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Karl Marx, La guerra civile in Francia, Casa editrice Giulia, Trieste, 1946
da marx-karl.com/spgm - Trascrizione di Valerio e pubblicazione a cura del CCDP per l'anniversario della Comune di Parigi (18/03/1871)

 
Carlo Marx: La guerra civile in Francia [indice del libro]
 
Indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra civile in Francia del 1871
I
II
III
IV
Appendice I e II
 

Ai membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori d’Europa e degli Stati Uniti
 
Indirizzo del Consiglio generale intorno alla guerra civile in Francia del 1871
 
* I
 
Il 4 settembre 1870, quando gli operai parigini proclamarono la Repubblica alla quale plaudì giubilando, quasi nello stesso momento, tutta la Francia senza una sola voce dissenziente, una camorra di avvocati in cerca di impieghi prese possesso dell’Hôtel de Ville (municipio) con Thiers quale uomo di Stato, e Trochu quale generale. Questa gente era allora compenetrata da una fede così fanatica nel destino di Parigi di rappresentare tutta la Francia in ogni periodo di crisi storica, che, per giustificare il loro titolo usurpato di reggenti della Francia. sembrò loro sufficiente metter fuori i mandati decaduti di deputati per Parigi. Nel nostro secondo indirizzo intorno all’ultima guerra, cinque giorni dopo l’apparizione di codesti signori, noi dicemmo chi essi erano. E tuttavia, nel turbine delle sorprese, mentre i capi autentici degli operai erano ancora nelle carceri del Bonaparte e i Prussiani già in marcia forzata sopra Parigi, Parigi poté tollerare che essi prendessero possesso del potere dello Stato; benché soltanto con la condizione espressa che questo potere dovesse servire unicamente ed esclusivamente allo scopo della difesa nazionale. Ma Parigi non si poteva difendere, senza armare la sua classe operaia, senza trasformarla in una potenza guerresca utilizzabile, e senza addestrare le sue schiere con la guerra stessa. Ma Parigi in armi voleva dire la rivoluzione armata. Una vittoria dell’operaio francese sul capitalista francese e sui parassiti dello Stato. In tale dissidio fra il dovere nazionale e l’interesse di classe, il governo non badò un momento solo alla difesa nazionale - ma si trasformò in governo del tradimento nazionale.
 
Il suo atto fu quello di mandare Thiers in pellegrinaggio presso tutte te Corti d’Europa per limosinare il rispettivo intervento e con l’offerta di scambiare la Repubblica per un re. Quattro mesi dopo il principio dell’assedio, quando parve venuto il momento di lasciar cadere la prima parola di capitolazione, Trochu, in presenza di Jules Favre e di altri membri del governo, tenne ai maires (sindaci dei distretti), convenuti in assemblea, questo discorso:
 
«Il primo quesito che mi fu proposto dai miei colleghi la sera stessa del 4 settembre, fu questo: può Parigi, e con qualche previsione di successo, tener fronte ad un assedio dell’esercito prussiano? Io non esitai a negarlo. Più d’uno dei miei colleghi qui presenti confermeranno la verità delle mie parole e la mia persistenza in quest’opinione. Io dicevo loro, con queste stesse parole, che, come stavano le cose, il tentativo di far resistere Parigi contro un assedio dei Prussiani, era una follia. Senza dubbio aggiungevo, una eroica follia, ma questo era anche tutto... Gli avvenimenti (che egli stesso guidò) non hanno potuto smentire la mia previsione». Questa graziosa orazioncella di Trochu fu più tardi pubblicata da uno dei maires presenti, il signor Corbon.
 
Dunque: la sera stessa in cui fu proclamata la Repubblica, era noto ai colleghi di Trochu, che il «piano» di Trochu consisteva nella capitolazione di Parigi. Se la difesa nazionale fosse stata qualche cosa di più che un semplice pretesto per la sovranità personale di Thiers, Favre e compagnia, la gente nuova del 4 settembre, avrebbe abdicato il giorno 5, avrebbe fatto partecipe il popolo di Parigi del «piano» di Trochu e lo avrebbe spinto o a capitolare immediatamente o a prendere in propria mano il proprio destino. Invece, questi disonesti truffatori deliberarono di curare «l’eroica pazzia» di Parigi con un trattamento di fame e di teste insanguinate, trattandola nel tempo stesso come pazza, mettendole sotto gli occhi manifesti altisonanti come: «Trochu, governatore di Parigi, non Capitolerà mai»; e Jules Favre, ministro degli esteri: «non cederò mai un pollice del nostro territorio e una pietra delle nostre fortezze!». In una lettera a Gambetta lo stesso Jules Favre confessa che ciò contro cui essi si «difendevano» non erano i soldati prussiani, bensì gli operai parigini. Durante tutto l’assedio, i taglia teste bonapartisti, ai quali Trochu aveva affidato realmente il comando supremo dell’esercito parigino, lanciavano, nella loro corrispondenza privata, degli ignobili frizzi contro il beninteso scherno della difesa. Si veda, p. es., la corrispondenza di Alfonso Simone Guiod, comandante in capo dell’artiglieria dell’esercito di Parigi, gran croce della Legion d’onore, a Suzanne, generale di divisione d’artiglieria - corrispondenza che fu pubblicata dalla Comune. Finalmente il 28 gennaio 1871 lasciarono cadere la maschera.
 
Con tutto l’eroismo della umiliazione suprema, il governo della difesa nazionale si ridusse alla capitolazione di Parigi, come una Francia governata dai prigionieri di Bismark, cosa così ignobile, di fronte alla quale lo stesso Luigi Napoleone a Sèdan era rimasto atterrito. Dopo il 18 marzo nella loro fuga selvaggia, I «capitolardi» abbandonarono a Parigi la prova documentata del loro tradimento. Per distruggerlo - dice la Comune in uno dei suoi manifesti alle provincie - «questa gente non avrebbe orrore di convertire Parigi in un cumulo di rovine, bagnate da un mare di sangue».
 
Ma per arrivare a questo punto, parecchi membri del governo della difesa avevano oltre a ciò delle ragioni del tutto private.
 
Poco dopo la conclusione dell’armistizio, Millière, deputato per Parigi all’Assemblea nazionale, ora fucilato per ordine espresso di Jules Favre, pubblicò una serie di giudiziari autentici, coi quali era provato che Jules Favre, convivente con la moglie di un ubriacone domiciliato in Algeri era riuscito, grazie a un cumulo oltremodo sfacciato di falsificazioni, consumate per lunga serie di anni in nome dei figli del suo adulterio, a carpire una pingue eredità e a diventare in tal modo una persona facoltosa; e che, in seguito a uno dei processi intentatigli dagli eredi legittimi, egli poté sfuggire ad essere scoperto grazie al favore speciale dei giudici bonapartisti. Ma poiché non era possibile sottrarsi a questi documenti recisi e ufficiali, nemmeno con altrettanti e più cavalli di forza retorica, Jules Favre, per la prima volta nella sua vita, se ne stette zitto, aspettando in tutta quiete lo scoppio della guerra civile, per poi opprimere selvaggiamente il popolo parigino come una banda di galeotti evasi, in manifesta opposizione contro la famiglia, la religione, l’ordine e la proprietà. E questo medesimo falsario era appena salito al potere, quando immediatamente dopo il 4 settembre, fece per commiserazione porre in libertà Pìc e Taillefer, i quali erano stati condannati per falso nello scandaloso affare col giornale l’Etendard, ancora sotto l’Impero. Uno di questi gentiluomini, Taillefer, ebbe la temerità di rientrare a Parigi durante la Comune, e fu quindi immediatamente messo dentro di nuovo; e dopo di ciò Jules Favre, dalla tribuna dell’Assemblea nazionale poté gridare al mondo che i Parigini davano la libertà a tutti gli inquilini dei loro ergastoli!
 
Ernesto Picard, il Carlo Vogt del governo della difesa nazionale, che si era nominato da sé ministro dell’interno della Repubblica, dopo aver tentato inutilmente di diventare ministro dell’interno dell’Impero - è fratello d’un certo Arturo Picard, il quale fu espulso dalla Borsa di Parigi come truffatore (Rapporto della Prefettura di polizia di Parigi del 16 luglio 1867), e che in seguito a sua stessa confessione fu convinto di furto per la somma di 300.000 franchi, perpetrato nella sua qualità di direttore duna filiale della Société genérale, via Palestro n. 5 (Rapporto della Prefettura di polizia dell’11 dicembre 1868). Ora quest’Arturo Picard fu nominato da Ernesto Picard redattore del giornale l’Electeur libre. Mentre la comune genìa dei borsisti è stata tratta in inganno dalle menzogne ufficiali di cotesto giornale ministeriale, Arturo Picard, correndo di qua e di là fra il Ministero e la Borsa, riuscì a convertire le disfatte degli eserciti francesi in vantaggio a contanti. Tutta la corrispondenza di affari di questa egregia coppia di fratelli è caduta nelle mani della Comune.
 
Jules Ferry, prima del 4 settembre un avvocato senza pane, riuscì nella sua qualità di maire di Parigi, durante l’assedio, a racimolarsi fraudolentemente un patrimonio dalla carestia. Il giorno in cui dovrà rispondere della sua cattiva amministrazione, sarà anche il giorno della sua condanna.
 
Uomini di simile fatta soltanto potevano trovare nelle rovine di Parigi il loro tickets of leave [1]; era proprio la gente che occorreva a Bismarck. Un po’ di manovra da borsaiolo - e Thiers, fino ad ora il suggeritore segreto del governo, apparve a un tratto alla sommità di tutto, con gli uomini del tickets-of-leave quali ministri.
 
Thiers, questo aborto di nani, ha affascinato per più d’un mezzo secolo la borghesia di Francia, perché egli era l’espressione più perfetta della sua corruzione di classe. Prima d’essere uomo di Stato, aveva già dato saggio della sua forza di dir menzogne, come storico. La cronaca della sua vita pubblica è la storia delle sventure della Francia. Collegato, prima del 1830, coi repubblicani, carpì sotto Luigi Filippo un posto di ministro, nel tempo stesso in cui tradiva il suo protettore Laffitte. Col re, si era fatto bello d’aver aizzato gli eccessi della plebe contro il clero, mentre veniva saccheggiata la chiesa di Saint-Germain-L’Auxerrois, col palazzo arcivescovile e per la sua condotta di fronte alla duchessa di Berri, presso la quale egli rappresentava nel tempo stesso la parte di spia del Ministero e di ostetrico carcerario. Il macello dei repubblicani nella via Transnonain fu opera sua; opera sua le infami leggi di settembre, che ne seguirono, contro la stampa e il diritto d’associazione. Nel 1840 quando egli venne a galla un’altra volta come presidente dei ministri, fece stupire la Francia col suo progetto di fortificare Parigi. E ai repubblicani, i quali attaccarono questo progetto come un complotto perfido contro la libertà di Parigi, rispondeva alla Camera dei deputati:
 
«Come? Voi v’immaginate che un’opera di fortificazione possa per avventura minacciare la libertà? In primo luogo, voi rinnegate ogni possibile governo, col presuppone che esso possa tentare di mantenersi in piedi con un bombardamento di Parigi. Un simile governo, sarebbe, anche dopo la sua vittoria, cento volte più impossibile di prima».
 
In realtà, nessun governo avrebbe mai osato di bombardare Parigi dai forti, tranne quel governo, che prima aveva consegnato questi stessi forti ai Prussiani.
 
Quando re Bomba volle provare le sue forze a Palermo nel gennaio 1848, Thiers, che allora non era più ministro, e da parecchio, si alzò in piena camera: «Voi sapete, o signori, quel che succede a Palermo. Voi tutti fremete d’orrore (in senso parlamentare) nell’apprendere che per quarantott’ore una grande città è stata bombardata - da chi? da un nemico straniero, forte del suo diritto di guerra? No, signori, dal suo stesso Governo. E per qual motivo? Perché l’infelice città reclamava i suoi diritti. E per l’invocazione dei suoi diritti, ha avuto quarantott’ore di bombardamento... Permettete che mi appelli all’opinione pubblica dell’Europa. È un servizio reso all’umanità, levarsi e fare echeggiare dalla tribuna maggiore forse di Europa alcune parole (sicuro: parole!) di protesta contro siffatte azioni. Quando il governatore Esparteo, che pure aveva prestato dei servizi al suo paese (cosa che il Thiers non ha fatto mai) manifestò l’intenzione di bombardare Barcellona per reprimere un’insurrezione, da ogni angolo del mondo si levò un grido generale di protesta».
 
Diciotto mesi più tardi, Thiers si trovava fra i più accaniti difensori del bombardamento di Roma da parte dell’esercito francese. L’errore di re Bomba, a quanto pare, consistette soltanto nell’aver limitato il bombardamento a quarantott’ore.
 
Pochi giorni prima della rivoluzione di febbraio, aizzato dal prolungato esilio dalla carica e dallo sgambetto al quale lo aveva condannato il Guizot, e fiutando nell’aria il moto popolare che si avanzava, Thiers in quel falso stile eroico che gli procacciò il nomignolo di Mirabeoumouche, dichiarava alla Camera dei deputati:
 
«Io appartengo al partito della Rivoluzione, non solo in Francia, ma in Europa. Faccio voti perché il Governo della rivoluzione possa rimanere in mano ai moderati... che se questo Governo dovesse cadere in mano dei violenti, e finanche in mano dei radicali, io per questo non diserterò la mia bandiera. lo apparterrò sempre al partito della rivoluzione».
 
E venne la rivoluzione di febbraio. Invece di sostituire il ministero Guizot col ministero Thiers, come quest’ometto aveva sognato, essa scavalcò di sella Luigi Filippo, con la repubblica. Il primo giorno della vittoria egli si tenne nascosto con ogni cura, dimenticando che il disprezzo degli operai lo proteggeva dal loro odio. E cosi, col suo ben noto coraggio, egli si tenne lontano dalla scena pubblica finché i massacri del giugno non vennero, per questa sua prodezza, a spazzarlo via.
 
