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da Pietro Secchia, Le armi del fascismo 1921-1971, Feltrinelli, 1973
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Pietro Secchia
Le armi del fascismo 1921-1971 - indice
 
Nascita del fascismo
 
Quando nacque il fascismo? I "fasci di combattimento" furono fondati a Milano il 23 marzo 1919 per iniziativa di Benito Mussolini, già espulso dal partito socialista nell'ottobre 1914 per la sua campagna a favore dell'intervento in guerra. In realtà la data di nascita del fascismo deve appunto essere fatta risalire all'epoca dell'agitazione condotta da Mussolini, D'Annunzio e altri a favore dell'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale del 1914-18.
 
Lo scoppio della prima guerra mondiale non colse l'Italia di sorpresa, bensì impreparati al terribile avvenimento tanto le classi dirigenti borghesi quanto il movimento proletario e socialista. La settimana rossa, seguita alla manifestazione antimilitarista e all'eccidio di Ancona del 7 giugno 1914, acquistò per la sua violenza e lo slancio offensivo delle masse un significato che andava ben al di là dell'incontrollata "rivolta". Lo sciopero generale, stroncato al secondo giorno dai dirigenti riformisti della Confederazione generale del lavoro, era divampato nelle grandi città e in alcune regioni, con numerosi scontri tra i lavoratori e la forza pubblica, rivelando una possente carica di combattività e di avversione alle avventure militariste. Non fu soltanto la protesta per le condizioni di disagio e di miseria aggravate dalla situazione economica, ma l'esplosione a lungo repressa della ribellione alla guerra libica che, presentata come una facile passeggiata, s'era rivelata un'impresa rovinosa per il sangue versato e l'economia della nazione.
 
Gli stessi riformisti riconoscevano che senza dubbio era stato "il più grande sciopero generale di quanti ne fossero mai stati fatti nel nostro paese." E Antonio Gramsci scriverà più tardi: "Nel giugno 1914 il popolo italiano fece un'insurrezione armata contro il governo per avere constatato l'impotenza del parlamento."
 
Ma i in alto e in basso, erano lontani dal prevedere l'imminenza della tremenda tempesta sull'Europa. I colpi di rivoltella di Serajevo del 28 giugno riecheggiavano sinistramente nel momento stesso in cui gli elettori torinesi chiudevano le urne di un'appassionata campagna elettorale che aveva visto vincere, per pochi voti e con un broglio sfacciato, il nazionalista Bevione, sostenuto, contro i socialisti, dai liberali, dalla grande industria e da "La Stampa," già allora organo della FIAT.
 
Il governo Salandra, d'accordo col re, alla fine di luglio decise la neutralità dell'Italia. Il parlamento, che già aveva cessato di contare qualcosa, non fu neppure chiamato a ratificare la decisione. Come ai tempi della guerra libica, era in vacanza e nessuno pensò di disturbare le ferie dei parlamentari che si trovavano ai bagni, al mare, sui monti. Forse, quello italiano fu il solo parlamento rimasto in vacanza mentre l'Europa era in fiamme. Il governo, col già allora comodo sistema del decreto legge (come recentemente è avvenuto per il "decretone"), si conferì i pieni poteri. La mancata ratifica parlamentare lasciava padrone il governo e favoriva il rapido passaggio dalla posizione di neutralità alla guerra. Salandra lo confessò candidamente scrivendo: "L'ostruzionismo parlamentare (era in corso su provvedimenti fiscali adottati dal governo) cessò il 2 luglio mediante un compromesso tra Governo ed Estrema sinistra, negoziato principalmente da Sonnino con molto zelo ed amicizia per me. Io l'accettai per avere mani libere e la Camera chiusa, anche in vista di probabili complicazioni internazionali.''
 
