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sommario > Capitolo 9. [M. Michelino:1970-1983 - La lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni]

INTERNAZIONALISMO E SOLIDARIETA’ DI CLASSE

Il capitalismo, fin dai suoi albori, con la colonizzazione e la conquista di buona parte del mondo, ha causato la schiavitù e la morte di centinaia di milioni di persone. Solo in America Latina e in Africa si calcola che siano morti almeno 70 milioni di indigeni e che , in nome del profitto, circa 12 milioni di schiavi africani siano stati strappati ai loro paesi nei primi anni del secolo, mentre sono miliardi gli esseri umani che ancor oggi l’imperialismo sacrifica.

Così, mentre aumenta la ricchezza nelle mani di una minoranza, dall’altro polo aumenta la miseria, la disuguaglianza, la povertà, i campi non coltivati, i contadini senza terra, gli operai senza lavoro: disoccupazione, fame, malattie, guerre, morte.
Nel sistema capitalista molte vite, che potrebbero essere salvate, si perdono per pochi centesimi. L’analfabetismo, la prostituzione infantile, i bambini sfruttati e costretti a lavorare sin dalla più tenera età che chiedono l’elemosina per poter vivere, le baraccopoli in cui vivono milioni di persone in condizioni disumane, le discriminazioni per motivi razziali o sessuali, sono solo una parte dello sfruttamento capitalista.

L’imperialismo impone ai popoli del mondo sottosviluppo, prestiti usurai, debiti con interessi impossibili da pagare, scambio diseguale, speculazioni finanziarie non produttive, corruzione generalizzata, commercio di armi, guerre, violenza, massacri.
In questo secolo l’umanità è cresciuta di 4 volte (la popolazione ha superato i 6 miliardi) e ormai sono migliaia di milioni le persone che soffrono la fame, la sete, la voglia di riscatto e di giustizia.
Sull’intera popolazione mondiale, quasi 3 miliardi di persone sono considerate “forza lavoro”. Di queste il 30% (meno di 1 miliardo) è considerato disoccupato. Dei poco più di 2 miliardi di “popolazione attiva” solo il 40% ha un’occupazione “garantita e protetta” legalmente, mentre il restate 60% lavora in condizioni irregolari e precarie. Esistono quindi nel mondo 3 miliardi di persone (di cui quasi un miliardo direttamente coinvolto nel processo di trasformazione industriale, cioè la cara e vecchia “classe operaia”) che per vivere devono continuamente vendere la propria capacità lavorativa (dati O.I.L. Organizzazione Internazionale del Lavoro - Ginevra).

Secondo Susan George, direttrice del Transnational Institute, oggi nel mondo ci sono 40.000 multinazionali e le prime 100 di queste controllano direttamente i 2/3 del commercio mondiale. Gli investimenti finiscono per tre quarti nel nord del mondo e per un quarto in una decina di paesi del sud. Ormai ad un aumento di produttività non corrisponde più alcuna crescita dell’occupazione. Assistiamo quotidianamente al fatto che più le imprese multinazionali licenziano i lavoratori e più si vedono aumentare il valore delle loro azioni. La sovrapproduzione di capitali ha raggiunto cifre pazzesche, innescando nel sistema mondiale una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro, di cui le ricorrenti crisi delle Borse sono solo la spia.

Nei mercati finanziari mondiali ogni giorno vengono fatti circolare 2.000 miliardi di dollari. Di questi, solo una parte infinitesimale corrisponde a transazioni commerciali o a investimenti produttivi. Nel 1997- su 100 dollari trattati in valuta - solo 2 dollari e mezzo avevano qualcosa da spartire con lo scambio di beni e servizi. Oggi si producono circa 70 milioni di macchine e se ne vendono solo 57 milioni. 20 anni fa l’80% delle masse finanziarie aveva a che fare con l’economia reale e riguardava aspetti produttivi, oggi invece il 95% del denaro non ha nulla a che vedere con cose concrete.