Allora egli divenne la testa direttiva del «partito d’ordine» con la sua repubblica parlamentare, funzioni della classe dominante cospiravano a vicenda per opprimere il popolo, e l’una contro l’altra, ognuna per la restaurazione della propria monarchia. Allora, come adesso, Thiers accusava i repubblicani come l’unico ostacolo contro il consolidamento della repubblica; allora, come adesso, diceva alla repubblica come il boia a don Carlo «Io ti ucciderà ma per il tuo meglio». Adesso come allora, egli dovrà esclamate all’indomani della sua vittoria: «L’empire est fait». A malgrado delle sue prediche farisaiche circa le «libertà necessarie», e del suo astio personale contro Luigi Bonaparte, che si era valso di lui e che poi aveva dato il gambetto al parlamentarismo - e fuori dell’atmosfera artificiale del parlamentarismo l’omino sa benissimo di non poter riuscire a capo di nulla - a dispetto di tutto questo Thiers ebbe una mano. in tutte le infamie del secondo impero, dall’occupazione di Roma con le truppe francesi fino alla guerra contro la Prussia, alla quale egli incitò sempre, coi suoi violenti attacchi alla unità tedesca - non per coprire ipocritamente il dispotismo prussiano, ma come un attacco al diritto ereditario della Francia sulla non unità tedesca. Mentre le sue braccia di pigmeo brandivano tanto volentieri al cospetto d’Europa la spada di Napoleone I, del quale era già diventato lo storico lustrascarpe, la sua politica estera si appuntò costantemente nell’umiliazione della Francia, dalla Convenzione di Londra del 1841 fino alla capitolazione di Parigi del 1871 e alla guerra civile attuale, alla quale, col consenso superiore di Bismarck ha eccitato i prigionieri di Sédan e di Metz. A malgrado della elasticità del suo talento e della mutabilità dei suoi propositi, quest’uomo per tutta la sua vita è stato legato alla carriera più fossile che si possa pensare. È evidente, che le correnti più profonde della società moderna dovevano per sempre rimanergli nascoste; ma perfino le trasformazioni più manifeste alla superficie nella società sfuggivano ad un cervello la cui energia vitale si era tutta rifugiata nella lingua. Così egli non fu mai stanco di attaccare ogni deviazione nell’invecchiato sistema dei dazi protettori come profanazione d’un santuario. Come ministro di Luigi Filippo, egli cercò di denigrare le ferrovie come un’illusione di cervelli riscaldati; con Luigi Bonaparte bollò come sacrilegio ogni tentativo di riforma del sistema militare francese invecchiato fino alla decrepitezza. In tutta la sua lunga carriera politica, egli non s’è mai fatto iniziatore d’un solo provvedimento sia pure dei più insignificanti, d’una qualche pratica utilità. Thiers era conseguente soltanto nell’avidità di ricchezze e nel suo odio contro coloro che la producevano. Entrò nel suo primo ministero con Luigi Filippo, povero come Giobbe: ne uscì milionario. Quando il suo ultimo ministero sotto lo stesso re (1 marzo 1840) gli procurò in piena Camera pubbliche accuse di frodi e contrabbando, egli si accontentò di rispondere con le lacrime - nel cui genere egli riesce tanto mirabilmente quanto Jules Favre o qualsiasi altro coccodrillo. A Bordeaux, nel 1871, il suo primo passo per salvare la. Francia dalla imminente rovina finanziaria, fu quello di assicurarsi un appannaggio annuo di tre milioni; fu questa la prima e l’ultima parola di quella «repubblica economica» alla quale aveva accennato nel suo discorso agli elettori di Parigi nel 1869. Uno dei suoi antichi colleghi della Camera del 1830, anzi un capitalista - ciò che non gli impedì di essere un membro sacrificato della Comune di Parigi - il signor Beslay, diceva recentemente, in un pubblico manifesto, al Thiers: «L’asservimento del lavoro per mezzo del capitale è sempre stato la pietra fondamentale della vostra politica; e da quando vedete insidiata la repubblica del lavoro nel Palazzo di città, avete gridato senza tregua alla Francia: - Guardate questi malfattori!». Un maestro di piccole trappolerie di Stato, un virtuoso dello spergiuro e del tradimento, ammaestrato in tutte le ignobili finezze della guerra, in tutti i segreti e ignobili strattagemmi e nelle volgari defezioni della lotta parlamentare dei partiti; sempre pronto, se spinto dall’ufficio, ad attizzare il fuoco della rivoluzione e poi a soffocarla nel sangue, non appena si fosse trovato alla testa del Governo, con pregiudizi di classe, invece di idee, con la vanità al posto del cuore, la sua vita privata così infame, come spregevole la vita pubblica, - egli non può fare a meno, neppure adesso, mentre rappresenta la parte di un Silla francese, di accrescere la bruttura delle sue azioni col ridicolo della sua megalomania.
 
La capitolazione di Parigi, che consegnò nelle mani dei prussiani non solo Parigi ma tutta la Francia, pose un termine ai perfidi intrighi durati già troppo a lungo col nemico, intrighi che gli usurpatori del 4 settembre, come ebbe a dire lo stesso Trochu, avevano incominciato in questo stesso giorno. D’altra parte, egli aprì la guerra civile, che essi ora dovevano portare, con l’appoggio dei prussiani, contro la Repubblica e contro Parigi. Già nel testo della capitolazione era nascosta la trappola. Allora, circa un terzo del paese era in mano del nemico, la capitale tagliata fuori dalle provincie, tutti i mezzi di traffico in disordine. Era impossibile, in tali circostanze, di eleggere una rappresentanza reale della Francia, se non si fosse dato tutto il tempo necessario per la preparazione. Appunto per questo, la capitolazione imponeva che una Assemblea nazionale si dovesse eleggere entro otto giorni di guisa che in certe regioni della Francia la notizia delle elezioni da farsi arrivò appena il giorno prima. Inoltre l’Assemblea, in conformità a uno speciale articolo della capitolazione, doveva essere eletta all’unico scopo di decidere della guerra e della pace, ed eventualmente di concludere un trattato di pace. Il popolo doveva sentire che le condizioni dell’armistizio rendevano impossibile la continuazione della. guerra e che, per confermare la pace imposta da Bismarck, la peggiore gente in Francia era appunto la migliore. Ma non contento di tutte queste precauzioni, Thiers ancora prima di comunicare ai parigini il segreto dell’armistizio, si era recato in un viaggio elettorale nelle provincie, per richiamare in vita e quasi galvanizzare il partito legittimista, il quale adesso, assieme agli Orleanisti avrebbe dovuto rimpiazzare il posto del partito Bonapartista, divenuto da un momento all’altro impossibile. Egli non aveva alcuna paura di loro. Impossibile rispetto al governo della Francia moderna, e quindi spregevole come rivale - quel partito offriva lo strumento più ben accetto della reazione, se non il partito la cui azione, per dirla con le stesse parole del Thiers (Camera dei Deputati, 5 gennaio 1833) «si era limitato sempre a tre risorse: invasione straniera, guerra civile e anarchia»? Essi però i legittimisti, credevano in realtà nell’avvento del loro regno, retrocesso di mille anni. E furono i calci dell’invasione straniera che rovesciarono in terra la Francia; e allora abbiamo avuto un impero e l’imprigionamento d’un Bonaparte; ed erano sempre quelli. La ruota della storia si era evidentemente voltata fino alla Chambre introuvable (Camera dei Landrath e degli junker) e fino al 1816. Nelle adunanze della Repubblica del 1848 al 1851 essi erano stati rappresentati dai loro capi colti e addestrati; ma adesso spuntavano fuori i soldati gregari del partito - tutti i Pourceaugnacs della Francia.
 
Appena quest’Assemblea di rurali (Krautjunker) si aprì a Bordeaux, Thiers fece loro capir chiaramente che essi avrebbero dovuto accettare subito i preliminari della pace, senza nemmeno l’attestato di stima d’una discussione parlamentare, come unica condizione che sotto i prussiani, sarebbe loro stato lecito di aprire la guerra contro la Repubblica e la sua cittadella, Parigi. La controrivoluzione non aveva, infatti, tempo da perdere. Il secondo impero aveva raddoppiato il debito pubblico e precipitate le grandi città in debiti locali enormi. La guerra aveva elevate spaventosamente le pretese della nazione e distrutte senza rimedio le sue risorse; a compimento della rovina, si affacciava in permanenza lo Sylock prussiano con la sua nota per il mantenimento di mezzo milione dei suoi soldati su territorio francese, per il suo indennizzo di cinque miliardi e interessi al 5 per cento sulle rate non pagate. Chi doveva pagare il conto? Soltanto con la caduta violenta della Repubblica i partigiani dell’impero potevano sperare di gettare addosso ai sostenitori di codest’impero le spese di una guerra condotta da loro stessi. Così appunto l’incommensurabile rovina della Francia spinse questi patriottici rappresentanti del grande possesso e dei capitali sotto gli occhi e sotto l’alta protezione del conquistatore straniero, a completare la guerra all’estero con una guerra civile, con una ribellione di detentori di schiavi.
 
Contro questa congiura c’era un grande impedimento: Parigi. Disarmare Parigi: era la prima condizione del successo. Parigi fu quindi esortata dal Thiers a deporre le armi! Quindi, Parigi fu eccitata, con le pazze dimostrazioni antirepubblicane della Assemblea degli junker agrari e per mezzo degli ambigui discorsi di Thiers intorno all’esistenza giuridica della Repubblica con la minaccia di decapitare e di decapitalizzare Parigi (décapiter et décapitaliser); con la nomina di ambasciatori orleanisti; con le seggi di Dufaure circa le cambiali scadute delle prigioni, che minacciavano il commercio e la industria di Parigi; con la gabella Pouyer-Quertier di due centesimi sopra qualsiasi stampato; con le condanne a morte di Blanqui e Flourens; con la soppressione dei fogli repubblicani; con la traslazione dell’Assemblea nazionale a Versailles; con la rinnovazione dello stato d’assedio dichiarato da Palikao e annullato il 4 dicembre; con la nomina dell’eroe di dicembre Vonoy a governatore, del gendarme Valentin a prefetto di polizia, e del generale dei gesuiti d’Aurelles de Paladine a comandante in capo della guardia nazionale di Parigi.
 
Ed ora noi dobbiamo rivolgere una domanda al signor Thiers e ai signori della difesa nazionale, sui commessi. E noto che, per mezzo del suo ministro delle finanze Pouyer-Quertier, Thiers aveva proposto un prestito di due miliardi, pagabili a vista. È o non è vero:
1. Che questo affare è stato conchiuso in modo che entrasse una provvisione di parecchi milioni nelle tasche di Thiers, Jules Favre, Ernesto Picard, Pouyer-Quertier e Jules Simon;
2. Che nessun pagamento dovesse effettuarsi. fino alla «pacificazione di Parigi»?
 
In ogni caso la cosa dev’essere stata assai urgente, perché Thiers e Jules Favre supplicavano senz’alcun ritegno, in nome dell’Assemblea di Bordeaux, per ottenere l’occupazione di Parigi per mezzo delle armi prussiane. Questo però non tornava al giuoco di Bismarck, come egli stesso, ironicamente e in pubblico, raccontò poi ai «filistei» di Francoforte, meravigliati dopo il suo ritorno in Germania
 
* II
 
Parigi era l’unico impedimento serio sulla via della cospirazione contro-rivoluzionaria. Parigi doveva dunque essere disarmata. In relazione a questo punto, l’Assemblea di Bordeaux fu la sincerità stessa. Se il ruggito furibondo dei suoi junker non fosse stato abbastanza intelligibile, la consegna di Parigi, per mezzo di Thiers, nelle mani del triumvirato -- Vinoy, l’assassino del gennaio, Valentin, il gendarme bonapartista e Aurelles de Paladine, il generale dei gesuiti - avrebbe reso inammissibile anche l’ultimo dubbio. Ma mentre i congiurati mettevano insolentemente in chiara luce il losco scopo del disarmo, pretendevano che Parigi consegnasse le armi con un pretesto che era la menzogna più sfacciata e più evidente. Il fatto era questo: dal giorno della capitolazione in poi, quando i prigionieri di Bismarck ebbero consegnata a Bismarck la Francia, trattenendo però per sé una numerosa guardia di corpo, allo scopo dichiarato di tener soggetta Parigi, da quel giorno in poi Parigi stava in guardia. La guardia nazionale si riorganizzò e affidò la sua direzione ad un Comitato centrale che era eletto dall’intera massa, eccettuate alcune delle vecchie frazioni bonapartistiche. Alla vigilia dell’entrata dei prussiani a Parigi, il Comitato centrale provvide al trasporto a Montmartre, la Villette e Belleville dei cannoni e delle mitragliatrici abbandonate proditoriamente nelle varie parti della città e che dovevano esser occupate dai prussiani. Questa artiglieria era stata procurata con le contribuzioni della stessa guardia nazionale. Come sua proprietà, era stata riconosciuta ufficialmente nella capitolazione del 28 gennaio, e, per questa sua speciale proprietà, era stata eccettuata dalla consegna al vincitore delle armi appartenenti allo Stato. E il Thiers era così sprovvisto di ogni anche più evidente pretesto per ingaggiare la guerra con Parigi, che non poté se non insistere sulla sfacciata menzogna. L’artiglieria della guardia nazionale è proprietà dello Stato!
 
Il sequestro dell’artiglieria doveva servire semplicemente come preludio al disarmo generale di Parigi e quindi al disarmo generale della rivoluzione del 4 settembre. Ma questa rivoluzione era diventata lo stato legale della Francia. La Repubblica, sua creazione, era riconosciuta dal vincitore nel testo stesso della capitolazione. Dopo la capitolazione era stata riconosciuta da tutte le potenze estere; nel nome di lei era stata convocata l’Assemblea. La rivoluzione operaia di Parigi del 4 settembre era l’unico titolo giuridico dell’Assemblea nazionale a Bordeaux e del suo potere esecutivo. Senza il 4 settembre, l’Assemblea nazionale avrebbe dovuto far posto immediatamente al corpo legislativo eletto nel 1869 sotto il governo francese e non sotto la signoria prussiana, a voti unanimi, mandato poi in aria violentemente dalla rivoluzione, Thiers e i suoi compagni del ticket-of-leave. avrebbero dovuto trattare con un salvacondotto, firmato da Luigi Bonaparte, per sfuggire ad un viaggio nella Caienna. La Assemblea nazionale coi suoi poteri di conchiudere la pace con la Prussia non era che un episodio in quella rivoluzione, la cui vera incarnazione rimaneva sempre la Parigi armata; la stessa Parigi, che aveva fatta questa rivoluzione, che aveva resistito, in causa di questa rivoluzione, a cinque mesi di assedio con tutti gli spaventosi episodi della carestia e che con la sua resistenza prolungata a dispetto del «piano» di Trochu aveva fornito la base di una ostinata guerra difensiva nelle provincie. E Parigi adesso doveva o deporre le sue armi alla umiliante richiesta degli schiavi ribelli di Bordeaux e riconoscere che la sua rivoluzione del 4 settembre non significava se non il semplice passaggio del potere di Luigi Bonaparte al suo regale antagonista; - oppure doveva farsi innanzi come il paladino sacrificato per la Francia, la cui salvezza dalla rovina e la cui risurrezione erano impossibili senza rovesciare violentemente le condizioni politiche e sociali, che avevano prodotto il secondo impero e che, sotto il suo mantello riparatore, erano maturate al punto d’infracidire. Parigi, ancora estenuata da una carestia di cinque mesi, non esitò un istante solo. Ma decise eroicamente di affrontare tutti i pericoli della resistenza contro i congiurati francesi, benché dei cannoni prussiani tenessero pur tuttavia spalancate le bocche dai suoi stessi forti. E però, nel suo orrore contro la guerra civile, nella quale Parigi doveva venir trascinata, il Comitato centrale si mantenne in una condotta difensiva, a dispetto degli incitamenti dell’Assemblea, degli attacchi del potere esecutivo, e dello scorrazzare minaccioso delle truppe entro e intorno a Parigi.
 
