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da Lenin, Opere Complete, vol. 11, Editori Riuniti, Roma, 1962, pp.. 194-204
trascrizione e conversione in html a cura del CCDP



Lenin

La guerra partigiana


Pubblicato su Proletari, n. 5, 30 settembre 1906



Il problema delle azioni partigiane suscita un vivo interesse nel nostro partito e nelle masse operaie. Abbiamo già toccato più volte incidentalmente la questione e intendiamo ora esporre in modo più organico le nostre idee in proposito, secondo la promessa fatta.

I


Cominciamo dal principio. A quali fondamentali esigenze deve attenersi ogni marxista nell'esaminare il problema delle forme di lotta? Innanzi tutto, il marxismo si distingue da tutte le forme primitive di socialismo perché non lega il movimento a una qualsiasi forma di lotta determinata. Esso ne ammette le più diverse forme, e non le «inventa», ma si limita a generalizzarle e a organizzarle, e introduce la consapevolezza in quelle forme di lotta delle classi rivoluzionarie che nascono spontaneamente nel corso del movimento. Irriducibilmente ostile a ogni formula astratta, a ogni ricetta dottrinale, il marxismo esige un attento esame della lotta di massa in atto, che, con lo sviluppo del movimento, con l'elevarsi della coscienza delle masse, con l'inasprirsi delle crisi economiche e politiche, suscita sempre nuovi e più svariati metodi di difesa e di attacco.

Non rinuncia quindi assolutamente a nessuna forma di lotta e non si limita in nessun caso a quelle possibili ed esistenti solo in un determinato momento, riconoscendo che inevitabilmente, in seguito al modificarsi di una determinata congiuntura sociale, ne sorgono delle nuove, ancora ignote agli uomini politici di un dato periodo. Sotto questo aspetto il marxismo impara, per così dire, dall'esperienza pratica delle masse, ed è alieno dal pretendere di insegnare alle masse forme di lotta escogitate a tavolino dai «sistematici». Noi sappiamo - ha detto, per esempio, Kautsky, esaminando le varie forme di rivoluzione sociale - che la crisi imminente ci arrecherà nuove forme di lotta, che adesso non possiamo prevedere.

In secondo luogo, il marxismo esige categoricamente un esame storico del problema delle forme di lotta. Porre questo problema al di fuori della situazione storica concreta significa non capire l'abbicci del materialismo dialettico. In momenti diversi dell'evoluzione economica, a seconda delle diverse condizioni politiche, culturali-nazionali, sociali, ecc., differenti sono le forme di lotta che si pongono in primo piano divenendo fondamentali, e in relazione a ciò si modificano, a loro volta, anche le forme di lotta secondarie, marginali. Tentar di dare una risposta affermativa o negativa alla richiesta di indicare l'idoneità di un certo mezzo di lotta senza esaminare nei particolari la situazione concreta di un determinato movimento in una data fase del suo sviluppo, significa abbandonare completamente il terreno del marxismo.

Questi sono i due principi teorici fondamentali cui dobbiamo attenerci. La storia del marxismo nell'Europa occidentale ci offre una grande quantità di esempi che convalidano quanto si è detto sopra. La socialdemocrazia europea ritiene che nel momento attuale le principali forme di lotta siano il parlamentarismo e il movimento sindacale; in passato essa ammetteva l'insurrezione ed è pienamente disposta ad ammetterla in avvenire, col modificarsi della congiuntura, nonostante l'opinione dei liberali borghesi del tipo dei cadetti russi e degli appartenenti al gruppo del Biez Zaglavia (1). Negli anni settanta la socialdemocrazia aveva respinto lo sciopero generale come panacea sociale, come mezzo per abbattere di colpo la borghesia senza ricorrere alla lotta politica, ma ammette oggi pienamente lo sciopero politico di massa (soprattutto dopo l'esperienza della Russia nel 1905) come uno dei mezzi di lotta indispensabile in certe condizioni. La socialdemocrazia aveva ammesso la lotta di strada con le barricate negli anni quaranta e la respinse, in base a precise considerazioni, alla fine del secolo XIX, ma si è dimostrata pienamente disposta a rivedere questo suo ultimo atteggiamento e ad ammettere la opportunità della lotta sulle barricate dopo l'esperienza di Mosca, che, secondo le parole di K. Kautsky, ha rivelato una nuova tattica delle barricate.