Così la neutralità era dichiarata, ma ogni giorno nuove classi venivano chiamate alle armi, sicuro presagio che non sarebbe stata a lungo mantenuta. Nessuno, neppure il partito socialista richiese l'immediata convocazione del parlamento; l'"Avanti!" sottolineò, con manifesta compiacenza, che i socialisti "si trovavano in ottima compagnia; la tesi della neutralità è governativa.» Invitò bensì tutti i sindaci socialisti d'Italia a convocare per l'8 ed il 9 agosto i consigli comunali onde deliberare un voto contro la guerra e per mantenere sino all'ultimo la neutralità assoluta dell'Italia.
 
Negli stessi giorni, in contrapposizione ai comizi socialisti per la pace, cominciarono le dimostrazioni, inizialmente quasi trascurabili, degli studenti (in quegli anni si può dire che nelle scuole medie e superiori mancassero quasi completamente studenti provenienti da famiglie operaie e contadine) e di gruppetti di interventisti, tese a reclamare l'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa. Più tardi si accese sulla stampa un dibattito sempre più aspro, tra le stesse correnti democratiche e socialiste, sull'opportunità di mantenere la posizione della neutralità assoluta oppure di passare alla neutralità attiva e operante propugnata da Mussolini.
 
Il fallimento della seconda Internazionale, l'adesione alla guerra dei partiti socialisti a fianco delle rispettive borghesie (ad eccezione del partito bolscevico russo, del partito socialista operaio bulgaro e di piccole minoranze in altri paesi), l'interventismo dei repubblicani e di una parte dei sindacalisti italiani, il tradimento di Mussolini, allora direttore de l'"Avanti!", e l'atteggiamento dei riformisti indebolirono fortemente la posizione del partito socialista e la spinta delle masse lavoratrici nella lotta contro la guerra.
 
Gli interventisti non erano un raggruppamento omogeneo. Si dividevano grosso modo in due gruppi: il più forte, quello dei "nazionalisti" e dei liberali di destra portabandiera delle forze conservatrici e reazionarie, rappresentanti gli interessi del grande capitale, delle grandi industrie siderurgiche, dei fabbricanti di cannoni, e quello dei "democratici" (radicali, socialisti riformisti, repubblicani, una parte dei sindacalisti), che si richiamavano agli ideali di Mazzini, di Garibaldi e alla necessità di realizzare compiutamente, con la liberazione di Trento e di Trieste, l'unità d'Italia. Alcuni socialisti estremisti come Mussolini e i sindacalisti sostennero la necessità della "guerra rivoluzionaria," della guerra che avrebbe portato alla rivoluzione e dato ai popoli libertà e giustizia.
 
Anche Pietro Nenni, allora repubblicano, fu interventista e spiegò "l'interventismo rivoluzionario" come una tendenza a scorgere nella guerra "l'occasione favorevole per risolvere le questioni nazionali ed abbattere con gli Imperi centrali i baluardi più formidabilmente agguerriti della reazione, preparare a tutti i popoli le condizioni d'ambiente storico per lo sviluppo delle idealità socialiste."
 
Tra gli interventisti democratico-rivoluzionari particolarmente attivi, oltre al socialista estremista Mussolini, al repubblicano Eugenio Chiesa, i sindacalisti Amilcare De Ambris, Filippo Corridoni, Giuseppe Giulietti, Cesare Rossi, Michele Bianchi, Giuseppe De Falco, Paolo Orano, Angelo Oliviero Olivetti, Ottavio Dinale, Arturo Labriola, e ancora i socialisti riformisti e indipendenti come Leonida Bissolati, Orazio Raimondo, Giuseppe Lombardo Radice e altri.
 
Ma "l'interventismo rivoluzionario" ebbe scarsa influenza tra la classe operaia e nel Partito socialista; fatta eccezione per alcuni che seguiranno Mussolini, abbandonando con lui il Partito socialista, la grande maggioranza dei socialisti fu contraria alla guerra. Anche gli anarchici, ad eccezione di un piccolo gruppo (capeggiato da Massimo Rocca alias "Libero Tancredi"), presero posizione contro la guerra. Soltanto l'Unione Sindacale italiana si divise in due: l'una parte, capeggiata da Alceste De Ambris, Filippo Corridoni e Paolo Orano, si pronunciò a favore delle potenze occidentali per la guerra contro "l'imperialismo teutonico"; l'altra parte, alla cui testa stavano Armando Borghi, Bonazzi, Piccinini e altri, si schierava decisamente contro la guerra.
 