Lo stesso Thiers aprì in tal modo la guerra civile, lanciando il Vinoy alla testa d’un manipolo di sergenti di polizia e di alcuni reggimenti di linea ad una scorreria notturna contro Montmartre, per portar via di lì, inaspettatamente, l’artiglieria della guardia nazionale. È noto come questo tentativo andò a vuoto, contro la resistenza della guardia nazionale e per fatto che le truppe fraternizzarono col popolo. Aurelles de Paladine aveva già stampata in precedenza la sua relazione di vittoria, e Thiers teneva pronti i pubblici manifesti che dovevano annunziare i suoi provvedimenti da colpo di Stato. L’una e l’altra cosa dovette ora essere rimpiazzata con gli appelli del Thiers, nei quali egli proclamava la sua magnanima decisione dì lasciare alla guardia nazionale le sue armi; egli non dubitava - così diceva - che essa saprebbe valersene per schierarsi compatta intorno al governo, contro i ribelli. Fra 300.000 componenti la guardia nazionale, soltanto 300 risposero a quest’appello del piccolo Thiers, di schierarsi cioè intorno a lui, e contro sé medesimi.
 
La gloriosa rivoluzione degli operai del 18 marzo prese possesso incontrastato di Parigi. Il Comitato centrale fu il suo governo provvisorio. Parve che l’Europa dubitasse per un istante se le sue recenti e stupefacenti imprese di governo, di Stato, e guerresche corrispondessero a qualche realtà, oppure fossero sogni d’un passato da lungo tempo scomparso.
 
Dal 18 marzo fino all’entrata delle truppe di Versailles a Parigi, la repubblica proletaria si mantenne così immune da tutti gli atti di prepotenza, dei quali si erano macchiate tutte le rivoluzioni e ancor più le controrivoluzioni delle «classi più elevate», che gli avversari non trovarono nessun altro pretesto al suo disarmo, se non l’esecuzione capitale dei generali Lecomte e Clement Thoma e le demolizioni di piazza Vendome.
 
Uno degli ufficiali bonapartisti, che rappresentò una parte notevole nell’assalto notturno di Montmartre, il generale Lacomte, aveva comandato per ben quattro volte all’81° reggimento di linea di far fuoco sopra un manipolo inerme, a piazza Pigale; e rifiutandosi le truppe, le prese a oltraggiare furiosamente. Invece di uccidere donne e fanciulli, i suoi subalterni uccisero lui stesso. Le consuetudini inveterate, portate ai soldati quando questi appartengono al gregge dei nemici degli operai, non si perdono naturalmente, nello stesso momento in cui questi soldati passano agli operai. Questi soldati giustiziarono anche Clément Thomas.
 
Il «generale» Clément Thomas, un ex sergente di cavalleria, malcontento del suo grado, si era fatto arruolare, negli ultimi tempi di Luigi Filippo, nella redazione del giornale repubblicano Le National, dove egli disimpegnava nel tempo stesso l’ufficio di gerente responsabile (che prendeva sopra di sé la espiazione delle pene carcerarie) e di duellante in questo battagliero periodico. Quando, dopo la rivoluzione di febbraio, arrivarono al potere i signori del National, essi convertirono il vecchio sergente in generale. Ciò accadeva alla vigilia dell’eccidio di giugno, che egli, come Jules Favre, aveva progettato e nel quale rappresentò una delle più abbiette parti di carnefice. In seguito, egli scomparve per parecchio tempo con la sua carica di generale, per ricomparire a galla il 1° novembre 1870. Il giorno prima, il «governo della difesa» aveva dato, nel palazzo della città, a Blanqui, a Flourens e ad altri rappresentanti degli operai, la solenne parola d’ordine di deporre il suo potere nelle mani di una Comune di Parigi liberamente eletta.
 
Invece di mantenere la loro parola, esso sguinzagliò contro Parigi i bretoni di Trochu, che ora rappresentavano i Corsi del Bonaparte. Solo il generale Tamisier si rifiutò di macchiare il suo nome con una simile perfidia e si dimise dal suo posto di comandante in capo della guardia nazionale. Al suo posto, Clément Thomas ridiventò in quell’ora generale. Durante tutto il suo comando, egli condusse la guerra non contro i prussiani, ma contro la guardia nazionale parigina. Egli impedì la sua completa rifornitura d’armi, aizzò i battaglioni borghesi contro i battaglioni operai, mise in un canto gli ufficiali contrari al «piano» Trochu e sciolse, col marchio della viltà, quegli stessi battaglioni operai, il cui eroismo ha ora strappata l’ammirazione ai loro implacati nemici. Clément Thomas era naturalmente orgoglioso di aver riacquistato il suo antico grado di giugno, nella sua qualità di nemico personale del proletariato parigino. Ancora pochi giorni prima del 18 marzo egli esponeva al ministro della guerra Lefto il suo progetto per lo «sterminio della schiuma della canaglia parigina». Dopo la sconfitta di Vinoy, egli non poteva rifiutarsi di comparire sul campo della lotta come spia privata. Il Comitato centrale e gli operai parigini furono altrettanto responsabili dell’uccisione di Clément Thomas e di Lecomte quanto la principessa di Wales della sorte di tutta la gente schiacciata fino a morire, nel pigia pigia del suo ingresso a Londra.
 
Il supposto eccidio di cittadini inermi in piazza Vendome è una leggenda, intorno alla quale Thiers e gli junker agrari hanno serbato ostinatamente il silenzio nell’Assemblea, e la cui diffusione essi affidarono esclusivamente al servidorame della stampa quotidiana europea.
 
Gli uomini dell’ordine, e i reazionari di Parigi, tremarono alla vittoria del 18 marzo. Per loro, questo era il presagio della rivendicazione popolare irrompente. Gli spettri delle vittime sgozzate sotto le loro mani dalle giornate del luglio 1848 fino al 22 gennaio 1871, comparvero innanzi ai loro occhi. Ma il loro terrore fu il loro unico castigo. Perfino gli agenti della polizia, invece di venir disarmati e incarcerati, come si conveniva, trovarono le porte di Parigi spalancate, si da potersi mettere al sicuro a Versailles. E non solo non accadde alcun sinistro agli uomini dell’ordine, ma fu anzi loro concesso di riunirsi un’altra volta e di occupare più d’una piazzaforte nel bel mezzo di Parigi. Quest’imprevidenza del Comitato centrale, questa generosità degli operai armati, in così singolare contrasto con le abitudini del partito dell’ordine, furono interpretate da quest’ultimo come un indizio di cosciente debolezza. Di qui si spiega il loro sciocco progetto di tentare ancora una volta, sotto il pretesto di una pacifica dimostrazione, quello che non aveva saputo raggiungere il Vinoy coi suoi cannoni e con le sue mitragliatrici. Il 22 marzo, dai quartieri della città aristocratica si mise in moto un corteo di «rispettabili signori», tutti bellimbusti in fila, e alla loro testa i noti clienti antichi e fidati dell’impero, gli Heeckeren, i Coetlogon, gli Henri de Pane, ecc. Sotto il vile pretesto di una dimostrazione pacifica, ma in segreto agguerrita con le armi dell’assassino, questa banda si ordinò e riuscì a disarmare e a malmenare le sentinelle e i picchetti della guardia nazionale, contro la quale quell’accozzaglia imperversò; e poi penetrando dalla rue de la Paix alla piazza Vendome la provocò al grido: «Abbasso il Comitato centrale! Abbasso gli assassini! Viva la Assemblea nazionale!», tentando di sbandare le sentinelle e di sorprendere così il quartier generale della guardia nazionale, che si trovava alle spalle del corpo di guardia. Per tutta risposta ai loro colpi di rivoltella, furono fatte le regolari e legali intimazioni; e come queste rimasero senza effetto, il generale della guardia nazionale comandò il fuoco. Una salve sbandò in fuga selvaggia quegli stupidi bellimbusti i quali si erano illusi che la sola parata della «buona società» avrebbe ottenuto, di fronte alla rivoluzione di Parigi, lo stesso effetto delle trombe di Giosuè sulle mura di Gerico. Abbandonarono sul terreno due morti della guardia nazionale, nove gravemente feriti (fra i quali un membro del Comitato centrale) e tutto il teatro della loro impresa disseminato di rivoltelle, pugnali, bastoni animati, a testimonio del carattere «inerme» della «pacifica» dimostrazione. Quando il 13 giugno 1849 la guardia nazionale parigina fece realmente una dimostrazione pacifica per protestare contro l’assalto brigantesco delle truppe francesi contro Roma, Changarnier, allora generale del partito dell’ordine, fu proclamato dall’Assemblea nazionale e specialmente da Thiers, salvatore della società, perché, aveva sguinzagliato da tutte le parti le sue truppe contro questa gente senza armi per fucilarla per sciabolarla e per metterla sotto le zampe dei suoi cavalli. Allora Parigi fu dichiarata in stato di assedio; Dufaure provocò nuove leggi di repressione per mezzo dell’Assemblea; si ebbero nuovi arresti, nuove proscrizioni ed un nuovo governo del terrore. Ma le «classi inferiori» fanno tutto questo diversamente. Il Comitato centrale del 1871 lasciò liberamente fuggire gli eroi della «dimostrazione pacifica» in modo che essi erano già pronti due giorni più tardi a ritirarsi uniti, sotto l’ammiraglio Saisset, a quella dimostrazione armata che finì con la nota fuga a Versailles. Nella sua opposizione ad accettare la guerra civile aperta con l’aggressione notturna di Thiers a Montmartre, il Comitato centrale si rendeva colpevole di un errore decisivo, col non marciare immediatamente sopra Versailles che allora era affatto sprovvista di soccorsi per mettere così un termine alle cospirazioni del Thiers e dei suoi junker agrari. Invece esso permise al partito dell’ordine di sperimentare un’altra volta le sue forze con l’urna elettorale, quando il 26 marzo fu eletta la Comune. In questo giorno gli uomini dell’ordine negli uffici municipali dei distretti scambiarono le più pacifiche parole di conciliazione coi loro troppo generosi vincitori, covando nel tempo stesso nei loro cuori i voti più solenni, di prendersi a miglior tempo una sanguinosa vendetta.
 
Ora vediamo il rovescio della medaglia: Thiers aprì la sua seconda campagna contro Parigi al principio d’aprile. La prima colonna dei prigionieri parigini che giunge a Versailles, fu trattata in modo provocante, mentre Ernesto Picard con le mani nelle tasche dei calzoni, andava girando di su e di giù per schernirli, e le signore di Thiers e di Favre, circondate dalle loro dame d’onore (?), applaudivano dall’alto del balcone alle ignominie della plebe di Versailles. I soldati di linea fatti prigionieri furono senz’altro fucilati; il nostro valoroso unico generale Duval, fonditore di ferro, fu assassinato senza alcuna parvenza di ragione. Gallifet, il «Louis» di sua moglie, così famigerata per la impudente esposizione del suo corpo nelle gozzoviglie del secondo impero, Gallifet si vantava, in un proclama, di aver comandata l’uccisione di alcuni soldati della guardia nazionale assieme al capitano e al tenente, sorpresi e disarmati dai suoi cavalleggeri. Il disertore Vinoy fu nominato da Thiers gran croce della Legion d’onore per il suo ordine del giorno, nel quale comandava di uccidere ogni soldato di linea trovato tra i comunardi. Il gendarme Desmaret fu decorato per aver fatto a brani, all’uso dei beccai, il generoso e cavalleresco Flourens, che il 31 ottobre 1870 aveva salvata la testa ai signori del governo della difesa. I «particolari piccanti» del suo assassino furono comunicati da Thiers nell’Assemblea generale con piacevole abbondanza. Con la tronfia viltà di un pigmeo parlamentare al quale si permette di rappresentare la parte del Tamerlano, egli rifiutò a coloro che si ribellavano alla sua meschinità ogni diritto di condotta civile di guerra, perfino quello della neutralità per i loro posti d’ambulanza.
 
Niente di più ributtante di questa scimmia già preconizzata dal Voltaire la quale per un certo tempo può sfogare liberamente i suoi capricci di tigre.
 
Dopo che la Comune ebbe ordinate delle misure di rivendicazione (decreto del 7 aprile) e dichiarato come suo dovere di «proteggere Parigi contro gli atti cannibalici dei banditi di Versailles di reclamare occhio per occhio, dente per dente» Thiers non lasciò tuttavia da parte il trattamento così inumano dei prigionieri; egli li offendeva per soprassello anche nelle sue relazioni, come in questa: «Lo sguardo rattristato degli onesti non è mai caduto sopra più indegne facce d’una più indegna democrazia»; onesti, come Thiers stesso e i suoi uomini del ticket-of-leave. Epperò l’eccidio dei prigionieri fu per qualche tempo messo da banda. Ma non appena Thiers e i suoi generali del dicembre ebbero sperimentato che il decreto di rappresaglia della Comune non era che una vuota minaccia, che le sue stesse spie-gendarmi, travestite a Parigi da soldati della guardia nazionale erano state prese, e che gli stessi sergenti di polizia, detentori di granate esplosive, erano stati risparmiati, allora anche la fucilazione in massa dei prigionieri rincominciò e fu proseguita fino alla fine. Alcune case, in cui si erano rifugiati i soldati della guardia nazionale, furono circondate dai gendarmi, cosparse di petrolio (che qui fa la sua comparsa per la prima volta) e messe a fuoco; i cadaveri semicombusti furono più tardi portati fuori dall’ambulanza della stampa (a Les Ternes). Quattro soldati della guardia che si erano arresi il 25 aprile presso Belle Epine ad alcuni cacciatori a cavallo, furono l’un dopo l’altro fucilati dal capitano, un degno stalliere di Gallifet. Uno dei quattro, Scheffer, abbandonato per morto, si trascinò fino gli avamposti di Parigi e prestò testimonianza legale circa questo fatto innanzi a un Comitato della Comune. Quando poi Tolain interpellò il ministro della guerra sulla reazione di questo Comitato, lo schiamazzo degli junker rurali soffocò la sua voce; proibirono a Lefto di rispondere. Sarebbe un’offesa per il loro «glorioso» esercito parlare delle sue gesta. Il tono indifferente, col quale le relazioni di Thiers comunicarono la strage dei soldati della guardia nazionale sorpresi nel sonno presso Moulin Saquet e le fucilazioni in massa di Clamant, irritò perfino i nervi del «Times» di Londra veramente non troppo sensibili. Ma sarebbe ridicolo di voler enumerare anche soltanto gli orrori iniziali consumati dai bombardatori di Parigi e dai promotori d’una ribellione di sfruttatori, sotto la protezione del conquistatore straniero. In mezzo a tutti questi orrori, Thiers dimentica la sua maniera parlamentare, in causa della terribile responsabilità che grava sulle sue spalle di pigmeo e si vanta che l’Assemblea siège paisiblement e prova coi suoi continui festini, oggi coi generali del dicembre, domani coi principi tedeschi, che la sua digestione non è per nulla guastata dagli spettri di Lecomte e di Clement Thomas.
 
* III
 
La mattina del 18 marzo 1871 Parigi fu svegliata da un grido clamoroso: «Viva la Comune!». Che cos’è la Comune, questa sfinge che mette a così dura prova l’intelligenza dei borghesi?
 
«I proletari di Parigi» diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo, «in vista delle disfatte e del tradimento delle classi dominanti hanno compreso che è venuta l’ora in cui essi devono salvare la situazione, con l’assumere in mano propria la direzione della cosa pubblica. Essi hanno compreso che il loro più alto dovere e il loro assoluto diritto è di diventare padroni della propria sorte e di impossessarsi del potere dello Stato». Ma la classe operaia non è in grado di prendere semplicemente possesso del pronto meccanismo dello Stato, e di metterlo in movimento secondo i propri fini.
 