II


Stabiliti i principi generali del marxismo, passiamo alla rivoluzione russa. Ricordiamo lo sviluppo storico delle forme di lotta da essa create. Prima gli scioperi economici degli operai (1896-1900), poi le dimostrazioni politiche degli operai e degli studenti (1901-1902), le rivolte contadine (1902), l'inizio degli scioperi politici di massa variamente combinati con dimostrazioni (Rostov 1902, gli scioperi dell'estate 1903, il 9 gennaio 1905), lo sciopero politico in tutta la Russia con episodi locali di lotta sulle barricate (ottobre 1905), la lotta di massa, le barricate e l'insurrezione armata (dicembre 1905), la lotta pacifica parlamentare (aprile-giugno 1906), le insurrezioni parziali nell'esercito (giugno 1905-luglio 1906), le insurrezioni parziali dei contadini (autunno 1905-autunno 1906).

Tale la situazione all'inizio dell'autunno 1906 per quanto riguarda le forme di lotta in generale. La forma di lotta che l'autocrazia impiega come «ritorsione» è il pogrom dei centoneri, a cominciare da Kisciniov nella primavera del 1903 per finire con Sedlets nell'autunno del 1906. In tutto questo periodo l'organizzazione dei pogrom dei centoneri e dei massacri di ebrei, studenti, rivoluzionari e operai coscienti non fa che progredire e perfezionarsi, unendo alle violenze della teppa mercenaria quelle dei centoneri dell'esercito e arrivando sino all'impiego dell'artiglieria nei villaggi e nelle città, fondendosi con le spedizioni e i convogli punitivi, ecc.

Questo è lo sfondo generale del quadro. Su questo sfondo si delinea - indubbiamente come qualcosa di parziale, secondario, marginale - il fenomeno che nel presente articolo ci proponiamo di studiare e valutare. Che cos'è questo fenomeno? Quali sono le sue forme e le sue cause? Quando è sorto e in che misura si è diffuso? Qual è la sua importanza nel corso generale della rivoluzione? In che rapporto si trova con la lotta della classe operaia organizzata e diretta dalla socialdemocrazia? Queste sono le questioni alle quali dobbiamo ora passare dopo aver tracciato lo sfondo generale del quadro.

Il fenomeno che ci interessa è la lotta armata. Conducono questa lotta singoli individui e singoli gruppi. Una parte di loro appartiene a organizzazioni rivoluzionarie, un'altra parte (e in alcune località della Russia la maggior parte) non appartiene a nessuna di esse. La lotta armata persegue due diversi obiettivi, che è necessario distinguere nettamente l'uno dall'altro: innanzitutto, essa mira a uccidere singole persone, ufficiali e subalterni dell'esercito e della polizia; in secondo luogo, si propone di confiscare somme di denaro appartenenti sia al governo, sia a privati. Una certa aliquota delle somme confiscate viene destinata al partito e la parte restante specificamente all'armamento e alla preparazione dell'insurrezione o al mantenimento di coloro che conducono questa lotta. I proventi delle grandi espropriazioni (quella del Caucaso di oltre 200.000 rubli, quella di Mosca di 875.000 rubli) vengono destinati innanzi tutto ai partiti rivoluzionari, mentre i proventi minori vengono per lo più destinati, e talvolta esclusivamente, al mantenimento degli «espropriatori».

Questa forma di lotta ha indubbiamente avuto un largo sviluppo e una notevole diffusione solo quest'anno, cioè dopo l'insurrezione del dicembre. L'inasprimento della crisi politica, che ha condotto alla lotta armata, e in particolare l'aggravarsi della miseria, della carestia e della disoccupazione nei villaggi e nelle città hanno avuto una grande parte fra le cause che hanno suscitato la lotta descritta. Questa forma di lotta è stata accolta come forma prevalente, e persino esclusiva, di lotta sociale dagli elementi più poveri della popolazione, dal sottoproletariato e dai gruppi anarchici. Forma di «ritorsione» da parte dell'autocrazia devono essere considerati lo stato d'assedio, la mobilitazione di nuove truppe, i pogrom organizzati dai centoneri (Sedlets), le corti marziali.

