www.resistenze.org - materiali resistenti in linea - iper-classici - 23-07-08 - n. 237

da Secchia (1973), Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 73-75
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare



Secchia

 

Ritorno alla libertà e alla lotta

Arrivammo a Roma nella notte sul 19 agosto. Longo, Scoccimarro ed io, dopo aver atteso, passeggiando senza meta, che si facesse giorno, ci recammo alla sede dei sindacati. Non c'era ancora nessuno. Esplorammo un po' l'ambiente, dando uno sguardo ai giornali ed ai libri che si trovavano sparsi qua e là, tanto per passare il tempo. Mi misi ad una scrivania e cominciai a riordinare gli indirizzi portati da Ventotene. Poi arrivò Baldazzi (1). Ci abbracciammo; mezz'ora dopo ecco Roveda e Buozzi, altri abbracci ed affrettati scambi di informazione. Poi venne Giorgio Amendola col suo esuberante ottimismo ed in piena attività. Non ricordo se lui o qualche altro ci portò in casa di Antonio Giolitti (2). Nel pomeriggio ci trovammo in un'altra abitazione con Amendola, Alicata e qualche altro. Breve riunione, durante la quale fummo informati degli ultimi avvenimenti. A sera Longo, Scoccimarro ed io partimmo ognuno per le nostre case, l'intesa era di rimanerci non più di una settimana e di ritrovarci a Roma al più presto. La situazione era tutt'altro che tranquilla, non era difficile prevedere che gli avvenimenti stavano precipitando.
Erano appena trascorse ventiquattro ore dal mio arrivo a Biella, che un compagno venne a prelevarmi; i compagni dirigenti
del "centro" - mi disse - desideravano che mi recassi subito a Milano. Presi il primo treno. A Milano, negli uffici clandestini del centro interno (la casa di Giovanni e Jole Morini in Via Lulli, 30) incontrai Umberto Massola,  Celeste Negarville, Agostino Novella, Antonio Roasio, che insieme a Giorgio Amendola ed a Giovanni Roveda costituivano il centro interno del PCI. Il centro estero praticamente non esisteva più, ad uno ad uno i suoi componenti erano rientrati in Italia. Togliatti, Grieco, Cerreti, D'Onofrio, Vincenzo Bianco ed altri compagni si trovavano a Mosca.

Mi fecero un rapido riassuntivo della situazione, di quanto
era stato fatto immediatamente prima e dopo il 25 luglio, dei compiti che il partito si proponeva, del modo come pensavano di ricomporre il gruppo di direzione dopo il nostro arrivo dal confino.
Il lavoro di riorganizzazione procedeva intensamente, ma sino a quel momento le difficoltà erano state molte per insufficienza di mezzi e di quadri.

Il 25 luglio nel paese

Occorre dire che il 25 luglio aveva colto i partiti antifascisti di sorpresa: tutti lo attendevano, ma non si sapeva né come né quando sarebbe avvenuto, e nessuno era preparato ad un crollo così clamoroso (quasi un castello di carta che si sfascia) del partito e del regime fascista.
Il PCI era senza dubbio il meglio organizzato, il più unito dal punto di vista ideologico e politico, disponeva di una rete organizzativa che, con tutti i suoi limiti, si estendeva su larga scala del territorio nazionale, ma partecipava anch'esso delle debolezze di tutto il movimento antifascista. Documenti e testimonianze concordano nel calcolare il numero dei suoi aderenti collegati con il centro interno intorno ai cinque-sei mila. E' vero che nel calcolo non figuravano migliaia di comunisti più o meno organizzati in gruppi e gruppetti nelle diverse località del paese, non collegati con il centro interno.

Le masse popolari non sufficientemente organizzate e indirizzate non avevano avuto la forza di reagire come sarebbe stato necessario per diventare immediatamente le protagoniste. Il che segnerà sin dall'inizio i limiti della Resistenza italiana.
Il primo limite lo incontriamo nel fatto stesso che il 25 luglio non fu il risultato di un grande moto popolare, di un'insurrezione di lavoratori, anche se vi erano stati gli scioperi del marzo 1943 i quali avevano senza dubbio pesato sullo sviluppo degli avvenimenti. Tuttavia il 25 luglio fu il risultato immediato di una congiura di palazzo, architettata con molte esitazioni ed indecisioni dai gruppi monopolisti per tentare, sganciandosi dal fascismo, di salvare il salvabile; fu il tentativo della monarchia, buttando a mare Mussolini e gli alti gerarchi, di salvare se stessa creando un governo conservatore, burocratico-militare, che tenesse a freno il più possibile le masse popolari.