La forza dello Stato accentrato, con tutti i suoi organi attuali - esercito stanziale, polizia, burocrazia, chiesa, tribunali, organi prodotti da un piano di sistematica e ieratica divisione del lavoro - deriva a noi dai tempi della monarchia assoluta, quando essa serviva alla società borghese in formazione, come un’arma potente per le sue lotte contro il feudalismo. Tuttavia il suo sviluppo rimase incagliato fra le varie macerie medioevali, come i privilegi del possesso fondiario e della nobiltà, i privilegi locali monopoli di città e di corporazioni, costituzioni provinciali ecc. La gigantesca scopa della rivoluzione francese del secolo decimottavo spazzò via tutte queste rovine di tempi tramontati, e sbarazzò in pari tempo il terreno sociale degli ultimi impedimenti, che si opponevano alla nuova costruzione del moderno edificio di Stato. Questo edificio dello Stato moderno si innalzò sotto il primo impero, il quale era già stato prodotto naturalmente dalle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna.
 
Durante le forme di dominio susseguenti, il governo fu diretto delle classi abbienti. Da un lato esso si sviluppò in messo sotto il controllo parlamentare, ossia sotto il controllo d’una officina di colossali debiti di Stato e di opprimenti balzelli e divenne, in forza dell’irresistibile facoltà di attrazione del suo potere ufficiale, delle sue entrate e del suo cumulo d’impieghi, il pomo della discordia fra le frazioni concorrenti e per gli avventurieri delle classi dominanti; dall’altro lato, il suo carattere politico si trasformò contemporaneamente alle trasformazioni economiche della società.
 
A misura che il progresso dell’industria moderna si sviluppava, allargava e approfondiva il dissidio di classe fra capitale e lavoro, il potere dello Stato acquistava sempre più il carattere di una forza pubblica per opprimere la classe operaia, una delle macchine del potere di classe. Dopo ogni rivoluzione che determina un progresso della lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato appare sempre più manifesto. La rivoluzione del 1830 trasmise il governo dalle mani dei possidenti a quello dei capitalisti e con ciò dagli avversari più lontani agli avversari più indiretti degli operai. I borghesi repubblicani, che in nome della rivoluzione del febbraio, avevano afferrato le redini del governo, se ne valsero per provocare le stragi del giugno, allo scopo di dimostrare agli operai che la repubblica «sociale» non voleva dire altro se non la loro oppressione sociale per mezzo della Repubblica; e per dimostrare alla massa dei borghesi e dei possidenti, di sentimento monarchico, che essi potevano lasciar tranquillamente ai borghesi repubblicani le cure e i vantaggi pecuniari del potere. Dopo questa unica loro impresa eroica del giugno, ai repubblicani borghesi non rimane tuttavia che retrocedere dal posto di prima a quello di ultimo membro del «partito dell’ordine»; coalizione formata da tutte le frazioni concorrenti e dalle frazioni delle classi sfruttatrici nella loro opposizione adesso apertamente dichiarata alle classi produttrici. La forma adatta al loro governo collettivo era la Repubblica parlamentare con Luigi Bonaparte presidente, un governo di manifesto terrorismo di classe e di offesa premeditata alla vile moltitudine. Se, come diceva il Thiers, la Repubblica parlamentare era la forma di Stato che divideva fra di loro il meno possibile le varie frazioni della classe dominante, essa apriva d’altro canto un abisso fra questa classe e tutto il corpo sociale che viveva al di fuori delle sue ristrette file. Le barriere che, sotto i governi precedenti, avevano imposto le scissure interne di quella classe del potere dello Stato, erano adesso, grazie alla loro unione, tolte di mezzo.
 
In vista del minaccioso avanzare del proletariato, la classe abbiente coalizzata, ora sfruttava il potere dello Stato senza alcun riguardo o pudore come strumento di guerra nazionale del capitale contro il lavoro. Ma la sua ininterrotta crociata contro le masse produttrici non la costrinse soltanto a rafforzare il potere esecutivo con la forza ognora crescente di repressione; la costrinse anche a spogliare a poco a poco la sua stessa cittadella parlamentare - l’assemblea generale - di tutti i mezzi di difesa contro il potere esecutivo. Il potere esecutivo, in persona di Luigi Bonaparte, lo mise alla porta. Il successore naturale della Repubblica del «partito dell’ordine» era il secondo impero.
 
L’impero col colpo di Stato per attestato di nascita, col diritto generale di voto per credenziale e con la sciabola per scettro dava ad intendere di appoggiarsi ai contadini, a questa gran massa di produttori, che non erano immediatamente impigliati nella lotta fra capitale e lavoro. Dava ad intendere di voler salvare le classi abbienti col mantenere sempre alta la loro superiorità economica sulle classi operaie; e finalmente faceva credere di voler riunire tutte le classi, con l’infondere novella vita al fantasma della gloria nazionale. In realtà esso era l’unica forma di governo possibile in un. tempo, in cui la borghesia aveva già perduta la capacità di governare la nazione, e la classe operaia non aveva acquistato ancor questa capacità. Tutto il mondo batté le mani, giubilando, all’impero, come salvatore della società. Sotto il suo governo, la società borghese, alleggerita di tutte le cure politiche, raggiunse un grado di sviluppo giammai segnato. La sua industria, il suo commercio si diffusero in relazioni incalcolabili; la truffa finanziaria celebrò le sue orge cosmopolite: la miseria delle masse si contrappose brutalmente al fasto d’un lusso barocco, iperbolico ed equivoco. Il potere dello Stato, apparentemente librato sopra la società, era con tutto questo lo scandalo più scandaloso di questa società stessa e nel tempo stesso il fornite d’ogni sua corruzione. La sua stessa rovina e la rovina della società da lui salvata fu evitata dalle baionette della Prussia, che ardeva dalla bramosia di trasferire il centro di gravità di questo regime da Parigi a Berlino. L’imperialismo è la forma più prostituta e nel tempo stesso la forma definita di quel potere di Stato, che era stato chiamato dalla società borghese in formazione, come strumento della sua emancipazione dal feudalismo, e che aveva trasmutata la società borghese completamente sviluppata in uno strumento per asservire il lavoro al capitale.
 
Diametralmente opposta all’impero era la Comune. Il «grido di repubblica sociale» col quale il proletariato parigino inaugurò la rivoluzione del febbraio, non esprimeva che l’aspirazione indeterminata la forma monarchica della classe dominatrice, ma lo stesso dominio di classe. La Comune era la forma precisa di questa repubblica.
 
Parigi, centro e sede dell’antico potere governativo, e nel tempo stesso centro di gravità sociale della classe operaia francese, Parigi si era sollevata in armi contro il tentativo di Thiers e dei suoi junker di restaurare e di perpetuare questo decrepito potere governativo trasmesso dall’Impero; Parigi poteva offrir resistenza, perché in conseguenza dell’assedio s’era disfatta dell’esercito, al cui posto aveva messo una guardia nazionale composta principalmente di operai. Questo fatto Parigi seppe ora convertire in una istituzione permanente. Il primo decreto della Comune fu quindi la soppressione della milizia stabile e la sua sostituzione col popolo armato.
 
La Comune era composta dai consiglieri della città eletti nei vari circondari di Parigi con suffragio universale. Erano responsabili e potevano essere licenziati in qualunque tempo La loro maggioranza consisteva naturalmente di operai e di rappresentanti riconosciuti della classe operaia. La Comune non doveva essere una corporazione parlamentare, ma operaia, esecutiva e legislativa nel tempo stesso. La polizia, finora strumento del governo di Stato, fu spogliata immediatamente di tutte le sue attribuzioni politiche e trasformata nello strumento responsabile e sempre revocabile della Comune. Così pure gli impiegati di tutti gli altri rami dell’amministrazione. Dai membri della Comune in giù, doveva essere curato il servizio pubblico, per la mercede agli operai. I diritti acquisiti e i compensi di rappresentanza dei grandi dignitari dello Stato scomparvero con questi dignitari stessi. Le cariche pubbliche finirono d’essere proprietà privata dei manovali del governo centrale. Non solamente l’amministrazione cittadina ma anche tutta l’iniziativa fino ad ora esercitata dallo Stato, fu messa nelle mani della Comune.
 
Messe ora fuori di combattimento la milizia stabile e la polizia, congegni della forza materiale dell’antico governo, la Comune s’avviò immediatamente a rompere anche lo strumento spirituale d’oppressione, la potenza del prete: decretò lo scioglimento e la espropriazione di tutte le chiese, in quanto erano corporazioni possidenti. I preti rinviati alla quiete della vita privata, per alimentarsi d’ora in poi, secondo l’esempio dei loro predecessori, gli apostoli, dell’elemosina dei credenti. Tutti gli istituti d’istruzione furono aperti al popolo gratuitamente e nel tempo stesso liberati da ogni inframettenza dello Stato e della Chiesa. Con ciò non solo si rese accettabile a tutti l’istruzione scolastica, ma si liberò la scienza per se stessa dalle pastoie impostele dal pregiudizio di classe e dal potere del governo.
 
Gli impiegati giudiziari perdettero quella apparente indipendenza, che non aveva servito ad altro che a coprire la loro umile devozione a tutti i governi, a ognuno dei quali essi avevano, secondo il grado, giurata, e quindi spergiurata, fedeltà. Come tutti gli altri pubblici servitori, dovevano anch’essi venir eletti, erano responsabili e amovibili.
 
La Comune di Parigi doveva naturalmente servir di modello a tutti i grandi industriali della Francia. Appena introdotto l’ordine comunale degli affari a Parigi e nei centri di second’ordine, il vecchio governo d’accentramento avrebbe dovuto cedere anche nelle provincie al governo autonomo dei producenti. In un breve schizzo dell’organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di elaborare più ampiamente, è detto espressamente che la Comune è la forma politica anche del più piccolo villaggio e che l’esercito stabile deve venir sostituito nei paesi da una milizia popolare con un turno di servizio breve fino al possibile. I comuni rurali di ogni circondario dovevano amministrare i loro affari comuni per mezzo di un’adunanza di deputati nel capoluogo del circondario, e queste adunanze di circondario dovevano poi mandare altri deputati alla delegazione nazionale a Parigi; i deputati dovevano essere in ogni tempo amovibili e obbligati alle istruzioni dei loro elettori.
 
Le poche, ma importanti funzioni che rimanevano ancora in piedi per un governo centrale, non dovevano affatto, come è stato detto in mala fede, venir abolite, ma trasferite a impiegati comunali, vale a dire strettamente responsabili. L’unità della nazione non doveva per nulla essere infranta, ma, al contrario, organizzata dalla costituzione comunale, essa doveva diventare realtà con l’annientamento di quel potere di Stato che si spacciava per rappresentante autentico di questa unità, ma che voleva rimanere indipendente e superiore di fronte alla nazione, sul cui organismo esso non era che un’escrescenza parassitaria Mentre si riuscì a recidere gli organi oppressori dell’antico potere del governo, le sue funzioni legittime dovevano essere sottratte a un potere il quale aspirava a sopraffare la società, ed essere restituito ai servitori responsabili della società. Invece di decidere una sola volta in tre o in sei anni quale membro della classe dominante dovesse rappresentare e opprimere il popolo nel Parlamento, il diritto di voto universale doveva servire al popolo costituito in comuni, come il diritto di scelta individuale serve ad ogni altro distributore di lavoro per scegliere operai, direttori, contabili nella propria azienda. Ed è abbastanza risaputo che tanto le società, quanto gli individui sanno trovare abitualmente per i propri interessi reali il loro uomo; e che, nel caso che si siano ingannati, sanno ben presto porvi rimedio. D’altro canto, però, niente poteva essere più estraneo allo spirito della Comune che il sostituire il suffragio universale con l’investitura gerarchica.
 
È la sorte comune delle nuove creazioni storiche l’essere scambiate come il ricorso di antiche già tramontate forme della vita sociale, con le quali abbiano una certa somiglianza. Così questa nuova Comune, che manda in frantumi il potere moderno dello Stato, è stata intravista come un’esumazione dei comuni medioevali, i quali da prima si opposero a quel potere e poi ne formarono la base. La costituzione comunale è stata presa per un tentativo di sostituire una federazione di piccoli Stati, come la sognavano il Montesquieu e i Girondini, a quel l’unione di grandi popoli, la quale, originalmente è stata effettuata con la forza; e ora è diventata un potente fattore della produzione sociale. L’antitesi della Comune di fronte al potere dello Stato è stata travisata come una forma esagerata dell’antica lotta contro l’ultra-accentramento. Speciali circostanze storiche possono aver impedito lo sviluppo classico della forma borghese di governo, quale s’incontra in Francia, e possono aver permesso, come in Inghilterra, che i grandi organi centrali dello Stato si completassero per mezzo di corrotte assemblee, di parroci, di consigli comunali dilapidatori del pubblico denaro e amministratori pazzoidi dei beni dei poveri, nelle città, e per mezzo di giudici di pace realmente ereditari nelle campagne. La costituzione comunale avrebbe restituito, al contrario al corpo sociale tutte le forze, che fino ad ora aveva consumato lo Stato parassita che si nutre della società e ne intralcia il suo libero movimento. Per questo sol fatto essa avrebbe messo la Francia sulla via della rinascita.
 
La classe media delle città di provincia vide nella Comune un tentativo di restaurare un potere che essa aveva esercitato sotto Luigi Filippo sulla campagna e che sotto Luigi Bonaparte era stato eliminato dall’ apparente predominato della campagna sulla città. In realtà però, la costituzione comunale avrebbe portato i produttori delle campagne sotto la direzione spirituale dei capoluoghi di distretto e assicurato loro colà, negli operai cittadini, i rappresentanti naturali dei loro interessi.
 
La semplice esistenza della Comune portava seco, come cosa naturale per sé, l’autonomia locale; ora però non più come contrappeso al potere di Stato, diventato adesso superfluo. Soltanto ad un Bismarck - il quale quando non era distratto dai suoi intrighi di sangue e di ferro, tornava volentieri a quel suo posto di collaboratore del «Kladderadatsch» così adatto al suo temperamento spiritoso - soltanto ad una testa simile poteva venir in mente di attribuire alla Comune di Parigi l’aspirazione a quella caricatura dell’antica costituzione francese cittadina del 1791, dell’ordinamento prussiano delle città, che poi le amministrazioni cittadine abbassarono al livello dì ruote affatto secondarie nel meccanismo dello Stato prussiano.
 
La Comune fece una verità della parola d’ordine di tutte le rivoluzioni borghesi «governo a buon mercato», sopprimendo tutte due le fonti principali delle spese, esercito e burocrazia. La sua semplice esistenza presupponeva la inesistenza della monarchia, la quale, almeno in Europa, è la zavorra regolare e l’indispensabile mantello copritore del dominio di classe. Essa procurò alla repubblica la base di istituti realmente democratici. Ma né il «governo a buon mercato» né la «vera repubblica» era la sua meta finale; l’uno e l’altro si produssero in seguito e da per sé.
 
La varietà delle interpretazioni alle quali soggiacque la Comune, e la varietà degli interessi che in lei si trovavano espressi dimostrano che essa era una forma politica eminentemente capace di espansione, mentre tutte le forme di governo antecedenti erano state in realtà reprimenti Il suo vero segreto era questo: essa era in sostanza un governo della classe operaia, il risultato della politica finalmente scoperta, e in grazia della quale si poteva con la lotta della classe produttrice contro la classe usurpatrice, concretare la forma per effettuare l’emancipazione economica del lavoro.
 