III


Il giudizio che viene di solito dato sulla lotta che stiamo esaminando si riduce a quanto segue: è anarchismo, blanquismo, terrorismo di vecchio stampo, azione di individui staccati dalle masse, che demoralizza gli operai, allontana da toro vasti gruppi di popolazione, disorganizza il movimento, nuoce alla rivoluzione. È facile trovare conferma di questo giudizio citando esempi scelti fra gli avvenimenti che vengono comunicati ogni giorno sui giornali.

Ma sono probanti questi esempi? Per provarne la validità, esaminiamo la regione lettone, zona in cui la forma di lotta che stiamo esaminando ha il maggiore sviluppo. Ecco come il giornale Novoie Vremia (del 9 e del 12 settembre) deplora l'attività della socialdemocrazia lettone. Il Partito operaio socialdemocratico lettone (che fa parte del POSDR) pubblica regolarmente il suo giornale con una tiratura di 30.000 copie. In una apposita rubrica compaiono elenchi di spie, il cui annientamento è un dovere per ogni persona onesta. Coloro che collaborano con la polizia vengono dichiarati «nemici della rivoluzione» e sono soggetti alla pena di morte, oltre che alla confisca dei beni. Si ordina alla popolazione di consegnare denaro al partito socialdemocratico solo dietro rilascio di ricevute firmate. Nell'ultimo rendiconto del partito, dei 48.000 rubli di entrate annue, 5.600 provengono dalla sezione di Libau per l'acquisto di armi; questi fondi sono stati procurati mediante espropriazione. Il Novoie Vremia, come è ovvio, dà in escandescenze scagliandosi contro questa «legislazione rivoluzionaria», contro questo «terribile governo».

Nessuno osa chiamare anarchismo, blanquismo, terrorismo quest'attività dei socialdemocratici lettoni. Perché? Perché qui è chiaro il legame che esiste tra la nuova forma di lotta e l'insurrezione che vi fu in dicembre e che di nuovo sta maturando. Quanto alla Russia, questo legame non si scorge con eguale chiarezza, eppure esiste. Il diffondersi della lotta «partigiana» proprio dopo il dicembre, il suo legame con l'inasprimento della crisi non solo economica, ma anche politica, sono incontestabili. Il vecchio terrorismo russo era opera di intellettuali cospiratori; oggi la lotta partigiana viene condotta, di regola, dall'operaio militante o semplicemente dall'operaio disoccupato.

Le formule del blanquismo e dell'anarchismo vengono in mente a chi tende a ragionare per schemi, ma nell'atmosfera insurrezionale così evidente nella regione lettone balza agli occhi la poca opportunità di queste etichette meccanicamente applicate.

L'esempio dei lettoni rivela con chiarezza quanto sia sbagliata, antiscientifica, antistorica un'analisi della guerra partigiana che prescinda, come ormai si è soliti fare da noi, dal suo legame con la situazione insurrezionale. Bisogna esaminare questa situazione, riflettere sulle peculiarità del periodo che intercorre fra le grandi azioni insurrezionali, bisogna capire quali forme di lotta ne scaturiscono inevitabilmente, e non cercare di cavarsela con logori termini, ripetendo, come fanno tanto i cadetti quanto quelli del Novoie Vremia: anarchismo, rapina, teppismo!

Si dice: le azioni partigiane disorganizzano il nostro lavoro. Applichiamo questo ragionamento alla situazione che si è determinata dopo il dicembre 1905, al periodo dei pogrom organizzati dai centoneri e degli stati d'assedio. Chi disorganizza di più il movimento in questo periodo: la non resistenza o la lotta partigiana organizzata? Confrontate la Russia centrale alle regioni periferiche occidentali, alla Polonia e alla regione lettone. È incontestabile che la lotta partigiana si è diffusa su scala molto più vasta e ha avuto un più intenso sviluppo nelle regioni periferiche occidentali. Ed è altrettanto incontestabile che il movimento rivoluzionario in generale, e il movimento socialdemocratico in particolare, sono più disorganizzati nella Russia centrale che nelle regioni periferiche occidentali. Non ci passa davvero per la mente di dedurne che il movimento socialdemocratico polacco e lettone sia meno disorganizzato grazie alla guerra partigiana. No. Ne consegue soltanto che non si deve attribuire la colpa della disorganizzazione del movimento operaio socialdemocratico nel 1906 in Russia alla guerra partigiana.