Ma gli interventisti di diversa estrazione cercarono di costituire un blocco unitario, e nei giorni 24-25 gennaio 1915 ebbe luogo a Milano per iniziativa di Mussolini la prima "Adunata interventista dei fasci d'azione rivoluzionaria." È la prima volta che appare la parola "fasci" per indicare un movimento antisocialista e antidemocratico.
 
Relatori a tale convegno furono Michele Bianchi, Tullio Masotti, Benito Mussolini, Filippo Corridoni, Alceste De Ambris, Mario Gibelli. Il "Popolo d'Italia," il quotidiano di Mussolini, scrisse che al convegno erano rappresentati 45 fasci, fra i quali Milano, Bologna, Genova, Verona, Alessandria, Forlì, Palermo, Parma, Firenze, Pavia, Piacenza, Urbino, Catania, Novara, Roma, Ravenna, Mantova, Ferrara, Perugia, Torino, Macerata, Arezzo, Lucca, Treviso, Pesaro, Pistoia, Asti, Napoli. Gli iscritti al movimento, che sarebbero stati 4.715, nominarono un proprio Comitato centrale. I convenuti s'impegnarono a condurre nel paese una larga agitazione per l'intervento dell'Italia in guerra con la parola d'ordine generale "O il rischio della guerra o il rischio della Corona," che in un certo senso equivaleva al motto "Guerra o rivoluzione."
 
Tutta la campagna fu diretta con particolare violenza di linguaggio contro il Partito socialista per la sua posizione in difesa della pace.
 
Ma fatta eccezione che per alcune grandi città, i fasci interventisti non riuscirono ad avere alcuna presa tra i lavoratori.
 
La grande maggioranza degli italiani era contraria alla guerra, contrarie erano le alte gerarchie della Chiesa simpatizzanti per l'Austria cattolica, avverse le masse operaie e contadine. Lo storico nazionalista Gioacchino Volpe scrisse: "Davanti ai contadini nessun partito che volesse guadagnarseli, e per di più in concorrenza con altri, poteva parlare di guerra. Che se l'impresa libica, con qualche prospettiva di terra da conquistare e qualche coloritura religiosa, li aveva trovati non mal disposti, le astratte teorie dei. propagandisti cittadini erano affatto estranee al loro mondo ideale."
 
Salandra ammise che nel 1915 la grande maggioranza degli italiani era contraria all'intervento e lo stesso Mussolini scrisse che la guerra del 1915-18 non era sentita e che il popolo vi fu trascinato da una minoranza che era riuscita a controllare tre città: Milano, Genova e Roma.
 
Le condizioni di miseria e di supersfruttamento cui i lavoratori italiani da decenni erano sottoposti, spingendo operai e contadini a cercare pane e lavoro all'estero, avevano sviluppato in essi forti sentimenti internazionalisti, alimentati dalla continua ed efficace polemica condotta dai socialisti contro il militarismo e le conquiste coloniali. La grave situazione economica e l'impreparazione militare dell'Italia in conseguenza della costosa guerra libica spingevano notevoli strati della stessa borghesia a sostenere una politica di neutralità negoziata.
 