Senza quest’ultima condizione, la costituzione comunale era un assurdo e un’illusione. Il potere politico dei produttori non può sussistere a fianco della perpetuazione del suo asservimento sociale. La Comune doveva quindi servir di leva per rovesciare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi e perciò il potere di classe. Una volta emancipato il lavoro, ogni uomo diventa un lavoratore; e il lavoro produttivo cessa di essere una proprietà di classe.
 
È un fatto singolare; a dispetto del gran parlare e della immensa letteratura di questi ultimi sessant’anni intorno alla emancipazione degli operai - non appena questi operai prendono nelle proprie mani la somma delle cose, di bel nuovo echeggiano immediatamente le frasi retoriche e apologetiche dei patrocinatori della società presente coi loro due capisaldi: capitale e asservimento per mezzo delle mercedi (il possidente non è ora se non il socio muto del capitalista); come se la società capitalistica vivesse ancora in stato di innocenza verginale, come se tutti i suoi principi non fossero ancora sviluppati, tutte le sue auto-illusioni ancora non svelate, e tutta la sua prostituta realtà non ancora messa a nudo! La Comune, esclamano, vuole abolire la proprietà, base di ogni civiltà. Sissignori, la Comune ha voluto abolire quel privilegio di classe che trasforma il lavoro dei molti in ricchezza dei pochi. Essa ha mirato all’espropriazione degli espropriatori. Essa ha voluto elevare la proprietà individuale ad una verità, convertendo i mezzi di produzione, il suolo e il capitale, e sopratutto i mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e socializzato. Ma questo è il comunismo, «I’impossibile» comunismo! Ora coloro, fra le classi dominanti, che sono abbastanza intelligenti per intuire la impossibilità che il sistema presente possa durare - e ve n’ha parecchi - si sono improvvisati ad apostoli zelanti e sfiatati della produzione sociale. Ma se la produzione sociale non rimane semplice apparenza o finzione, se essa colpisce il sistema capitalistico, se l’unione delle associazioni regola la produzione nazionale secondo un piano comune, Io prende sotto la propria direzione e vuoi farla finita con l’anarchia permanente e con le convulsioni che si manifestano periodicamente e che sono la sorte inevitabile della produzione capitalista - che altro sarebbe, signori miei, tutto questo se non il comunismo, il «possibile» comunismo?
 
La classe operaia non ha preteso nessun miracolo dalla Comune. Essa non ha da introdurre utopie fisse e bell’e pronte per mezzo di deliberazioni popolari. Essa sa che, per elaborare la sua stessa emancipazione e, con quella forma di vita superiore alla quale la società presente tende irresistibilmente col suo proprio sviluppo economico - essa, la classe, ha da sostenere ancora lunghe lotte, una intera serie di processi storici, in forza dei quali gli uomini non meno delle circostanze saranno completamente trasformati. Essa non ha da realizzare alcun ideale; essa non ha che da porre in libertà gli elementi della società nuova che si sono sviluppati in grembo della società borghese in sfacelo. In piena coscienza della sua missione storica e col proposito eroico di agire in modo degno di quella, la classe operaia si può accontentare di sorridere di fronte alla dotta protezione dei dottrinari della borghesia ben pensante, i quali van predicando i loro insipidi luoghi comuni e i loro sproloqui settari in tono .d’oracoli di infallibilità scientifica.
 
Quando la Comune di Parigi prese in mano propria la direzione della rivoluzione: quando semplici operai osarono per la prima volta di toccare il privilegio di governo dei loro «superiori naturali» i possidenti, e, in circostanze di difficoltà senza precedenti, disimpegnarono modestamente, coscienziosamente ed efficacemente il loro lavoro (e lo disimpegnarono per compensi, il più elevato dei quali, secondo un mallevadore cospicuo e uno scienziato come il professore Huxley, era appena il quinto del compenso minimo d’un segretario del Consiglio scolastico di Londra), allora il vecchio mondo si agitò in convulsioni furibonde allo spettacolo della bandiera rossa che, quale simbolo della Repubblica del lavoro, sventolava sul palazzo di città.
 
Eppure, fu questa la prima rivoluzione, in cui la classe operaia fu riconosciuta apertamente come l’unica classe, che fosse ancora capace di un’iniziativa sociale: riconosciuta perfino dalla gran massa della classe media parigina, come dai piccoli commercianti, artieri e piccoli industriali, esclusi soltanto i grandi capitalisti. La Comune l’aveva salvata, eliminando saviamente la ragione dell’eterna causa del dissidio nella stessa classe media, della questione, cioè, fra debitori e creditori. La stessa parte della classe media aveva cooperato nel 1848 alla repressione della rivolta operaia del giugno; e immediatamente dopo era stata sacrificata senza alcuna considerazione a’ suoi creditori, per mezzo dell’Assemblea costituente. Ma questa non era la sola ragione per cui ora si era unita agli operai. Essa sentiva che ormai non c’era che una scelta: o la Comune, o l’impero, anche se sotto altri nomi. L’impero aveva economicamente rovinata questa classe media col suo sperpero del pubblico denaro, con la truffa finanziaria perpetrata su larga scala, col suo favorire l’accentramento artificialmente affrettato del capitale, e con la conseguente espropriazione d’una grande parte di questa classe media. L’impero l’aveva anche oppressa politicamente, corrotta con le sue orge, offesa nel suo volterrianismo, affidando l’educazione dei sui figli agli «Ignorantelli»; aveva suscitato artificiosamente il suo sentimento nazionale francese, gettandola a capofitto in una guerra, la quale per tutto lo sfacelo che portò, non lasciava che uno scampo: l’annientamento dell’Impero. In realtà, dopo l’emigrazione in massa da Parigi, dell’alta banda di zingari bonapartisti e capitalisti uscì in campo il vero partito dell’ordine della classe media quale l’«Unione repubblicana» si mise sotto la bandiera della Comune e la difese contro la mala fede e i raggiri del Thiers. Se la riconoscenza di questa grande massa della classe media resisterà alle difficili prove di quest’ora si vedrà in seguito.
 
La Comune aveva perfettamente ragione, gridando ai contadini: «La nostra vittoria è la vostra speranza!» Di tutte le menzogne ordite a Versailles e strombazzate dai famosi zuavi della stampa europea, una delle più colossali fu quella che gli junker agrari dell’Assemblea nazionale fossero i rappresentanti dei contadini francesi per quella gente, alla quale egli dopo il 1845 aveva dovuto pagare un miliardo d’indennità. Agli occhi del contadino francese, la sola esistenza di un grande possidente è un’usurpazione sulle sue conquiste del 1789. Il borghese aveva aggravata, nel 1848, la piccola proprietà del contadino coi 45 centesimi addizionali sulla lira, ma fece questo in nome della rivoluzione; ora egli aveva accesa una guerra civile contro la rivoluzione per addossare ai contadini il peso principale dei cinque miliardi di indennizzo di guerra accordato ai prussiani. La Comune al contrario, dichiarava subito, in uno dei suoi primi proclami, che i veri provocatori della guerra avrebbero dovuto anche pagare le spese. La Comune avrebbe sollevato il contadino dal balzello del sangue, gli avrebbe dato un governo a buon mercato e avrebbe convertito le sue sanguisughe, come il notaio, l’avvocato, l’usciere giudiziario ed altri vampiri legali, in impiegati assoldati dal comune, scelti da esso e di fronte a lui responsabili. La Comune lo avrebbe inoltre liberato dallo spadroneggiare della guardia campestre, del gendarme e del prefetto; e in luogo dell’oscurantismo dei preti avrebbe portato la luce del maestro. Ora il contadino francese è sopratutto un uomo che calcola. Egli avrebbe trovato perfettamente ragionevole che lo stipendio del prete dovesse dipendere esclusivamente dalla cooperazione volontaria dei devoti delle sue parrocchie anzi che essere regolata dall’esattore delle imposte. Questi erano i grandi incommensurabili benefici, che il governo della Comune - e solo esso - prometteva ai contadini francesi.
 
È quindi del tutto superfluo occuparsi più minutamente delle questioni complete della vita materiale che la Comune sola era in grado, e nel tempo stesso era costretta, di risolvere in favore dei contadini; come la questione del debito ipotecario che pesava come un incubo sulla sua proprietà; come la questione del proletariato agricolo che cresceva ogni giorno; come la stessa espropriazione di questa proprietà la quale si effettuava con ognor crescente rapidità, grazie allo sviluppo dell’agricoltura moderna e alla concorrenza della coltura capitalistica del suolo.
 
Il contadino francese aveva eletto Luigi Bonaparte presidente della Repubblica, ma il partito dell’ordine creò il Secondo impero. Quello che occorreva davvero al contadino francese incominciò a manifestarsi nel 1849 e 1850, quando egli contrappose dappertutto il suo «maire» al prefetto governativo, il suo maestro elementare al prete del governo, sé stesso al gendarme del governo. Tutte le leggi emanate dal partito dell’ordine nel gennaio e nel febbraio del 1850 erano notorie misure coercitive contro i contadini. Il contadino era bonapartista, perché la grande rivoluzione, con tutti i suoi vantaggi per lui era, agli occhi suoi, impersonata in Napoleone. Questa illusione, che doveva svanire ben presto sotto il Secondo impero (ed era per sua natura, completamente ostile agli junker agrari), questo pregiudizio del passato avrebbe potuto sussistere di fronte all’appello della Comune, agli interessi vitali, agli urgenti bisogni dei contadini?
 
Gli junker agrari - e questo era il loro timore principale - sapevano che tre mesi di libero commercio fra Parigi comunarda e le provincie avrebbero determinato una sollevazione generale di contadini. Di qui la loro fretta ansiosa di cingere Parigi con un blocco poliziesco e di arrestare il diffondersi dell’epizoozia.
 
Se, così, la Comune era la vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese e quindi il vero governo nazionale, era quindi nel tempo stesso, e come governo di operai e come audace propugnatrice dell’emancipazione del lavoro nel pieno senso della parola, internazionale. Sotto gli occhi dell’esercito prussiano, che aveva annesso due provincie francesi alla Germania, la Comune seppe annettere alla Francia i lavoratori di tutto il mondo.
 
Il secondo impero era la festa clamorosa della marioleria cosmopolita; tutti i cavalieri d’alto bordo erano accorsi da tutti i paesi per prender parte alle sue orge, e al saccheggio del popolo francese. Proprio in questo momento il braccio destro di Thiers è Ganesco, un cavaliere d’industria valacco, e il suo braccio sinistro una spia russa, Narkovski. La Comune concesse a tutti gli stranieri l’onore di cadere per la sua causa imperitura.
 
Era la guerra esterna, perduta per tradimento, e la guerra civile scoppiata per la congiura col conquistatore straniero, la borghesia ebbe tempo sufficiente di esercitare il suo patriottismo con l’organizzazione di vere cacce di poliziotti contro i tedeschi in Francia. La Comune aveva creato suo ministro di lavori pubblici un tedesco, Thiers, la borghesia, il Secondo impero, avevano costantemente ingannata la Polonia a furia di promettere aiuti, mentre in realtà la tradivano alla Russia e si sottoponevano a questo sporco servizio della Russia. La Comune venerò i figli della nobile Polonia mettendoli alla testa della difesa di Parigi. E, per designare chiaramente la nuova era, che essa aveva coscienza d’inaugurare, la Comune, sotto gli occhi di prussiani vittoriosi da una parte, dall’altra dell’esercito bonapartista condotto da generali bonapartisti, rovesciò il colossale simbolo della glorificazione della guerra, la colonna Vendome.
 
La grande misura sociale della Comune era la sua stessa esistenza operaia. Le sue stesse misure speciali non potevano che indicare la direzione in cui un governo di popolo si muove per mezzo del popolo. A questo appartengono: l’abolizione del lavoro notturno dei garzoni di fornai; il divieto, sotto penale, della consuetudine invalsa fra i padroni di abbassare le mercedi con l’imporre multe in denaro ai lavoratori sotto pretesti d’ogni fatta: procedimento per il male chi dà lavoro concentra nella propria persona l’ufficio di legislatore, di giudice e di esecutore, e per giunta intasca denaro. Un altro provvedimento di questo genere fu la consegna di tutti gli stabilimenti e delle fabbriche chiuse a compagnie di operai, col diritto di risarcimento, come se il risarcimento, come se il rispettivo capitalista fosse fuggito oppure avesse preferito sospendere il lavoro.
 
I provvedimenti finanziari della Comune, notevoli per la loro accortezza e temperanza, non potevano che limitarsi a quelli che potevano conciliarsi con una città assediata. In considerazione degli enormi furti che si commettevano nella città di Parigi per mezzo delle grandi compagnie finanziarie e degli imprenditori sotto il governo di Hausmann, la Comune avrebbe avuto ben maggiore diritto di confiscare la loro proprietà, che non l’avesse Luigi Bonaparte di fronte alla proprietà della famiglia Orléans. Gli Hohenzollern e gli oligarchici inglesi, ambedue i quali derivarono una buona porzione dei loro averi da proprietà ecclesiastiche confiscate, erano naturalmente indignati contro la Comune, che dalla secolarizzazione non aveva tratto che un profitto di 8000 lire.
 
Mentre il governo di Versailles, appena riprese un po’ di coraggio e di forza, applicava contro la Comune le misure violente, mentre in tutta la Francia sopprimeva la libertà di discussione ed arrivava a proibire le riunioni dei delegati delle grandi città; mentre esso assoggettava Versailles e tutto il resto della Francia a uno spionaggio ancor più perfido di quello del Secondo impero; mentre, per mezzo dei suoi gendarmi-inquisitori, bruciava tutti i giornali stampati a Parigi e apriva tutte le lettere da o per Parigi; mentre i più timidi tentativi fatti nell’Assemblea nazionale per innalzare una pubblica voce in favore di Parigi venivano accolti con urli di riprovazione in una maniera inaudita perfino nella Camera degli junker del 1816: e mentre duravano e la sanguinosa condotta di guerra dei Versagliesi all’estero e i loro tentativi di corruzione e di cospirazione entro Parigi - come avrebbe potuto la Comune non tradire ignobilmente la sua missione, se avesse osservato tutte le forme convenienti del liberalismo, come in tempo di perfetta pace? Se il governo della Comune fosse stato affine a quello del sig. Thiers, non vi sarebbe stato motivo di sopprimere i giornali dell’ordine a Parigi, come i giornali della Comune a Versailles?
 
Fu davvero un caso poco piacevole per gli junker agrari l’avere la Comune, miscredente, riaperti i meravigliosi segreti del convento delle monache di Piepus e della chiesa di St. Laurent, proprio nel tempo in cui coloro dichiaravano il ritorno alla Chiesa come unico mezzo per la salvezza della Francia. Ed era inoltre una satira per il Thiers il fatto che, mentre egli faceva piovere delle gran croci sui generali bonapartisti per la loro valentia nel perdere battaglie, nel firmare capitolazioni e nell’arrotondare le sigarette di Withelmshölle, la Comune destituiva i suoi generali e li arrestava, non appena diventavano sospetti di trascurare il loro servizio. L’espulsione e l’arresto di un membro, che si era intruso sotto falso nome e che prima aveva scontato sei giorni di reclusione per bancarotta semplice, a Lione, non è stata forse una premeditata offesa scagliata in viso al falsario Jules Favre, tuttora ministro degli esteri in Francia, e che tuttora vendeva la Francia a Bismarck sempre dettando ordini a quell’incomparabile governo belga? Ma un fatto, la Comune non aveva alcuna pretesa all’infallibilità, come l’hanno tutti i vecchi governi senza eccezione. Essa pubblicava tutti i discorsi e tutti i fatti e metteva il pubblico a parte di tutte le sue imperfezioni.
 