Ormai questa enorme massa di denaro non produce alcun giovamento alla società, e quando esplodono crisi come quella del Sud-Est asiatico del 1998, o quella argentina del 2000, il Fondo Monetario Internazionale interviene non per salvare le popolazioni affamate di quei paesi, bensì i grandi speculatori finanziari.
Agli ordini del mercato, lo stato viene privatizzato sempre più. Le campagne sull’inefficienza e sulla corruzione montate dai capitalisti hanno lo scopo di rendere possibile realizzare le privatizzazioni con il consenso di una parte dell’opinione pubblica e con l’indifferenza di un’altra parte.

Gli stati del Terzo Mondo più pagano più sono in debito, e più sono costretti ad obbedire all’ordine di smantellare lo stato sociale, ipotecare l’indipendenza politica e alienare l”economia nazionale.
La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale rispondono solo agli interessi delle multinazionali, decidono e riscuotono a Washington, sebbene gli Stati Uniti siano il paese più indebitato del mondo.
Conoscere, far conoscere e combattere le leggi che regolano il sistema di sfruttamento capitalista che, in nome del profitto, impongono miseria, guerra, fame e morte, è il primo dovere di ogni proletario cosciente.

Ormai l’imperialismo ed il sistema capitalista, per i proletari e i popoli del mondo, è diventato sinonimo di distruzione e di barbarie, che continuano a perpetuarsi attraverso le violenze e le guerre.
In questo contesto le lotte antimperialiste, di liberazione nazionale degli anni ’70, e in particolare la rivoluzione iraniana, l’invasione russa dell’Afganistan, l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam, lo scontro armato fra i comunisti cinesi e quelli vietnamiti, fecero nascere molti interrogativi e discussioni fra i lavoratori.

Qual’è l’interesse del proletariato mondiale? Perché le contraddizioni tra compagni, “in seno al popolo” per usare una famosa frase di Mao, si trasformano in antagoniste? E ancora, quale posizioni deve assumere, in questi conflitti, il proletariato italiano?
A questi interrogativi il Coordinamento Operaio delle varie fabbriche cercò di dare risposte. A volte in modo unitario, altre volte con forti contrasti interni, ma prendendo sempre una posizione.
Intanto, mentre nel mondo accadevano i fatti sopra ricordati, in Italia il dibattito di alcune frange di “sovversivi” si incentrava sull’ “operaio sociale” e sulla critica all’operaio industriale ormai “integrato”.

Nella “democratica” America, i fucili della guardia nazionale costringevano i minatori a interrompere lo sciopero facendoli tornare al lavoro e a Tunisi il governo faceva sparare sugli operai tessili in lotta, seminando morte e terrore. La centralità operaia tornava così prepotentemente in primo
piano.

Ripristinare il punto di vista proletario - riconoscendosi come appartenenti ad un’unica classe (contro ogni ideologia nazionalista) a livello mondiale - è la battaglia che si svolge in fabbrica e nel movimento.

È’ significativo vedere come spesso i volantini della Breda Fucine siano firmati “Un gruppo di operai della Breda Fucine”: questo era dovuto al fatto che su scadenze specifiche si facevano riunioni aperte a tutti i lavoratori e il volantino o la presa di posizione erano il frutto del dibattito tra tutti i partecipanti e andavano oltre il “Gruppo Operaio”.


Volantino 1

SOLIDARIETA’ CON I MINATORI AMERICANI IN SCIOPERO DA OLTRE 100 GIORNI PER GLI INTERESSI DI CLASSE

Rifiutato l’accordo governo-sindacati, 160 mila minatori continuano lo sciopero per forti aumenti salariali, per le norme di sicurezza, per i diritti previdenziali.

COSA INSEGNANO GLI OPERAI AMERICANI AL PROLETARIATO INTERNAZIONALE?