La grande maggioranza del paese era dunque contro la guerra, ma una minoranza dinamica può sempre imporsi e prevalere se le masse lavoratrici mancano di una direzione ferma e sono tenute nell'inerzia e nella passività. Operai e contadini avevano bisogno di una guida, questa mancò. Già nel dicembre del 1914, Rinaldo Rigola, allora segretario generale della C.G.L., in un'intervista all'" Humanité," alla precisa domanda su quale sarebbe stato l'atteggiamento dei lavoratori di fronte a un eventuale intervento dell'Italia, aveva risposto: "Come principio la maggioranza delle nostre organizzazioni è contro la guerra. Ma il fatto di essere contro la guerra non significa ribellione contro una fatalità umana. Io ho l'impressione che l'Italia interverrà. Siccome noi siamo una minoranza nella nazione, non possiamo che compiere la nostra funzione di minoranza in conformità ai nostri principi. Se si cercasse di aiutare gli aggressori della Francia, gli assassini del Belgio, potrebbe essere la rivoluzione. Noi invece ci disinteresseremo di una guerra che avesse finalità puramente nazionaliste."
 
Le dichiarazioni di Rigola, il dirigente della più grande organizzazione dei lavoratori italiani, erano chiare, egli prendeva aperta posizione per una parte dei belligeranti. Si comprende facilmente come, con tale indirizzo, l'azione della Confederazione del lavoro per mobilitare la classe operaia e i lavoratori contro l'intervento in guerra sia mancata del tutto, essendosi limitata ad alcuni manifesti e comizi a favore della neutralità che, nella situazione infuocata e di pericolo imminente, non avevano gran peso.
 
Tale non era l'atteggiamento dell'"Avanti!" diretto (dopo l'espulsione di Mussolini) da G. M. Serrati e della sinistra del partito socialista che conduceva un'attiva campagna contro la guerra. Lenin ne era favorevolmente colpito e il 10 novembre 1914 scriveva: "I socialisti rivoluzionari italiani con l'"Avanti!" alla testa lottano con l'appoggio della grande maggioranza degli operai più progrediti contro lo sciovinismo, denunciando gli interessi borghesi sotto gli appelli alla guerra."
 
Frattanto, però, il governo ricorreva all'intimidazione, alla piazza e alla violenza per imporre la guerra. Nel gennaio del 1915, a mezzo di opportune circolari ai prefetti, vietava le manifestazioni pubbliche e i comizi.
 
Simili ordini ai prefetti, - protestava Filippo Turati alla Camera, il 26 febbraio, - non sono già una interpretazione più o meno restrittiva della legge, ma sono la legge lacerata, messa sotto i piedi [...]. Oggi una cosa è certa, che nessun prefetto sarà cosi imbecille da non capire il vostro monito; nessun comizio, nessuna riunione di una qualche importanza sarà più concessa in alcun luogo. Evidentemente voi dunque avete soppresso ogni libertà. Le stesse leghe, le stesse organizzazioni operaie sono virtualmente soppresse, in quanto ogni loro attività dipenderà dal vostro consenso." (1)
 
Il 21 febbraio si svolgono in alcune città grandi manifestazioni contro la guerra, alle quali partecipano i dirigenti e i deputati del partito socialista, ma il 4 marzo il presidente del Consiglio Salandra proibisce tutti i comizi che tuttavia, seppure contrastati, di tanto in tanto hanno luogo egualmente poiché la direzione del partito socialista ha dato alle sezioni la direttiva di considerare inesistente e incostituzionale la circolare Salandra.
 
Mentre il governo tenta con ogni mezzo di incatenare i lavoratori dà via libera alle violente manifestazioni degli interventisti. A una di queste, avvenuta a Milano il 3 marzo, rispondono immediatamente i socialisti e gli operai, la polizia opera 235 arresti tra i quali quello del direttore dell'"Avanti!" Giacinto Menotti Serrati. A spalleggiare Mussolini scende in campo D'Annunzio (il governo lo finanzia lautamente, e il poeta può tornare dalla Francia dove s'era da anni rifugiato per sfuggire ai creditori) che diventa in quella primavera il simbolo e l'esponente di tutto l'interventismo di destra. Il 5 maggio, commemorando a Quarto l'impresa dei Mille, chiede in termini da ultimatum l'intervento dell'Italia in guerra a fianco della Francia e dell'Inghilterra. Da quel momento D'Annunzio parla ogni sera sulle piazze d'Italia in tono sempre più minaccioso, incitando alla violenza contro Giolitti che rappresentava l'ala neutralistica dello schieramento liberale. "Col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugnale si misurano i manutengoli, i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell'ex cancelliere tedesco." Gli faceva eco, a Milano, Mussolini che inneggiava alla guerra imprecando contro Giolitti, scrivendo "Abbasso il parlamento" e minacciando la "rivoluzione."
 