A questo proposito ci si richiama spesso alla peculiarità delle condizioni nazionali. Ma questo richiamo rivela con particolare evidenza quanto sia debole l'argomentazione corrente. Se si parla delle condizioni nazionali, vuol dire che non si tratta di anarchismo, di blanquismo, di terrorismo - difetti comuni ai russi, e anzi specificamente russi - ma di qualcos'altro. Esaminate in concreto questo qualcos'altro, signori! Vi accorgerete allora che l'oppressione o l'antagonismo nazionale non spiegano nulla, perché sono sempre esistiti nelle regioni periferiche occidentali, mentre la lotta partigiana si è accesa solo in un periodo storico determinato. Vi sono molte zone in cui esistono l'oppressione e l'antagonismo nazionale, ma in esse non vi è la lotta partigiana, che si sviluppa talvolta senza alcuna oppressione nazionale. L'esame concreto della questione suggerirà che non si tratta dell'esistenza dell'oppressione nazionale, ma delle condizioni per l'insurrezione. La lotta partigiana è una forma di lotta inevitabile nel momento in cui il movimento di massa è già arrivato praticamente all'insurrezione, e subentrano intervalli più o meno lunghi fra le «grandi battaglie» della guerra civile.

Non le azioni partigiane disorganizzano il movimento, ma la debolezza del partito, che non sa prendere nelle sue mani la direzione di queste azioni. Ecco perché agli anatemi che noi russi siamo soliti lanciare contro le azioni partigiane si uniscono azioni partigiane segrete, occasionali, non organizzate, che effettivamente disorganizzano il partito. Non potendo capire le condizioni storiche che suscitano questa lotta, non possiamo nemmeno neutralizzarne i lati negativi. Nondimeno questa lotta continua. La suscitano potenti cause economiche e politiche. E noi non siamo in grado di eliminarle, e quindi di eliminare questa lotta. Le nostre recriminazioni contro la lotta partigiana non sono altro che recriminazioni contro la debolezza del nostro partito nell'insurrezione.

Quanto abbiamo detto sulla disorganizzazione vale anche per la demoralizzazione. Non è la guerra partigiana che demoralizza, ma l'insufficiente organizzazione, il disordine, la mancanza di un'impronta di partito nelle azioni partigiane. Le condanne e gli anatemi contro le azioni partigiane non valgono assolutamente a liberarci da questa incontestabile demoralizzazione, perché le condanne e gli anatemi non sono minimamente in grado di arrestare un fenomeno determinato da profonde cause economiche e politiche. Si obietterà: se siamo impotenti ad arrestare un fenomeno anormale e demoralizzante, ciò non è un argomento valido per il passaggio del partito a mezzi di lotta anormali e demoralizzanti. Ma una simile obiezione sarebbe un'obiezione puramente liberale-borghese, e non marxista, perché un marxista non può in generale ritenere anormale e demoralizzante la guerra civile, o la guerra partigiana che è una delle sue forme.

Il marxista si pone sul terreno della lotta di classe, e non su quello della pace sociale. In certi periodi di acuta crisi economica e politica, la lotta di classe si sviluppa sino a trasformarsi in aperta guerra civile, cioè in lotta armata fra due parti del popolo. In questi periodi il marxista ha il dovere di porsi sul terreno della guerra civile. Ogni sua condanna morale è assolutamente inammissibile per il marxismo.

Nell'epoca della guerra civile l'ideale del partito del proletariato è il partito combattente: ciò è assolutamente incontestabile. Non abbiamo nessuna difficoltà ad ammettere che dal punto di vista della guerra civile si possa sostenere e dimostrare l'inopportunità di determinate sue forme in questo o quel momento. Noi riconosciamo pienamente le critiche che si muovono alle varie forme di guerra civile dal punto di vista dell'opportunità militare e ammettiamo senza riserve che in questo problema una funzione determinante spetta ai pratici della socialdemocrazia di ogni singola località.

Ma, in nome dei principi del marxismo, esigiamo categoricamente che non ci si sbarazzi del dovere di analizzare le condizioni in cui si svolge la guerra civile con frasi logore e stereotipate sull'anarchismo, sul blanquismo, sul terrorismo, che gli insensati metodi di lotta partigiana, impiegati in un certo momento da una certa organizzazione del Partito socialista polacco non vengano utilizzati come uno spauracchio quando si tratta di decidere la partecipazione vera e propria dei socialdemocratici alla guerra partigiana in generale.