Che nessuno agisse, che nessuno si muovesse. Che nessuno facesse nulla. Il re, Badoglio, i ministri avrebbero pensato a tutto. Era chiaro che si voleva impedire che le masse scendessero in lotta.

Non si voleva la democrazia - scriverà un anno dopo Togliatti - si voleva conservare in vita il massimo di fascismo: questa era la sostanza. E la nazione ha pagato molto caro l'errore fatale di quel periodo malaugurato (3).
Dappertutto, o quanto meno nei centri principali del paese, nella notte del 25 e durante la giornata del 26 vi erano state manifestazioni di giubilo, cortei, comizi, busti di Mussolini e insegne fasciste buttati per aria, invasioni di sedi dei fasci, qualche pedata o pestaggio ai più noti aguzzini, di basso rango, che si fecero trovare in giro. Ma nulla di più o quasi. Il 26 era stata una giornata di festa e di sciopero.
I partiti antifascisti e le masse popolari non avevano la forza per raggiungere subito obiettivi più avanzati e tanto meno per imporre un governo antifascista, la rottura dell'alleanza con la Germania e la fine immediata della guerra.
Per contro, le prime disposizioni impartite il 26 luglio dal governo Badoglio non riguardavano le misure da adottare contro eventuali tentativi di riscossa dei fascisti, né tanto meno erano dirette a fronteggiare l'aggressione tedesca già in atto, ma concernevano la repressione delle manifestazioni popolari antifasciste che si svolgevano in ogni parte d'Italia.
Non è il momento di abbandonarsi a manifestazioni che non saranno tol
lerate - ammoniva un nuovo proclama di Badoglio - sono vietati gli assembramenti e la forza pubblica ha l'ordine di disperderli inesorabilmente (4).

Era l'annuncio dello stato d'assedio. Seguiva poi la famosa circolare a tutti i comandi militari, largamente nota come circolare Roatta; ci limitiamo a riprodurne un brano assai eloquente:
1) nella situazione attuale, col nemico che preme, qualunque perturbamento dell'ordine pubblico anche minimo, et di qualsiasi tinta, costituisce tradimento et può condurre, ove non represso, a conseguenze gravissime; qualunque pietà et qualunque riguardo nella repressione sarebbe pertanto delitto;
2) poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito. Perciò ogni movimento dev'essere inesorabilmente stroncato in origine;
3) siano assolutamente abbandonati i sistemi antidiluviani, quali i cordoni, gli squilli, le intimazioni e la persuasione et non sia tollerato che i civili sostino presso le truppe intorno ad armi in postazione;
4) i reparti devono assumere e mantenere grinta dura et atteggiamento estremamente risoluto. Quando impiegati in servizio di ordine pubblico, in sosta aut in movimento, abbiano il fucile at pronti et non at bracciarm;
5) muovendo contro gruppi di individui che perturbino ordine aut non si attengano prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo procedimento venga usato da reparti in posizione contro gruppi di individui avanzanti;
6) non è ammesso tiro in aria; si tira sempre a colpire in combattimento;
7) massimo rigore nel controllo et attuazione di tutte le misure stabilite da noto manifesto. Apertura immediata del fuoco contro automezzi che non si fermino alla intimazione;
8) i caporioni e istigatori dei disordini, riconosciuti come tali, siano senz'altro fucilati se presi sul fatto, altrimenti siano giudicati immediatamente dal Tribunale di guerra sedente in veste di Tribunale straordinario;
9) chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza e ribellione contro le forze armate e di polizia aut insulti le stesse e le istituzioni venga passato immediatamente per le armi (5).
[….]

Note

1) Vincenzo Baldazzi, militante anti-fascista, già dirigente degli "Arditi del Popolo", per lunghi anni confinato, organizzatore della resistenza romana e delle formazioni di "Giustizia e Libertà".
2) Qui ci diedero dei vestiti presentabili, Longo ed io portavamo ancora quelli laceri e stinti del confine, i legacci delle nostre scarpe erano di rozzo spago. Non che con quelli regalatici fossimo proprio eleganti. Longo sfoggiava un estivo color caffelatte che lo faceva rassomigliare ad un frate. E' vero che l'abito non fa il monaco; a me era toccato un estivo color pepe e sale, oggi si dice: sottobosco.
3)
Palmiro Togliatti, Ritornare al 25 luglio?, in Unità, ed. di Roma, 12 novembre 1944.
4)
Manifesto del generale Badoglio agli italiani, in Gianfranco Bianchi, 25 luglio, Milano, Mursia, 1963, p. 737.
5) L'Italia dei quarantacinque giorni, 1943; 25 luglio-8 settembre, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, 1969, p. 11 (Quaderni de 'Il movimento di liberazione in Italia).