Giolitti, ritornato a Roma il 9 maggio (nel giro di poche ore aveva ricevuto i biglietti da visita di oltre 300 deputati che gli significavano la loro solidarietà e adesione alla politica di non intervento), ammonì il re e il presidente del Consiglio che il parlamento avrebbe votato in grande maggioranza contro la guerra. Salandra rispose che il parlamento non aveva nulla da decidere. La decisione era già stata presa dal governo e dal re, la mobilitazione già in atto.
 
Ma, "considerando che intorno alle direttive del governo nella politica internazionale manca il concorde consenso dei partiti costituzionali, che sarebbe richiesto nell'attuale situazione," ritenne opportuno, il 13 maggio, dimettersi. Egli voleva lasciare ogni responsabilità alla monarchia, d'altronde già compromessa sino in fondo; il trattato segreto di Londra in base al quale l'Italia s'impegnava a entrare in guerra era stato firmato fin dal 26 aprile.
 
Le dimissioni del ministero Salandra non erano che una manovra per scatenare la piazza. Il 14 maggio D'Annunzio, in un discorso al teatro Costanzi di Roma, gridò: "che anche il sangue scorra, tal sangue sarà benedetto." La folla eccitata da tali parole marciò verso l'abitazione di Giolitti, difesa dal pronto intervento della forza pubblica. Gli studenti invasero l'edificio della Camera, deputati e uomini politici conosciuti come neutralisti e contrari alla guerra furono aggrediti e malmenati per le strade della capitale. Nello stesso giorno Mussolini aveva pubblicato col titolo: "O la guerra o la rivoluzione" un fondo sul suo giornale "Il Popolo d'Italia," in cui era detto: "Se voi, o monarca, non vi servirete dell'art. .5 dello Statuto proclamando la guerra, ebbene voi perderete la corona."
 
Giolitti che pure aveva la maggioranza parlamentare non se la senti di organizzare la lotta, non seppe fare altro che ripartire per la sua casa di campagna. Il 16 maggio il re richiamò al governo Salandra, senza tenere in alcun conto la volontà del parlamento e del Paese. Anni dopo Nitti ricorderà che in quel giorno la costituzione era stata soppressa e le libertà distrutte, il che si ripeterà poi nell'ottobre del 1922. Gli storici concordano nel giudicare il colpo di stato del maggio 1915, in un certo senso "come la prova generale della marcia su Roma." (2)
 
Le Camere vennero convocate soltanto il 20 maggio quando ormai le tradotte militari partivano per il fronte e la guerra all'Austria era di fatto già dichiarata. I deputati della maggioranza giolittiana, abbandonati dal loro capo, spaventati dalle minacce, messi davanti al fatto compiuto, capitolarono. I pieni poteri per la guerra furono approvati con 407 voti contro 74. Così era stata capovolta la maggioranza. Al Senato l'approvazione fu unanime.
 
Nel paese gruppi d'avanguardia della classe operaia davano l'ultima battaglia per la pace. A Milano il 15 maggio, in seguito ad uno scontro tra interventisti e neutralisti nel quale era rimasto vittima un giovane socialista, è proclamato lo sciopero generale. Torino vi aderisce immediatamente con una forte manifestazione che si protrae per tutta la domenica; il lunedì mattina le fabbriche sono ferme. Centomila persone muovono dai rioni periferici verso il centro della città, rompono i cordoni della polizia, attaccate dalle cariche della cavalleria improvvisano alcune barricate, e si accende la battaglia di strada. Un morto e numerosi feriti; il prefetto telegrafa a Roma al ministero dell'Interno: "Situazione gravissima, vi sono barricate," e trasferisce i poteri all'autorità militare, che occupa la Camera del lavoro e procede a numerosi arresti. Lo sciopero continua all'indomani, ma ormai l'invito delle organizzazioni è di riprendere il lavoro: "Ogni vostro sacrificio, oggi, sarebbe vano." Si tratta di una minoranza combattiva che sente l'isolamento dal resto del paese.
 
