è la celebre offensiva di Bismarck contro il
partito cattolico tedesco (il “Centro”) a partire dal 1870.
13. Organo centrale del Partito socialdemocratico (degli
eisenacchiani) dal 1869 al 1876.
14. Organo democratico-borghese della Germania meridionale.
15. Sono le seguenti:
“A. Come base che assicura la libertà dello Stato, il Partito operaio tedesco
rivendica:
“1. Diritto di suffragio universale, uguale, diritto e segreto per tutti gli
uomini a partire da 21 anni per tutte le elezioni nello Stato e nei comuni. 2.
Legislazione diretta da parte del popolo con diritto di presentare e respingere
proposte di legge. 3. Servizio militare generale. 4. Abolizione di tutte le leggi
eccezionali, specialmente delle leggi sulla stampa, le associazioni e le
riunioni. 5. Tribunali popolari. Assistenza giuridica gratuita.
“B. Come base spirituale e morale dello Stato il Partito operaio tedesco
rivendica:
“1. lstruzione popolare generale ed uguale da parte dello Stato. Obbligo
scolastico. Istruzione gratuita. 2. Libertà di scienza. Libertà di coscienza.”
16. Engels allude all’opuscolo di W. Bracke intitolato La proposta di Lassalle, pubblicato
nel 1873.
17. Uno dei capi della “Lega della pace e della Libertà.”
18. Si tratta di Misère
de la philosophie, pubblicato in francese nel 1847.
19. Pubblicato a Lipsia tra il 1868 e il 1869 e diretto da W.
Liebknecht.
20. Kautsky dirigeva allora il settimanale “Neue Zeit.” Torna al testo
21. Si tratta della Critica
del programma di Gotha.
22. I primi di questi due giornali erano socialdemocratici,
l’ultimo borghese.
23. Il processo per il divorzio della contessa Hatzfeld, in
cui Lassalle patrocinò la contessa negli anni tra il 1845 e il 1854.
24. Il gruppo parlamentare socialdemocratico al Reichstag.
25. Proverbio tedesco che viene qui citato a significare che
ad ogni cosa vi è un limite.
26. L’articolo editoriale del “Vorwärts,” cui qui si accenna,
apparve nell’organo centrale della socialdemocrazia tedesca il 13 febbraio 1891
ed esprimeva l’opinione ufficiale della direzione del partito circa la Critica del programma di Gotha di
Marx. L’articolo conteneva una condanna recisa del giudizio su Lassalle dato da
Marx e faceva al partito un merito di aver approvato il progetto di programma
malgrado la critica di Marx. Esso conteneva la dichiarazione seguente: “I
socialdemocratici tedeschi non sono né marxisti né lassalliani, essi sono
socialdemocratici.”
27. Si tratta della preparazione della quarta edizione dell’Origine della famiglia, della proprietà
privata e dello Stato, che fu pubblicata dalla casa editrice Dietz nel
1891