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da Pietro Secchia, La resistenza accusa 1945-1973, Mazzotta editore, 1973
trascrizione per Resistenze.org del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
La condanna di Gemisto-Franco Moranino (1)
 
Pietro Secchia
 
1957
 
Non c'è biellese, non c'è valsesiano, oggi possiamo ben dire non c'è partigiano italiano che non conosca Gemisto.
Non tutti forse sanno che Giorgio Gemisto era il nome di un filosofo famoso nato intorno al 1355, ma tutti sanno che Gemisto era il nome di battaglia di Franco Moranino.
 
Aveva vent'anni quando fu condannato dal tribunale speciale, appena 23 quando, l'8 settembre, primo tra i primi organizzò le formazioni partigiane biellesi sul Monte Cucco, al Bocchetto della Sessera.
I nomi di Moscatelli, di Ciro (Eraldo Gastone), di Gemisto, di Quinto (Antonietti), diItalo (A. Poma), di altri valorosi, ignoti o quasi alla vigilia dell'armistizio diventarono ben presto leggendari in quelle valli ed in tutto il Piemonte, sono tra i protagonisti di un'epoca eroica, del più grande moto popolare nella storia del nostro paese.
 
Nino Bixio, Carlo Pisacane, Mameli, i fratelli Bandiera, A. Gramsci, questi i nomi che Moranino assegnò ai distaccamenti che costituivano la sua brigata. Questa durante il 1944 si ingrandi, si sviluppò nella lotta, diventò la XII divisione Garibaldi.
 
I giovani di oggi, che non sanno chi è Franco Moranino, apprendono dalle cronache che si tratta di un «delinquente» condannato all'ergastolo.
 
Dodici anni or sono, quando organizzava e guidava al combattimento i soldati e gli ufficiali, non vi era baita di montagna, non cascinale in pianura che non si aprisse al bussare degli uomini di Franco Moranino.
Dappertutto in ogni villaggio, in ogni cascinale, sino alla più piccola baita il nome di Gemisto era pronunciato quasi con venerazione.
I più non l'avevano mai visto, non l'avevano mai conosciuto, ma conoscevano il suo nome per le gesta eroiche, egli era obbedito come un capo leggendario, i suoi partigiani, le sue staffette trovavano aiuto, ospitalità in ogni casa ove si presentavano.
 
Ecco come descrivono la figura di F. Moranino due scrittori svizzeri, André Guex e René Caloz, in un libro, Le sang et la peine, pubblicato alcune settimane dopo il 25 aprile 1945.
 
«Dopo aver lasciato la Valsesia, penetriamo nel Biellese, distretto popolare e industriale dove sono concentrate la maggior parte delle filature italiane. Qui non ci sono più tedeschi. La zona è stata liberata dai partigiani. Gli uomini di Gemisto non dormono più nelle baite, nelle tane, nei vigneti e tra i boschi, ma sono accolti, alloggiati, accarezzati da una popolazione esultante, liberata da una presenza esecrata. [...]
 
«Finalmente arriviamo. Gemisto ha installato il suo comando in una di quelle vecchie case di campagna tipicamente italiane. Entriamo, Gemisto sta dettando una lettera con la sua voce rapida e sonora, mentre nella stanza altri partigiani, il medico militare, un ex prigioniero tedesco, il cappellano don Russo stanno discutendo animatamente.
 
«Gemisto, mentre dettava a macchina, ha ascoltato sino a quel momento la conversazione senza intervenire, balza ad un tratto dalla sedia e grida a Costanzo (un ex ufficiale dell'esercito): "Come, tu sostieni che gli italiani non sono intelligenti? Anch'io durante i lunghi anni della mia prigionia mi chiedevo: ma il popolo italiano non ha del coraggio? Eppure, vedi, ora che cosa hanno saputo fare gli italiani." E Gemisto parla, parla sul coraggio, sull'intelligenza dei popoli quando lottano per la loro causa, per la causa della libertà. Quest'uomo trasportato dal suo tema sembra un vulcano, la sua parlata italiana chiara e sonora si ripercuote sotto l'arcata come un ritmo di mitragliatrice. Dei nomi di filosofi, di poeti, di musicisti, Verdi, Goethe, D'Annunzio, Garibaldi, Labriola, Gramsci vengono gettati, ripresi, rilanciati, ma questa lava bollente sembra canalizzata dalla logica serrata di Gemisto. Egli si anima spinto dalla sua passione e gli ascoltatori sono afferrati dai suoi argomenti. Tutto ad un tratto si precipita su di un mucchio di libri, ne prende uno, lo apre, si rivolge al suo segretario e gli dice: tu sei un contadino o figlio di contadini. Ebbene: "...si vedono degli animali feroci, dei maschi e delle femmine sparsi per la campagna, neri, lividi e tutti bruciati dal sole, attaccati alla terra che essi frugano e rimuovono con una ostinazione invincibile, essi hanno come una voce inarticolata, in realtà sono degli uomini. Si ritirano durante la notte nelle tane, nelle caverne, vivono di pane nero, d'acqua e di radici, essi risparmiano ad altri uomini la fatica di seminare, di lavorare e di raccogliere per vivere e meritano così di non mancare del pane che essi hanno seminato."
 