Anche a Torino lo sciopero generale contro la guerra riesce imponente, gli operai manifestano attraverso le vie della città, la polizia e la truppa invadono e occupano militarmente la Casa del popolo sparando all'impazzata.
 
Ancora due mesi prima Filippo Turati aveva potuto proclamare alla Camera, non senza una punta di ottimismo artificioso: "Oggi la guerra, qui dentro, non la vuole nessuno, non la vuole il Vaticano, non la vuole il capitale, non la vuole il lavoro, non la vogliamo noi, non la volete voi: Ruini, Chiesa, Berenini che avete testé parlato. La guerra non è altro che un bluff letterario di alcuni giornali dietro cui sta la siderurgia che vuole la guerra per i suoi maneggi e intrighi."
 
Si, la guerra non era voluta dalla maggioranza del popolo, oltretutto perché gli uomini non fanno mai volentieri la guerra (a meno che non si tratti di una guerra giusta, per la libertà, per l'indipendenza, per il socialismo), ma la violenza e la costrizione possono avere una parte decisiva se si lascia via libera alle minoranze decise a imporre con la violenza la loro volontà. In una società divisa in classi, ricca di squilibri e di contraddizioni, esistono sempre contrasti tali per cui se i lavoratori non sono vigilanti e attivi, piccole minoranze possono, talvolta con successo, organizzare congiure e colpi di stato.
 
Nelle giornate "radiose" del maggio 1915 il parlamento e lo Statuto erano crollati perché i loro paladini non avevano saputo e voluto fare appello alle masse lavoratrici in difesa delle istituzioni democratiche, delle libertà e della pace. Lo stesso partito socialista, invece di chiamare gli operai delle fabbriche e i contadini delle campagne a dimostrare, a lottare nelle officine e nelle strade, a scendere nelle piazze, ad agire con decisione e con forza contro la guerra, si era limitato per alcuni mesi a ripetere il suo "no" alla guerra. Il 24 maggio, il giorno dell'inizio della guerra, rivolgeva ai lavoratori un appello che suonava rassegnazione e impotenza: "Non è una tregua d'armi che domandiamo agli avversari, e tanto meno un armistizio. Spontaneamente ci ritiriamo in disparte. Lasciamo che la borghesia faccia la sua guerra: la guerra che ha voluto e della quale si è assunta dinanzi al non lontano avvenire tutta la responsabilità."
 
Ma se le guerre le dichiarano o le impongono i governi, i gruppi imperialisti del grande capitale, sono le nazioni che le fanno, sono i popoli che ne sopportano le conseguenze e devono battersi per la pace, sono i partiti operai e democratici, sono i lavoratori, i giovani delle scuole, delle fabbriche e dei campi che devono lottare uniti collegando sempre la lotta parlamentare con quella delle grandi masse lavoratrici e studentesche, esse solo sono il nerbo, la forza, il sicuro presidio della democrazia.
 
1) F. Turati, Discorsi parlamentari, Roma, discorso del 26 febbraio1915.
 
2) Discutendosi nel giugno del 1967 al Senato la legge di P.S., il ministro dell'Interno on. Taviani volle ricordare una cosa ovvia: che nessun colpo di stato fu mai attuato rispettando le leggi; tuttavia nel 1920 l'on. Giolitti propose l'abrogazione dell'art. 5 dello Statuto che aveva permesso al re, nel 1915, di rovesciare il sistema di alleanze, decidendo l'intervento dell'Italia in guerra, scavalcando il parlamento.