In ogni rivoluzione escono in campo, accanto i suoi rappresentanti autentici, individui di altro conio. Alcuni sono i superstiti delle rivoluzioni anteriori, con le quali sono cresciuti, uomini senza intuizione del momento attuale, ma ancora in possesso di grande influenza sul popolo in grazia del loro noto coraggio e del carattere, o anche per semplice tradizione. Altri non sono che parolai, i quali, ripetendo per anni ed anni le stesse declamazioni stereotipate contro il governo del momento, si sono procacciati fama di rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 15 marzo, simile gente venne a galla e giunse anzi a rappresentare una parte notevole in parecchi casi. Il loro potere arrivò al punto di paralizzare l’azione della classe operaia, come aveva già arrestato il pieno sviluppo di tutte le rivoluzioni anteriori. Costoro sono un male inevitabile; col tempo si può levarselo d’attorno; ma appunto il tempo non fu lasciato alla Comune.
 
Mirabile, a dir vero fu la trasformazione compiuta a Parigi dalla Comune. Nessuna traccia più della Parigi licenziosa del Secondo impero. Parigi non fu più il centro di convegno dei latifondisti inglesi, degli abaentees irlandesi, degli americani ex proprietari di schiavi e nuovi ricchi, dei russi ex proprietari di servi e di boiardi valacchi. Non più cadaveri nella Morgue, non più furti con rapine, quasi non più furti: dalle giornate di febbraio 1848 le vie di Parigi erano ritornate sicure, e tutto questo senza alcuna polizia. «Noi - diceva un membro della Comune - non sentiamo più parlare di assassini, di rapine, di reati contro le persone; sembra infatti che la polizia si sia trascinata a Versailles tutti i suoi amici conservatori». Le donnine allegre avevano ritrovato le péste dei loro protettori, i profughi della famiglia, della religione e sopratutto della proprietà. AI posto loro ritornarono in luce le vere donne di Parigi, eroiche, magnanime e piene d’abnegazione, come le donne dell’antichità. Parigi che lavora, che pensa, che lotta, che sanguina, quasi immemore, alla vigilia di una nuova società, dei cannibali che stavano alle sue porte, e raggiante d’entusiasmo per la storica iniziativa.
 
Ed ecco, per contrapposto a questo nuovo mondo di Parigi, il vecchio mondo di Versailles, il verminaio di tutto il defunto regime, legittimisti ed orleanisti avidi di divorare il cadavere della nazione, con un codazzo di repubblicani andati a male, i quali con la loro presenza nell’assemblea approvavano la ribellione degli schiavisti e che, dalla vanità dei decreti pagliaccio alle redini del governo, e si ripromettevano la conservazione della loro repubblica parlamentare, e che facevano la caricatura del 1789 col tenere le loro spettrali assemblee al Jeu de Paume (casa della pallacorda dove l’assemblea nazionale del 1789 prese le sue celebri deliberazioni). Lì, questa adunanza era la rappresentante di tutto ciò che era morto in Francia e sostenuto da una vita apparente o da niente altro che dalla sciabola dei generali di Luigi Bonaparte. Parigi tutta verità; Versailles tutta menzogna, e questa menzogna lanciata dalla bocca di Thiers.
 
Thiers diceva ad una deputazione di sindaci del dipartimento di Seine et Oise: «Potete fidare sulla mia parola, alla quale non ho giammai mancato!». All’assemblea stessa egli diceva che era «l’assemblea eletta con maggior libertà e la più liberale di quante aveva avuto la Francia»; alla sua variopinta soldatesca «l’ammirazione del mondo e il più bell’esercito che la Francia abbia mai posseduto»; alle provincie che il bombardamento di Parigi non aveva mai avuto luogo: «se alcuni proiettili di cannone sono caduti, ciò non si deve all’esercito di Versaglia ma ad alcuni insorti che vogliono dare ad intendere di battersi, mentre non hanno il coraggio di mostrarsi in alcun luogo». E poi, ancora alla provincia: «L’artiglieria di Versailles non bombarda Parigi, ma La cannoneggia!». All’arcivescovo di Parigi dice che le fucilazioni e le rappresaglie (!) attribuite alle truppe di Versailles non sono che pure menzogne. Egli annuncia a Parigi di non avere che l’intenzione di «liberarla dagli ignobili tiranni che l’opprimono» e che la Parigi della Comune non era se non «un pugno di malfattori».
 
La Parigi di Thiers non era la vera Parigi della «canaglia», ma una Parigi fantasma, la Parigi dei «france-fileurs», la Parigi de’ Boulevards, maschile e femminile, la ricca, la capitalistica, la indorata, la molle Parigi che ora, con i suoi lacchè, i suoi cavalieri d’industria, la sua banda di bohèmiens letterati e le sue donnine allegre si pigia a Versailles, a Saint-Denis, Rueil e Saint-Germain; per la quale la guerra civile non era che un intermezzo giocondo; che osservava la battaglia con l’occhialetto, che contava i colpi di cannone e che giurava sul proprio onore e su quello delle sue cortigiane che lo spettacolo era allestito infinitamente meglio che non fosse mai stato al teatro della Porta Saint-Martin. I prigionieri erano morti davvero; le grida dei feriti non erano semplice apparenza. Del rimanente quale importanza storica mondiale non ebbe tutto questo movimento!
 
Questa è la Parigi del sig. Thiers, perfettamente come l’emigrazione di Coblenza è stata la Francia del signor di Calonne.
 
* IV
 
Il primo tentativo della congiura degli schiavisti per assoggettare Parigi, dopo di che i Prussiani l’avrebbero occupata, naufragò contro il rifiuto di Bismarck. Il secondo tentativo finì il 18 marzo con la sconfitta dell’esercito e con la fuga del Governo a Versailles, dove lo doveva raggiungere con tutto quanto il macchinario amministrativo. Col miraggio delle trattative di pace con Parigi, Thiers guadagnò il tempo di preparare la guerra contro Parigi.
 
Ma dove prendere un esercito? I rimasugli dei reggimenti di linea eran deboli per numero e malsicuri per affiatamento. I suoi urgenti appelli alle provincie per correre in aiuto di Versailles con le guardie nazionali e coi volontari s’infrangevano contro opposizioni recise. Soltanto la Bretagna spedì un manipolo di «chowans» che combattevano sotto la bandiera bianca, ognuno con un cuor di Gesù in bianca benda sul petto, e al grido di guerra: «Viva il re!». Thiers fu spinto, costretto a racimolare in tutta fretta una accozzaglia variopinta di marinai, soldati di mare, zuavi pontifici, gendarmi di Valentin, guardie di polizia (sergeants de ville) di Pietri, e spie (mouchards). Quest’esercito sarebbe però stato per sé insufficiente fino al ridicolo, senza i prigionieri di guerra che a mano a mano arrivavano, e che Bismarck liberava «a rate» sufficiente, però, da un lato, per tenere in scacco la guerra civile, e dall’altro Versailles in abietta dipendenza dalla Prussia. Nel proseguimento di questa stessa guerra la polizia di Versailles doveva tener d’occhio l’esercito di Versailles, mentre i gendarmi dovevano trascinare seco quest’esercito, esponendosi da per tutto ai posti più pericolosi. I forti che caddero, non furono presi, ma comperati. L’eroismo dei comunisti persuase Thiers che la resistenza di Parigi non era possibile spezzarla col suo genio strategico né con le baionette di cui disponeva.
 
Nel tempo stesso le sue relazioni con le provincie si facevano più difficili. Nemmeno un indirizzo di approvazione venne a consolare Thiers e i suoi junker agrari; tutto al contrario Affluivano da ogni parte deputazioni e indirizzi che esigevano in tono tutt’altro che rispettoso la riconciliazione con Parigi sulla base del riconoscimento esplicito della Repubblica, della riconferma delle libertà comunali e dello scioglimento dell’Assemblea nazionale, il cui mandato s’era estinto. Essi si fecero innanzi in tali masse, che Dufaure, ministro della giustizia dì Thiers, comandò ai procuratori di Stato, in una circolare del 23 aprile di considerare come un delitto «il grido di concilazione».
 
Pure in vista della disperata prospettiva che gli preparava la sua campagna, Thiers decise di cambiar la sua tattica e prescrisse per tutto il paese le elezioni comunali per il 30 aprile, sulla base del nuovo ordinamento comunale da lui dettato nell’Assemblea nazionale. Qui con gli intrighi dei suoi prefetti, là con la sfrontatezza della sua polizia, egli aspettava con tutta fiducia, grazie al verdetto delle provincie, di dare all’Assemblea nazionale il potere morale del quale agli aveva bisogno per dominare Parigi.
 
La sua guerra di brigantaggio contro Parigi, consacrata nei suoi stessi bollettini, e i tentativi dei suoi ministri di instaurare in tutta la Francia un nuovo governo del terrore, Thiers aveva ritenuto necessario fin del principio di doverli completare con una piccola commedia di concilazione, la quale doveva servire a più d’uno scopo. Questa doveva tenere a bada le provincie, adescare la classe media di Parigi e sopratutto offrire ai sedicenti repubblicani dell’Assemblea nazionale l’occasione di nascondere il loro tradimento contro Parigi dietro la loro fiducia in Thiers. Il 21 marzo, quando non aveva più un esercito, aveva dichiarato all’Assemblea: «Avvenga ciò che può, io non spedirò alcun esercito a Parigi». Il 27 marzo si risollevò ancora: «Io ho trovato la repubblica come un fatto compiuto e sono fermamente deciso a mantenerla in piedi». In realtà però egli represse la rivoluzione a Lione e a Marsiglia in nome della Repubblica, mentre gli junker, schiamazzando, urlavano: abbasso! al solo accenno del suo nome. Dopo quest’atto eroico, egli mitigò il fatto compiuto trasformandolo in un fatto pressuposto. I principi d’Orleans, che egli aveva prudentemente allontanati da Bordeaux, potevano intrigare liberamente a Dreux, con manifesta violazione della legge. Le confessioni fatte dal Thiers ne’ suoi innumerevoli convegni coi delegati di Parigi e delle provincie - benché anch’esse cambiassero continuamente di tono e di colore - in conclusione finivano sempre nel senso che la sua vendetta si sarebbe limitata per il momento a quel «manipolo di malfattori, complici dell’assassinio di Clement Thomas e di Lecomte» con la benintesa condizione che Parigi e la Francia avessero riconosciuto lo stesso Thiers senz’altro come la migliore delle repubbliche, proprio come l’uno e l’altra avevano fatto con Luigi Filippo.
 
E per fino le confessioni - non solo egli aveva cura di renderle equivoche con gli schiarimenti ufficiali che i suoi ministri davano all’Assemblea nazionale; no egli aveva anche il suo Dufaure per trattare. Dufaure, questo vecchio avvocato orleanista, era stato costantemente l’arbitro dello stato d’assedio, come ora, nel 1871, sotto Thiers, e nel 1839, sotto Luigi Filippo, e nel 1849, sotto la presidenza di Luigi Bonaparte. Quando poi non era ministro, si arricchiva, piatendo per i capitalisti parigini e facendosi un capitale politico col piatire contro la legge stessa promulgata da lui. Adesso, non contento di provocare una serie di leggi repressive per mezzo dell’Assemblea generale, le quali leggi dovevano dar l’ultima mano agli ultimi avanzi dì liberti repubblicana, dopo la caduta di Parigi, egli indicò in antecedenza il destino di Parigi, abbreviando la procedura dei Tribunali di guerra che a lui sembrava ancora troppo lunga, e introducendo una recente legge draconiana di deportazione. La rivoluzione del 1848, la quale abrogava la pena di morte per i rei politici, egli l’aveva supplita con la deportazione. Luigi Filippo non osò ripristinare il governo della ghigliottina, o almeno non osò apertamente. L’Assemblea degli junker, non ancora abbastanza audace per far passare i parigini non come ribelli, ma come assassini, dovette perciò limitare la vendetta tramata contro Parigi alla nuova legge sulla deportazione del Dufaure.
 
In tali condizioni, il Thiers non avrebbe potuto rappresentare, nemmeno per sogno, più a lungo la sua commedia della riconciliazione, se questa non avesse provocato il grido selvaggio dei junker - ciò che egli precisamente voleva; il cervello ristretto di questi ultimi non intendeva né la commedia, né la necessità della sua ipocrisia, della sua falsità, e della sua ostinazione.
 
In vista delle imminenti elezioni del 30 aprile, il Thiers, rappresentò, il 29 una delle sue grandi scene della riconciliazione. In un vero accesso di retorica sentimentale, esclamò, dalla tribuna dell’Assemblea nazionale: «L’unica congiura contro la repubblica, che vi possa essere, è quella di Parigi che ci costringe a versare del sangue. Ma io non mi stancherà di ripeterlo: fate cader di mano le armi inique a coloro che adesso le portano e la pena sarà immediatamente condonata per mezzo d’un atto di pace, che escluderà soltanto un piccolo numero di malfattori». Alle violente interruzioni degli junker, rispose: «Dite, signori, ditemelo ve ne prego: Ho torto? Vi addolora dunque realmente che io abbia potuto dire la verità, cioè che i malfattori non sono che una minoranza? Non è forse una fortuna fra tutte le nostre sventure, che la gente capace di versare il sangue di Clement Thomas e del generale Lècomte non rappresenti che una rara eccezione?»
 
Se non che, la Francia faceva orecchio da mercante ai discorsi di Thiers, il quale si lusingava di aver dato un saggio di dolcissimo canto parlamentare. Di tutti i 700.000 consiglieri eletti nei 35.000 Comuni ancora appartenenti alla Francia, i legittimisti, gli orleanisti e i bonapartisti non ne accozzarono 8000. Le elezioni suppletorie e di ballottaggio riuscirono loro più disastrose ancora L’Assemblea nazionale, invece di trovare nelle provincie la forza materiale così urgente, perdette anzi l’ultima ragione che ancora aveva per la sua forza morale: quella d’essere l’espressione del suffragio universale in Francia. E per coronare la disfatta, i neo-eletti consiglieri comunali di tutte le città francesi minacciarono l’Assemblea degli usurpatori di Versailles con una antiassemblea a Bordeaux.
 
E, con ciò, era scoccato il tanto atteso momento dell’intervento decisivo di Bismarck. In tono di Comando, egli aggiunse a Thiers di inviare a Francoforte senz’alcun indugio, dei plenipotenziari per la decisiva conclusione della pace. Devoto e ubbidiente al cenno del suo maestro e donno, Thiers si affrettò a mandar il suo fido Jules Favre, accompagnato da Pouyer-Quartier. Pouyer-Quartier, «eminente» filatore di cotone di Rouen, fautore ardente e insieme servile del secondo impero, non aveva trovato nulla di iniquo in questo, tranne il trattato di commercio con l’Inghilterra, che danneggia i suoi interessi di fabbricante. Appena installato a Bordeaux dal Thiers in qualità di ministro delle finanze. cominciò subito ad attaccare questo iniquo trattato, fece delle vaghe allusioni nel senso che esso sarebbe abrogato ed ebbe perfino l’impudenza, benché inutile (perché aveva fatto i conti senza Bismarck), di tentare l’immediato ripristinamento dei vecchi dazi contro l’Alsazia, dove, com’egli diceva, non esistevano trattati internazionali ancora in vigore.
 