«"Chi è quel fascista che ha scritto questo?", grida il contadino partigiano. Gemisto ride di cuore e dice: "Non è un fascista, si tratta di uno scrittore francese, si tratta di La Bruyère. Ci fa vedere com'erano le cose al mondo alcuni secoli or sono. Poi da allora ne vennero molti altri, vi è stato soprattutto Marx..."»
 
Ecco l'uomo condannato all'ergastolo. La condanna di Franco Moranino non colpisce un uomo, un garibaldino, un comandante partigiano, ma tutta la Resistenza. L'ergastolo tramutato in dodici anni di reclusione a Moranino è una condanna che può indignarci, ma non ci umilia. I partigiani possono attaccare la sentenza sulle loro bandiere, assieme alle medaglie che ricordano le ore del combattimento e del riscatto.
 
Non vi è nessuno di coloro che hanno conosciuto Franco Moranino che possa credere che egli uccidesse degli innocenti così, per il bel gusto di uccidere. Nessuno dei partigiani, dei patrioti, degli uomini che lo hanno conosciuto crederà mai che nel suo animo albergasse la ferocia.
 
Egli ha sempre avuto il cuore aperto alla generosità, alla pietà, al perdono. Nei primi tempi della guerra di Liberazione, quando l'esperienza era ancora scarsa, egli fu persino rimproverato dal comando militare del CVL perché troppi nemici fatti prigionieri riuscivano a commuoverlo e a farsi liberare.
 
Qualcuno nei giorni scorsi ha pronunciato in un'aula, dove la giustizia e la verità dovrebbero essere sacre, parole di bestemmia; qualcuno ha detto che Moranino non appartiene alla Resistenza. Chi ha pronunciato quelle parole - ne siamo ben certi - non ha mai conosciuto Moranino, non ha mai conosciuto la Resistenza.
 
La Resistenza per certi uomini che non la vissero è qualcosa di astratto, poco più di un vocabolo, è una ricorrenza che si celebra una volta all'anno, al 25 aprile.
Ma la Resistenza nella sua grandezza, nei suoi eroismi e nelle sue tragedie, la terribile realtà della guerra è ignorata da molti di coloro che oggi, a distanza di anni, si ergono a giudici dei nostri combattenti.
 
Non conoscono la Resistenza nella sua realtà viva, nei suoi sacrifìci, nelle sue audacie e nelle sue asprezze, non conoscono la Resistenza fatta dagli uomini in carne ed ossa, fatta di stenti, di sangue, di sofferenze, di immani responsabilità.
 
Non pensano che i partigiani non disponevano né di prigioni, né di fortezze, né di archivi, né di territori stabilmente liberati, né di possibilità per condurre indagini e inchieste. Eppure i comandanti partigiani in certi momenti erano costretti a giudicare i loro simili e lo dovevano fare poiché lo imponevano le dure esigenze della guerra, perché dovevano difendere la vita dei loro uomini dalle insidie del nemico, dei traditori e delle spie.
 
Sacro, anche se duro, era il dovere che compivano quegli uomini perché sul capo dei comandanti partigiani chiamati a giudicare, ad amministrare giustizia sui monti o in mezzo ai boschi pendeva la minaccia continua del nemico in agguato che poteva in qualsiasi momento sorprenderli, loro ed i loro uomini, catturarli, sarebbe stata la tortura atroce e poi la morte.
 
È facile oggi processare e giudicare. Ma coloro che giudicano hanno conosciuto la Resistenza? Le angosce delle notti senza sonno, l'avvicinarsi delle SS, dei passi ferrati, le brigate nere che arrivavano, che bussavano alle porte delle case, e i partigiani costretti a restare nascosti, sotterrati nelle buche? Sanno che cosa voleva dire venire a conoscere le sevizie dei compagni torturati, la notizia dei pacifici cittadini e dei patrioti impiccati all'angolo delle strade?
 