Bisogna esaminare con spirito critico le affermazioni secondo cui la guerra partigiana disorganizza il movimento. Ogni nuova forma di lotta, accompagnata da nuovi pericoli e da nuovi sacrifici, «disorganizza» inevitabilmente le organizzazioni che non vi sono preparate. Il passaggio all'agitazione ha disorganizzato i nostri vecchi circoli di propagandisti. In seguito, il passaggio alle dimostrazioni ha disorganizzato i nostri comitati. In qualsiasi guerra ogni azione introduce una carta disorganizzazione nelle file dei combattenti, ma non bisogna dedurne che non si debba combattere. Bisogna dedurne che si deve imparare a combattere. E basta.

Quando sento dei socialdemocratici dichiarare con orgogliosa soddisfazione: noi non siamo degli anarchici, non siamo dei ladri o rapinatori, siamo al di sopra di simili cose e condanniamo la guerra partigiana, mi domando: capiscono costoro di che cosa stanno parlando? In tutto il paese avvengono scontri armati e conflitti del governo dei centoneri con la popolazione. Questo fenomeno è assolutamente inevitabile nell'attuale fase di sviluppo della rivoluzione, e la popolazione reagisce anch'essa con scontri e attacchi armati, in modo spontaneo, non organizzato, e proprio per questo spesso in forme sbagliate e votate all'insuccesso.

Capisco che, data la debolezza e l'impreparazione della nostra organizzazione, possiamo indurre il partito ad astenersi dal dirigere questa lotta spontanea in una certa zona e in un determinato momento. Capisco che la questione debba essere decisa dai pratici, sul posto, e che non sia un compito facile quello di rinnovare organizzazioni deboli e non preparate. Però quando vedo un teorico o un pubblicista socialdemocratico che non si rattrista per questa impreparazione, ma ripete con orgogliosa soddisfazione e con vanitosa compiacenza frasi sull'anarchismo, sul blanquismo, sul terrorismo, meccanicamente imparate a memoria nella sua prima giovinezza, provo un moto di sdegno per lo svilimento della dottrina più rivoluzionaria del mondo.

Si dice: la guerra partigiana accomuna il proletariato cosciente con gli alcolizzati straccioni declassati. È vero. Ma ne risulta solo che il partito del proletariato non può mai considerare la guerra partigiana come l'unico e nemmeno il principale mezzo di lotta; questo mezzo deve essere subordinato agli altri, dev'essere adeguato ai principali mezzi di lotta e nobilitato dall'influenza educatrice e organizzatrice del socialismo.

E nella società borghese senza quest'ultima condizione tutti, assolutamente tutti, i mezzi di lotta mettono il proletariato in contatto con i vari ceti non proletari che stanno al di sopra o al di sotto di esso, ed essendo tali mezzi abbandonati al corso spontaneo degli avvenimenti vengono sviliti, deformati, prostituiti. Abbandonati al corso spontaneo degli avvenimenti, gli scioperi si snaturano trasformandosi in «Alliances», accordi degli operai coi padroni contro i consumatori. Il parlamento si snatura e diviene una casa di tolleranza, dove una banda di politicanti borghesi vende all'ingrosso e al minuto la «libertà del popolo», il «liberalismo», la «democrazia», il repubblicanismo, l'anticlericalismo, il socialismo e tutte le altre merci d'uso corrente.

Il giornale si snatura diventando un mezzano di cui tutti possono servirsi, uno strumento di corruzione delle masse, di grossolana lusinga dei bassi istinti della folla, ecc. ecc. La socialdemocrazia non conosce mezzi di lotta universali che siano in grado di erigere una muraglia cinese tra il proletariato e i ceti che stanno un po' al di sopra o un po' al di sotto di esso. In periodi diversi la socialdemocrazia adopera mezzi diversi, sempre facendo dipendere il loro impiego da condizioni ideologiche e organizzative rigorosamente stabilite (*).