Quest’uomo, che considerava la contro-rivoluzione come un mezzo di sopprimere la mercede degli operai a Ruen, e il distacco delle provincie francesi, come un mezzo di elevare il prezzo delle sue merci in Francia, non era egli forse già predestinato ad essere il degno collega di Jules Favre nel suo tradimento, che doveva coronare tutta l’opera sua?
 
Quando questa degna coppia di plenipotenziari giunse a Francoforte, Bismarck li mise subito a posto, col dilemma imperativo: o restaurazione dell’impero, o completa accettazione delle mie condizioni di pace. Queste condizioni comprendevano un’abbreviazione delle rate di pagamento dell’indennizzo di guerra, oltre l’occupazione permanente dei forti di Parigi con truppe prussiane, fino a che Bismarck si sarebbe dichiarato soddisfatto della situazione in Francia, in modo che la Prussia era diventata già il supremo arbitro degli affari interni della Francia! Per compenso, egli era disposto a lasciar liberi, i prigionieri bonapartisti per la devastazione di Parigi, ed a prestar loro il diretto appoggio delle truppe dell’imperatore Guglielmo. Egli garanti la sua lealtà nel senso che fece dipendere il pagamento della prima rata d’indennizzo dalla «pacificazione» di Parigi. Tale esca fu naturalmente ingoiata dal Thiers e dai suoi plenipotenziari con avidità. Essi sottoscrissero il trattato il 1° maggio e provvidero a ratificano nell’Assemblea, il 21.
 
Nel frattempo, fra la conclusione della pace e l’arrivo dei prigionieri bonapartisti, Thiers si sentì tanto più in dovere di ripigliare la sua commedia della conciliazione, in quanto che i suoi lacchè repubblicani erano in grande ansia, per trovare un pretesto di chiudere un occhio innanzi ai preparativi del bagno di sangue parigino. Fin dall’8 maggio egli rispondeva a una deputazione di cittadini partigiani della conciliazione: «Non appena gli insorti si decidono a capitolare, le porte di Parigi devono restare spalancate per un’intera settimana e per tutti tranne che per gli assassini dei generali Clement Thomas e Lecomte».
 
Alcuni giorni dopo, violentemente provocato dagli junker a dare spiegazioni circa questa promessa, egli rifiutò ogni schiarimento, ma vi aggiunse questo significante accenno: «Io vi dico che tra noi sono molti gli impazienti che hanno troppa fretta. Questi aspettino ancora otto giorni. Alla fine di questi otto giorni non vi sarà più pericolo alcuno, e il compito sarà corrispondente al vostro coraggio e alla vostra abilità». Appena Mac Mahon fu in condizione di promettere che presto sarebbe entrato a Parigi, Thiers dichiarò all’Assemblea nazionale che egli «avrebbe fatto il suo ingresso a Parigi con la legge in mano per esigere completa punizione dei miserabili che avevano sacrificato la vita dei soldati e distrutti pubblici monumenti». Approssimandosi il momento decisivo, disse all’Assemblea nazionale: «Sarò senza pietà»; quanto a Parigi, la sua sentenza era pronunciata; e quanto ai suoi banditi bonapartisti essi avevano facoltà di esercitare a loro piacere la loro vendetta contro la città. Finalmente, quando il 21 maggio, il tradimento aprì le porte di Parigi al generale Donai, Thiers svelò il 22 ai suoi junker agrari la mèta della sua commedia della conciliazione, che essi avevano così ostinatamente fraintesa. «Io vi ho detto alcuni giorni or sono che noi ci approssimavamo alla mèta: oggi vengo a dirvi che la meta è raggiunta. La vittoria dell’ordine, della giustizia e della civiltà finalmente ci ha arriso».
 
E tale era questa vittoria. La civiltà e la giustizia dell’ordinamento borghese si affacciano nella loro vera luce gravida di tempesta, non appena gli schiavi si ribellano, in quest’ordine di cose, contro i loro padroni. Questa civiltà e questa giustizia si presentano quindi come sfrenata barbarie e come vendetta senza legge. Ogni nuova crisi nella lotta di classe fra coloro che appropriano e coloro che producono la ricchezza, mette in più cruda luce questo fatto. Perfino gli eccessi orribili dei borghesi del giugno 1848 scompaiono di fronte alla innominabile abiezione del 1871. L’eroismo e l’abnegazione con cui il popolo parigino - uomini, donne e bambini - protrassero la lotta per otto giorni continui dopo l’entrata dei Versagliesi, riflette la grandezza dell’impresa tanto, quanto le prodezze diaboliche della soldatesca rispecchiano lo spirito innato di quella civiltà, della quale essi erano propugnatori e vindici. Una civiltà gloriosa veramente, la cui quistione vitale consiste nel modo come si possa sbarazzarsi di mucchi di cadaveri che essa ha accumulato dopo che la battaglia è finita.
 
Per trovare un riscontro alla condotta del Thiers e de’ suoi sanguinari accoliti, dobbiamo ritornare ai tempi di Silla e dei due triumviri romani. Lo stesso eccidio in massa, a sangue freddo; la stessa indifferenza nell’uccidere, dl fronte all’età e al sesso; lo stesso sistema di martirizzare i prigionieri; le stesse proscrizioni, ma questa volta contro una classe intera; !a stessa caccia selvaggia contro i capi nascosti, perché non ne sfugga nemmeno uno; la stessa delazione contro i nemici politici e personali; la stesa indifferenza nel sopprimere persone del tutto estranee alla lotta. Solo un divario: che i romani non possedevano ancora mitragliatrici per disfarsi in massa dei ribelli e non portavano «in mano la legge» né avevano sulle labbra la parola «civiltà».
 
E dopo questa prodezza, ecco ora l’altro lato ancora più ributtante di questa civiltà borghese, descritto dalla sua stessa stampa.
 
«Mentre», scrive il corrispondente parigino d’un giornale londinese del partito tory, «mentre echeggiano in lontananza ancora alcuni colpi, mentre dei feriti senza cure boccheggiano fra le pietre sepolcrali del Père Lachaise, e 6000 insorti, atterriti, vivono perduti nell’agonia della disperazione entro i meandri delle catacombe, e si vedono ancora degli infelici trascinati per le vie per essere trucidati in massa dalla mitraglia - desta impressione il vedere i caffè zeppi di bevitori d’assenzio e di giocatori di bigliardo e di domino; vedere come la sfrontatezza femminile si fa largo sui boulevards, e udire l’eco assordante dell’orgia, che dai gabinetti particolari dei restaurants turba la quiete notturna».
 
Il sig. Edoardo Hervé scrive nel .Journal de Paris; un giornale versagliese soppresso dalla Comune: «Il modo, con cui la popolazione (!) parigina ha espresso ieri la sua soddisfazione, è stato in realtà qualche cosa di più che frivolo; e noi temiamo che col tempo si andrà peggio ancora. Parigi ha adesso un aspetto di festa, che certamente è fuori di luogo: e, a meno che noi non vogliamo essere detti i «Parigini della decadenza», bisogna farla finita». E quindi cita il passo di Tacito: «E pure, all’indomani di quella lotta terribile, e per fino mentre essa ancora non era terminata a impigliarsi in quel fango di voluttà che aveva distrutto il suo corpo e macchiata la sua anima: alibi proelia et vulnera, alibi balnea propinaeque (qui battaglie e feriti; là bagni e taverne). - Il sig. Hervé dimentica soltanto che la»popolazione parigina della quale egli parla, non è popolazione della Parigi del Thiers, i francs filéurs che ritornano a schiere da Versailles, Saint-Denis, Rueil, e Saint-Germain; la vera «Parigi della decadenza».
 
In ogni suo trionfo sanguinoso sui precursori che si sacrificano per una nuova e migliore società questa ignominiosa civiltà basata sull’asservimento del lavoro soffoca il grido delle sue vittime con un grido sedizioso di calunnia che poi echeggia nel mondo. La serena Parigi lavoratrice della Comune si cambia improvvisamente, fra le mani dei sanguinari «dell’ordine», in un pandemonio. E che cosa prova questo enorme capovolgimento di cose al cervello borghese di tutti i paesi? Nient’altro, se non che la Comune ha cospirato contro la civiltà. Il popolo di Parigi si sacrifica con entusiasmo per la Comune: il numero dei suoi morti non è stato raggiunto da veruna battaglia anteriore. E che prova tutto ciò? Nient’altro, se non che la Comune era non già il governo proprio del popolo, bensì il potere d’un pugno di malfattori. Le donne di Parigi offrono volentieri la loro vita, così sulle barricate, come al cospetto dei giudici. Che cosa prova ciò? Nient’altro se non che il demone della Comune le ha cambiate in meggere ed in Ecati. La moderazione della Comune, durante un governo incontrastato di due mesi, non trova un riscontro che nell’eroismo della sua difesa. Che cosa prova ciò? Nient’altro, se non che la Comune, per ben due mesi, sotto la maschera della moderazione e dell’umanità; ha nascosta la sete di sangue delle sue diaboliche concupiscenze per poi gettarla lungi da sé nell’ora della sua agonia.
 
La Parigi degli operai ha travolto nelle fiamme, nell’atto del suo eroico sacrificio, edifici e monumenti. Quando i padroni del proletariato lacerano a brani la sua carne viva, non possono contare più a lungo di ritornare trionfalmente fra le mura intatte delle loro abitazioni. Il governo di Versailles grida: «Incendiari» e sussurra la parola d’ordine a tutta la sua gente fino al più remoto villaggio, perché da per tutto si dia la caccia agli avversari sospetti di incendi dolosi. La borghesia di tutto il mondo assiste di buon animo al macello d’uomini dopo la battaglia, ma rabbrividisce allo spettacolo della profanazione delle tettoie?
 
Se i governi danno patente d’immunità alle loro flotte da guerra, le quali possono «uccidere, bruciare e distruggere», non è questa una patente di libertà per incendiare? Quando le truppe inglesi diedero deliberatamente il fuoco al Campidoglio di Washington e al palazzo d’estate dell’imperatore cinese, non fu atto d’incendiari questo? Quando Thiers bombardò Parigi per sei settimane col pretesto di voler bruciare soltanto le case in cui dimorava della gente, non fu egli un incendiario? Nella guerra, il fuoco è un’arma perfettamente regolare. Gli edifici occupati dal nemico si bombardano per bruciarli. Se i difensori li abbandonano, il nemico stesso appicca loro il fuoco, perché gli assalitori non possano poi fortificarvisi. L’essere distrutti, è sempre stato il destino inevitabile di tutti gli edifici alla portata del nemico, di tutti gli eserciti regolari del mondo. Ma nella guerra dei servi contro i loro oppressori, la unica guerra giusta della storia, tutto questo non ha più valore. La Comune ha fatto uso del fuoco come d’un mezzo di difesa, nel più stretto senso della parola. Se ne valse, per chiudere alle truppe di Versailles quelle lunghe e diritte vie, che Haussmann aveva appunto deliberatamente lasciate aperte al fuoco dell’artiglieria; se ne valse per coprire la sua ritirata, appunto allora che i Versagliesi nell’avanzare fecero uso delle loro granate, le quali hanno distrutto per lo meno altrettante case quante la Comune. Ancora oggi è discutibile quali edifici siano stati distrutti dal fuoco dei difensori e quali dagli assalitori. Ed i difensori ricorsero al fuoco solo quando le truppe di Versailles incominciarono a macellare in massa i prigionieri.
 
Inoltre, la Comune aveva pubblicamente annunciato, ben prima d’allora, che, se fosse stata spinta agli estremi, si sarebbe fatta seppellire sotto le macerie di Parigi e avrebbe fatto di Parigi una seconda Mosca, come il governo della difesa, soltanto, allo scopo di nascondere il suo tradimento aveva del pari promesso. Per questo appunto, Trochu aveva procurato il patroglio necessario. La Comune sapeva che ai suoi avversari non stava tanto a cuore la vita del popolo di Parigi quanto piuttosto gli edifici di Parigi.
 
E il Thiers, dal canto suo, aveva dichiarato ch’egli sarebbe stato inesorabile nella vendetta. Non appena egli ebbe pronto il suo esercito, da una parte e dall’altra i prussiani ebbero chiusa la via d’uscita, egli gridò: «Io sarò senza pietà! La pena sarà completa, la giustizia severa». Se gli atti compiuti dagli operai di Parigi furono un vandalismo, fu il vandalismo della difesa disperata, non il vandalismo del trionfo, come quello di cui si resero colpevoli i Cristiani di fronte ai monumenti d’arte veramente inapprezzabili dell’antichità pagana; e perfino questo vandalismo è giustificato da alcuni storici, come un momento incontrastabile e relativamente anche insignificante nella lotta titanica fra una società nuova e irrompente e una civiltà antica, volgente al tramonto. Meno ancora fu giustificato il vandalismo di Haussmann, che spazzò la Parigi storica, per dar posto alla Parigi di chi va a spasso.
 
Ma l’eccidio di sessantaquattro ostaggi, fra i quali l’arcivescovo di Parigi, per opera della Comune! - La borghesia e il suo esercito avevano introdotto nel giugno 1848, una consuetudine da molto tempo abbandonata da ogni condotta di guerra, l’uccisione degli ostaggi inermi. Quest’uso brutale è stato d’allora in poi rimesso in vigore più o meno in ogni repressione di sommosse popolari in Europa e nelle Indie; con la qual cosa si volle provare che si trattava di un vero «progresso della civiltà». D’altro canto, i Prussiani avevano richiamato in onore in Francia l’uso di prendere per ostaggi degli innocenti, che con la propria vita, offrivano loro una garanzia, rispetto alla condotta dì altri. Quando Thiers, come abbiamo veduto, ebbe rimesso in vigore, fin dal principio della lotta, la umanitaria consuetudine di fucilare i prigionieri Comunisti, per difendere la vita di questi prigionieri, alla Comune non rimaneva che rifugiarsi nella consuetudine prussiana di far degli ostaggi. La vita degli ostaggi però era compromessa più che mai dall’incessante massacro dei prigionieri da parte dei Versagliesi. Come si poteva risparmiarli ancor più a lungo dopo il bagno di sangue col quale i pretoriani di Mac Mahon celebrarono il loro ingresso a Parigi? Anche l’ultimo contrappeso alla barbarie insolente dei governi borghesi - la pena degli ostaggi - doveva diventare una semplice burla? Il vero assassino del vescovo Darboy è Thiers. La Comune aveva a più riprese offerto di permutare l’arcivescovo e un intero gruppo di sacerdoti in cambio di Blanqui, l’unico ostaggio di Thiers. Thiers si rifiutò sempre caparbiamente. Egli sapeva che con Blanqui avrebbe dato alla Comune una testa, mentre l’arcivescovo avrebbe servito meglio ai suoi scopi - come cadavere. Thiers in questo imitò Cavaignac. Qual grido di orrore non fecero intendere nel giugno 1848 Cavaignac e i suoi uomini d’ordine, quando essi fecero passare gli insorti per assassini dell’arcivescovo Affrè! Eppure, essi sapevano con tutta precisione che l’arcivescovo era stato trucidato dai soldati dell’ordine. Jaquemel, il general vicario dell’arcivescovo, gli aveva fornito, immediatamente dopo il fatto, la sua attestazione in questo senso.
 