Si dice che tra le spie fucilate vi sono stati degli innocenti, si dice che durante la Resistenza si sono commessi degli errori. Ma come non commettere anche degli errori in quelle condizioni?
 
Come si può giudicare con giustizia, con onestà se non si tiene conto di come era allora la vita, se si dimentica che si trattava di una guerra per la vita e per la morte, di una guerra in cui i patrioti si battevano con ogni mezzo per conquistare al nostro paese la libertà, se si dimentica che i partigiani erano continuamente braccati dai tedeschi e dai fascisti, se si dimenticano le orrende torture cui erano sottoposti?
 
Quando si pensa ai nostri caduti, alle baite, alle cascine incendiate, ai villaggi saccheggiati, alle nostre donne violentate dai barbari che non conoscevano né leggi umane, né leggi civili, quando pensiamo alle camere di tortura fasciste, ai campi di sterminio nazisti e poi ci guardiamo intorno e scorgiamo le nostre città liberate, i comignoli fumanti delle nostre fabbriche, le nostre campagne ubertose, questo apparente benessere del nostro paese, in confronto all'Italia di dodici anni or sono, allora pensiamo al miracolo. Ma questo miracolo lo hanno compiuto i Moranino ed i loro uomini.
 
Note:
 
1) «Vie Nuove », 4 maggio 1957.
 
Francesco Moranino (Gemisto), nato a Tollegno (Vercelli) il 16-2-1920, morto a Grugliasco (Torino) il 18-6-1971. Operaio e poi tecnico in un'industria tessile. Non ancora ventenne partecipa al movimento antifascista, militante nel PCI dal 1940, arrestato nel 1941, condannato dal tribunale speciale a 12 anni di reclusione. Detenuto a Civitavecchia, liberato nell'agosto 1943, è tra i primi organizzatori della Resistenza nel Biellese. Comandante del distaccamento Garibaldi Pisacane, poi della 50a Brigata Garibaldi e infine della XII divisione Garibaldi Nedo.
 
Deputato alla Costituente nel 1946, sottosegretario al ministero della Guerra nel terzo ministero De Gasperi. Denunciato per un fatto di guerra di cui non aveva alcuna responsabilità, anche se per difendere i suoi uomini si assunse intera la responsabilità. Durante un forte rastrellamento nazifascista, i suoi partigiani catturarono alcune persone che dagli interrogatori risultarono molto equivoche e non seppero spiegare perché si trovavano in tale località. Si suppose fossero delle spie che guidavano i fascisti alla sede del comando partigiano. Processate furono condannate a morte e fucilate. Nel dopoguerra, nel clima di guerra fredda e di persecuzione dei partigiani, l'episodio venne rievocato, si sostenne che i fucilati non erano delle spie. Malgrado che il comando superiore militare di zona si fosse assunto la responsabilità dell'avvenuta condanna, Francesco Moranino venne denunciato e dopo una lunga vicenda processuale, malgrado tutti i maggiori esponenti della Resistenza fossero andati a deporre a favore di Moranino, questi il 12 aprile 1956 venne condannato dalla corte d'Assise di Firenze all'ergastolo, commutato poi in 12 anni di reclusione.
 
Il sen. Secchia, andato a deporre a Firenze al processo Moranino, si senti chiedere dal pubblico ministero: «Ma se il comando partigiano riteneva o sospettava che quelle persone catturate o alcune di esse fossero delle spie, perché non si limitò a metterle in carcere in attesa di informazioni?»
 
Quel magistrato, chiamato a sostenere l'accusa ed a pronunciare la condanna contro Moranino, ignorava evidentemente che i partigiani non disponevano né di carceri, né di campi di prigionia, né di palazzi sedi di tribunali.
 
A leggere le pagine dell'istruttoria di quel processo si rimane sbalorditi per le contraddizioni, le incongruenze ed i veri e propri errori di dati e di fatti.
 
Graziato dal presidente della Repubblica nel 1958, F. Moranino non volle ritornare in patria per un provvedimento di grazia. Vi ritornò soltanto nel 1965 in seguito all'applicazione dell'amnistia (elargita nel XX anniversario della Resistenza) con la quale si riconosceva che i fatti di cui era stato accusato e ingiustamente condannato erano fatti di guerra, connessi con la guerra di Liberazione.
 
Accolto entusiasticamente dalle popolazioni biellesi e valsesiane fu nel 1968 rieletto senatore nel collegio di Vercelli.
 
Colpito da infarto conseguente alla sua febbrile, instancabile attività, ebbe stroncata la vita interamente dedicata alla causa della liberazione degli uomini da ogni servaggio, alla causa del socialismo.
 

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