IV


Le forme di lotta nella rivoluzione russa si distinguono per la loro immensa varietà rispetto a quelle delle rivoluzioni borghesi dell'Europà. Kautsky seppe in parte prevederlo, dicendo nel 1902 che la futura rivoluzione (egli aggiungeva: forse a eccezione della Russia) sarebbe stata non tanto una lotta del popolo contro il governo, quanto una lotta fra due parti del popolo. In Russia constatiamo indubbiamente uno sviluppo più largo di questa seconda lotta che non nelle rivoluzioni borghesi dell'Occidente. In seno al popolo i nemici della nostra rivoluzione sono poco numerosi, ma essi si organizzano sempre più, man mano che la lotta s'inasprisce, e usufruiscono dell'appoggio degli strati reazionari della borghesia. È quindi del tutto naturale e inevitabile che in quest'epoca, nell'epoca degli scioperi politici di tutto il popolo, l'insurrezione non possa assumere la vecchia forma di azioni isolate, limitate a un periodo molto breve e a una zona molto piccola.

È del tutto naturale e inevitabile che l'insurrezione assuma forme più elevate e complesse, sboccando in una lunga guerra civile che abbracci tutto il paese, cioè in una lotta armata fra due parti del popolo. Una guerra di questo genere non si può concepire se non come una limitata serie di grandi battaglie, separate da intervalli relativamente lunghi, e un grande numero di piccoli scontri durante questi intervalli. Se è così - e lo è indubbiamente - la socialdemocrazia deve necessariamente porsi il compito di creare organizzazioni che abbiano la più grande capacità di dirigere le masse tanto nelle grandi battaglie, quanto, nella misura del possibile, nei piccoli scontri.

Nell'epoca in cui la lotta delle classi s'inasprisce sino a trasformarsi in guerra civile, la socialdemocrazia deve porsi non solo il compito di partecipare a questa guerra civile, ma anche di assumere in essa una funzione dirigente. La socialdemocrazia deve educare e preparare le sue organizzazioni affinché esse agiscano effettivamente come una parte belligerante, che non si lascia sfuggire la minima occasione di recar danno alle forze del nemico.

È superfluo dire che si tratta di un compito difficile. Non lo si può adempiere di colpo. Come tutto il popolo si rieduca e impara nella lotta durante la guerra civile, così le nostre organizzazioni per adempiere questo compito devono essere educate, devono essere trasformate sulla base dei dati dell'esperienza.

Non abbiamo la minima pretesa d'imporre ai pratici una qualsiasi forma di lotta da noi inventata e nemmeno di risolvere a tavolino il problema della funzione di questa o quella forma di guerra partigiana nel corso generale della guerra civile in Russia. Siamo lontani dal voler vedere nella valutazione concreta di determinate azioni partigiane un problema di indirizzo della socialdemocrazia. Ma consideriamo sia nostro compito contribuire, nella misura delle nostre forze, a una giusta valutazione teorica delle nuove forme di lotta dettate dalla vita e condurre una lotta implacabile contro gli schematismi e i pregiudizi, che impediscono agli operai coscienti di impostare in modo giusto una nuova e difficile questione e di affrontarne in modo giusto la soluzione.


Note

1) Gruppo semicadetto (formato da Prokopovic, Kuskova, e altri) che pubblicò nel 1906 la rivista Biez Zaglavia. I suoi aderenti si dichiararono sostenitori dell'ala destra della socialdemocrazia dell'Europa occidentale ed erano contrari alla politica di classe autonoma del proletariato.

*) I socialdemocratici bolscevichi vengono spesso accusati di avere un atteggiamento superficiale e tendenzioso verso le azioni partigiane. Non sarà superfluo perciò rammentare che nel progetto di risoluzione sulle azioni partigiane (n. 2 delle Partiinie Izvestia e rapporto di Lenin sul congresso) quella parte di bolscevichi che le difende, per accettarle ha posto le seguenti condizioni: le «espropriazioni» di beni privati vengono assolutamente escluse; le «espropriazioni» di beni pubblici non vengono consigliate, ma solo ammesse, a condizione che il partito le controlli e i fondi vengano destinati ai bisogni dell'insurrezione. Le azioni partigiane di tipo terroristico sono state consigliate se condotte contro gli sgherri del governo e contro i centoneri attivi, purché si osservino le seguenti condizioni: 1) tenere conto dello stato d'animo delle larghe masse; 2) tenere presente la situazione del movimento operaio in quella determinata località; 3) preoccuparsi di evitare un inutile spreco di forze del proletariato. La differenza pratica di questo progetto dalla risoluzione che è stata approvata al Congresso di unificazione, consiste esclusivamente nel fatto che in quest'ultima non sono ammesse le «espropriazioni» di beni pubblici.