Tutto questo coro completo di calunnie, che il partito dell’ordine non mancò mai di intuonare contro le sue vittime nei suoi festini di sangue, prova solamente che il borghese odierno si considera come il successore legittimo dell’antico feudatario, il quale riteneva per buona ogni arma in mano contro il plebeo, mentre ogni arma di qualsiasi specie in mano del plebeo costituiva in precedenza un delitto.
 
La congiura della classe dominante per abbattere la rivoluzione per mezzo d’una guerra civile condotta sotto l’usbergo del conquistatore straniero - congiura, le cui tracce noi abbiamo seguito dal settembre fino all’ingresso dei pretoriani di Mac Mahon per la porta di Saint-Cloud - raggiunse il suo vertice nel bagno di sangue di Parigi. Bismarck guarda con aria di compiacimento sopra le rovine di Parigi, nelle quali probabilmente vedeva la prima rata di quella distruzione generale delle grandi città che egli aveva invocato quando era ancora un semplice rurale nella Chambre introuvable prussiana del 1848. Egli guarda soddisfatto sui cadaveri del proletariato parigino. Per lui, questo non è solo l’estirpazione dell’albero della rivoluzione, ma nel tempo stesso l’esterminio della Francia, che adesso è in realtà decapitata, in grazia del governo francese per giunta. Con la superficialità degli uomini di Stato fortunati, egli non vede che l’apparenza esteriore di questo grandioso avvenimento storico. Quando mai la storia aveva prima d’ora offerto lo spettacolo d’un trionfatore che incorona la sua vittoria a punto da rendersi non solo il gendarme, ma anche il prezzolato bravo del governo vinto? Fra la Prussia e la Comune di Parigi non c’era guerra. AI contrario, la Comune aveva accettato i preliminari di pace e la Prussia aveva dichiarata la sua neutralità. Essa si comportava come un bravo; come un bravaccio vile perché sopra di sé non s’addossava pericolo alcuno; come un bravo prezzolato, perché faceva dipendere in precedenza il pagamento del suo indennizzo di 500 milioni dalla caduta di Parigi. E così venne finalmente in chiaro il vero carattere di quella guerra, che la provvidenza aveva stabilita per punire la Francia empia e licenziosa per mezzo della pia e costumata Germania. E questa inaudita rottura del diritto delle genti, anche se inteso secondo i giuristi del tempo antico, invece di eccitare i governi «civili» d’Europa a dichiarare bandita dal novero delle genti della Prussia iniqua, vile strumento del gabinetto di Pietroburgo - li spinge soltanto a ponderare se non fosse il caso di consegnare al boia di Versailles anche le poche vittime sfuggite alla doppia catena degli avamposti intorno a Parigi.
 
Il fatto che dopo la più violenta guerra del tempo moderno, l’esercito vinto si unì al vincitore per abbattere d’accordo il proletariato - questo inaudito avvenimento non prova, come Bismarck crede, la repressione finale della nuova società borghese. Il supermo slancio d’eroismo del quale la vecchia società fosse ancora capace, era la guerra nazionale; la quale ora si rivela come un raggiro di governi e niente più; che non ha altro scopo se non quello di provocare la lotta di classe e che si mette in agguato non appena la lotta di classe si divampa in guerra civile. Il predominio di classe non è più in condizioni di nascondersi sotto una uniforme nazionale; i governi nazionali sono tutti confederati contro il proletariato!
 
Dopo le Pentecoste del 1871, non vi può essere più né pace né tregua fra i lavoratori della Francia e coloro che si sono appropriati il prodotto del loro lavoro. Ma la mano di ferro di una soldatesca prezzolata, può opprimere per un certo tempo, in un comune asservimento, e l’una e l’altra classe. La lotta o presto o tardi deve scoppiare e dilagare più e più; né v’è alcun dubbio chi sarà alla fine il vincitore; se i pochi usurpatori o la immensa maggioranza di chi lavora. E i lavoratori francesi non costituiscono che l’avanguardia di tutto il proletariato moderno.
 
Mentre Così, davanti a Parigi, i governi d’Europa affermano col fatto il carattere internazionale del dominio di classe, essi stessi gridano ferro e fuoco contro l’associazione internazionale operaia - la contro organizzazione internazionale del lavoro di fronte alla mondiale cospirazione borghese del capitale - fonte per loro di ogni guaio Thiers l‘accusò di essere il desposta del lavoro, mentre si atteggiava ad esserne l’emancipatrice. Picard Comandò di rompere tutte le comunicazioni dell’internazionale francese con le internazionali estere; il conte Jaubert, il vecchio, il cartapecorito complice di Thiers nel 1835, dichiarò essere il principale compito di tutti i governi, lo sradicarla. Gli junker dell’Assemblea nazionale urlano contro, e tutta la stampa europea si associa al coro. Un egregio pubblicista francese, affatto estraneo alla nostra associazione, si esprime così:
 
«I membri del Comitato centrale della guardia nazionale, come pure la maggioranza dei membri della Comune, son le teste più attive, più perspicaci e più energiche dell’Associazione internazionale operaia … gente affatto in buona fede, sincera, intelligente, piena di abnegazione, illibata e fanatica nel senso buono della parola.»
 
Il poliziesco cervello borghese ci rappresenta naturalmente l’Associazione internazionale dei lavoratori come una specie di cospirazione segreta, le cui autorità centrali comandano di quando in quando delle rivolte in vari paesi. La nostra Associazione non è, in realtà, che il fascio internazionale che riunisce i più progrediti operai dei diversi paesi del mondo civile. Sempre, in qualsiasi forma, e sotto quali si siano condizioni, la lotta di classe piglia una qualche consistenza, è naturale che lì, i membri della nostra Associazione, stiano agli avamposti. Il terreno nel quale essa prospera è la stessa società moderna. Essa non può essere abbattuta con lo spargimento d’altrettanto sangue. Per venire rintuzzata i governi dovrebbero anzitutto schiacciare la violenza del capitale su lavoro - ossia la ragione stessa della loro vita parassitaria.
 
La Parigi dei lavoratori con la sua Comune, sarà sempre magnificata come il glorioso araldo di una nuova società. I suoi martiri hanno un posto nel grande cuore della classe lavoratrice. I suoi oppressori, li ha già inchiodati alla gogna alla storia; e per istrapparveli, tutte le preghiere dei loro preti sono vane.
 
Il Consiglio generale:
 
M. T. Boon, Federico Bradnik, G. H. Buttery, Caihill, Guglielmo Hales, Kolb, Federico Lessner, G. Milner, Tommaso Motterhead, Carlo Murray, Plander, Roach, Rühl, Sadler, Cowel Steyney, AIf. Taylor, W. Townshend.
 
Segretari corrispondenti:
 
Eugène Dupont, per la Francia; Karl Marx, per la Germania e l’Olanda; Friedrich Engels, per il Belgio e la Spagna; Hermann Jung, per la Svizzera; P. Giovacchini, per l’Italia; Zèvy Moritz, per l’Ungheria; Anton Zazicki, per la Polonia; J. Choen, per la Danimarca; J. G. Eccarius, per gli Stati Uniti.
 
Hermann Jung, presidente; John Weston, tesoriere, Georg Harris, segretario d’amministrazione; John Hales, segretario generale.
 
256, High Holborn, Londra W. C., 30 maggio 1871.
 

Appendice
 
* I.
 
«La colonna dei prigionieri fece alt nell’Avenue Uhrich e fu messa sull’attenti in quattro o cinque plotoni, con la fronte verso la strada. Il generale marchese de Gallifet e il suo stato maggiore scesero da cavallo e ispezionarono la linea incominciando dall’ala sinistra. Il generale si avanzava lentamente, ispezionando le file; qua e là si fermava, per toccare qualcheduno sulla spalla, o per contrassegnarlo con un cenno fatto alle sue spalle. Costoro che erano indicati in questo modo, erano fatti schierare nel bel mezzo della strada, dove formavano una piccola colonna speciale, i più senza alcun altro procedimento.
 
«Era evidente che ciò dava luogo a più d’un errore. Un ufficiale a cavallo richiamò l’attenzione del generale su d’un uomo e su d’una donna, colpevoli di qualche mancanza. La donna, precipitandosi fuori delle file, cadde in ginocchio e proclamò energicamente, con le braccia protese, la sua innocenza. Il generale sostò, per un momento, e quindi, con una faccia perfettamente composta e con un aspetto impassibile, disse: «Madama, io sono stato in tutti i teatri di Parigi: non vale la pena di recitar commedie (il ne vaut pas le peine de jouer la comèdie)» ... Quel giorno, non giovava a nessuno l’essere palesemente più grande, più sporco, più pulito, più attempato, più brutto dei propri compagni.
 
«Mi colpì fra gli altri specialmente un uomo, il quale dovette la sua pronta liberazione da questa valle di lacrime unicamente al suo naso. Parecchie centinaia furono scelte così: un drappello di soldati fu comandato per la fucilazione, il rimanente della colonna marciò in avanti, mentre quei primi rimasero sul posto. Alcuni minuti dopo, cominciò alle nostre spalle il fuoco. Tale fu l’esecuzione di questi infelici condannati in via sommaria. - Corrispondente parigino del Daily News deIl’8 giugno. - Questo Gallifet, il Louis di sua moglie, così famigerata per la spudorata esposizione del suo corpo nudo durante le gozzoviglie del Secondo impero, era noto, durante la guerra, col nomignolo di Alfiere Pistol.
 
«Il Temps, giornale serio e per nulla amico delle sparate sensazionali, narra una raccapricciante storia di gente semiviva, sepolta ancor prima della morte Un gran numero fu sepolto sul posto, presso St. Jacques-la-Bouchière, alcuni coperti appena di un po’ di terra. Durante la giornata, il rumore della via soffocava tutto, ma nel silenzio della notte gli abitanti delle case vicine furono risvegliati da un gemito continuo, e al mattino fu visto proteso fuori del terreno un pugno chiuso. In seguito a ciò fu ordinato un secondo seppellimento dei cadaveri ...
 
Che molti feriti siano stati sepolti ancor vivi non posso dubitare affatto. Per un caso, posso testimoniare io stesso. Quando Brunel fu fucilato insieme alla sua amante, il 24 maggio, nel cortile d’una casa di piazza Vendome, tutt’e due furono lasciati sul terreno fino al pomeriggio del 27. Quando finalmente sopraggiunsero per rimuovere i cadaveri, si trovò che la donna era ancor viva e così fu trasportata all’ambulanza. Benché colpita da quattro proiettili, ora ella è fuori pericolo. - Corrispondente parigino dell’Evening Standard dell’8 giugno.
 
* II
 
La lettera seguente comparve nel Times di Londra del 16 giugno:
«Al redattore del Times. - Signore! il 6 giugno 1871, il signor Jules Favre diramava a tutte le potenze europee una circolare, nella quale le eccitava a dare una caccia mortale all’Associazione internazionale dei lavoratori. Alcune osservazioni saranno bastanti per qualificare quest’attentato.
 
«Già nella introduzione dei nostri statuti è dichiarato che la Internazionale fu fondata il 28 settembre 1864, in una riunione pubblica a St. Martin’s Hall, Lon Acre, Londra. Per ragioni a lui meglio note, il signor Jules Favre le assegna invece come anno di origine il 1862.
 
«Per illustrare i nostri principi egli finge di riportare lo stampato del 25 marzo 1869 (dell’Internazionale). E che riproduce invece? Lo stampato d’una società, che non è l’Internazionale. Simil fatta di manovre egli le praticava già quando, avvocato novellino anzi che no, difese il National, giornale parigino, contro la querela per calunnia del Cabet. Allora egli finse di leggere dei brani di alcuni fogli volanti de Cabet, mentre non lesse in realtà che dei brani interpolati da lui stesso. Questo procedere da borsaiuolo fu però smascherato in pieno tribunale e, se il Cabet non fosse stato così trascurato, egli sarebbe stato punito con l’espulsione dal grembo degli avvocati parigini. Di tutti i documenti che egli riportò come documenti dell’Internazionale, nemmen uno ha da vedere con l’Internazionale. Cosi, egli dice: «La Lega si professa atea - dichiara il Consiglio generale, costituito a Londra nel luglio 1869». Il Consiglio generale non ha mai emesso questo documento. Al contrario, ha pubblicato un documento, quello che annullava gli Statuti originali dell’Alleanza - l’Alliance de la Démocratie Socialiste a Ginevra - che Jules Favre cita.
 
«In tutta la sua circolare, la quale in parte ha l’aria di essere diretta anche contro l’Impero, Jules Favre ripete contro l’Internazionale soltanto le fiabe poliziesche degli avvocati dell’Impero, che, perfino davanti ai tribunali dell’Impero stesso, si risolvevano nella loro miserabile vacuità.
 
«E’ noto che il Consiglio generale dell’Internazionale attaccò in tutti e due i suoi indirizzi (del giugno e del settembre 1870) intorno alla guerra del tempo, i disegni di conquista della Prussia contro la Francia. Più tardi, il signor Reitlinger, segretario particolare di Jules Favre, si rivolse, naturalmente indarno, ad alcuni membri del Consiglio generale perché il Consiglio generale redigesse un manifesto antibismarchiano a favore del governo della difesa nazionale; e fu rivolta speciale preghiera, perché la repubblica non vi fosse nemmeno nominata. I preparativi per una manifestazione, in occasione dell’atteso arrivo di Jules Favre a Londra, furono iniziati - certo nella massima buona fede - contro il volere del Consiglio generale, il quale nel suo indirizzo del 9 settembre aveva espressamente messo in guardia gli operai parigini, già in precedenza contro Jules Favre e i suoi colleghi.
 
«Che cosa direbbe Jules Favre, se dal canto suo il Consiglio generale dell’Internazionale indirizzasse una circolare intorno a Jules Favre a tutti i gabinetti europei, per richiamare la loro attenzione speciale sui documenti pubblicati a Parigi dal defunto signor Milière?
 
«Sono, egregio signore, il suo devoto servitore
 
JOHN HALES
 
Segretario del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori.
 
256, High Holborn, W. E. Londra, 12 giugno 1871
 
In un articolo intorno a «L’Associazione internazionale a i suoi scopi», lo Spectator di Londra, onesto delatore, cita, fra altre gherminelle di simil fatta, e ancor più completamente che non abbia fatto Jules Favre, il documento sopra menzionato della «Alliance» come opera dell’Internazionale; e ciò, undici giorni dopo la pubblicazione della antecedente confutazione nel Times. Questo non può farci meraviglia. Già Federico il Grande era solito dire che, di tutti i Gesuiti, i protestanti sono i peggiori.
 
 


[1]In Inghilterra, ai malfattori comuni, dopo l’espiazione della maggior parte della condanna, si rilasciano dei ‘biglietti di licenza, coi quali sono rilasciati in libertà, ma rimessi sotto la sorveglianza della polizia. Questi biglietti si dicono tickets-of-leave e i loro detentori tickets-of-leave men.

 


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