I limiti alle rivendicazioni operaie che governo e sindacati impongono in nome della crisi possono essere infranti. Quando gli accordi sanciscono l’immiserimento degli operai in nome della possibilità della ripresa dei profitti, vanno respinti.
I minatori insegnano così che i loro interessi non si stabiliscono sulla base della “compatibilità”, ma sulla base delle loro reali condizioni di lavoro e di vita. Su queste basi la lotta può essere diretta dagli operai anche senza e contro i sindacati filo-padronali.
Le lotte operaie smascherano la democrazia borghese e mostrano la dittatura del capitale sul lavoro salariato.
Carter, vista fallire la manovra del sindacato, convoca d’urgenza il governo, vengono riattivate le leggi antisciopero. La “libera America”, tramite una legge di stato, ordina la ripresa del lavoro. Denunce e ricatti vengono usati per costringere i minatori a riprendere il lavoro, mentre la guardia nazionale presidia militarmente la zona.

I padroni, terrorizzati dal rischio che l’esempio si generalizzi ad altre categorie, premono per la repressione violenta.
Nei periodi di espansione potevano anche permettere che le lotte salariali e normative riportassero il salario al livello del valore della forza lavoro e vantare la loro democrazia.
Ma nella crisi ogni lotta diventa un intoppo per la ripresa dei profitti e scatena reazioni violente.
Il metodo di imporre la ripresa del lavoro tramite esercito e magistratura è la strada della borghesia a uno stadio in cui il sindacato non riesce più a reprimere e controllare le lotte.
Gli esempi ci sono anche in Italia, come si è visto nei confronti dei ferrovieri e degli ospedalieri.
Dietro la facciata democratica si mostra la dittatura borghese.

Dopo i massacri di operai in lotta in Ecuador, Tunisia, Guatemala, ora nella patria della democrazia borghese la macchina repressiva dello stato scende in campo per garantire nuovi livelli di sfruttamento.
Dal terzo mondo alle metropoli imperialiste è il moderno proletariato industriale la classe più conseguente nella lotta contro il capitale.
Dieci anni di contestazione giovanile e studentesca non hanno intaccato la facciata rispettabile e opulenta della “grande America”.

Tre mesi di sciopero per gli interessi operai fanno traballare dalle fondamenta il maggior paese imperialista.
I teorici dell’integrazione operaia, dei nuovi strati emergenti, degli emarginati come nuovi soggetti rivoluzionari devono inventare qualcos’altro.
I popoli del mondo si scindono in borghesi e proletari, i giovani invecchiano ed evidenziano la loro appartenenza alle diverse classi, le scuole possono stare chiuse per mesi e “democratizzarsi”, ma l’estorsione di plusvalore dagli operai non può essere interrotta.
In una società fondata sul profitto le fabbriche devono produrre e gli operai devono essere sfruttati: gli operai sono gli emarginati storici dell’epoca imperialista.
Gli operai conquistano alleati ponendo i propri interessi di classe e dimostrandosi i più coerenti nemici del capitale.

Tutto è stato usato per isolare i minatori, accusati di corporativismo, di spirito antinazionale, di porre richieste assurde data la situazione economica, mentre bisogna pensare ai disoccupati; ai giovani, ecc.
Con tutto ciò, attorno ai minatori si sono schierati gli strati colpiti dal capitale. La solidarietà di classe, l’internazionalismo proletario si dimostrano in primo luogo lottando contro la propria borghesia.

Come in Italia, anche in America il sindacato cerca di riversare la colpa della crisi sugli altri paesi e chiede alla classe operaia di collaborare per potenziare la competitività della propria borghesia nel mercato mondiale.
Il capo del maggiore sindacato ha dichiarato: “per il movimento sindacale americano il protezionismo non è più una parolaccia ... basta col libero scambio.”
Il nazionalismo è ormai diventato la bandiera dei sindacati per coinvolgere gli operai nelle mire espansioniste e guerrafondaie dell’imperialismo.
Gli operai americani, rivendicando i propri interessi contro quelli della propria borghesia hanno dato un esempio di internazionalismo proletario.

Il peggiore nemico dell’imperialismo USA sono i 36 milioni di operai americani.
Compagni, nessuna illusione sull’esito della lotta dei minatori.
Senza partito, senza un movimento politico indipendente nessuna lotta proletaria si può trasformare in lotta rivoluzionaria per il potere.
Ora i vecchi cultori della spontaneità operaia, dopo essere corsi dietro all’operaio sociale daranno nuovamente fiato alle trombette.
Solidarietà con gli operai americani significa per noi prima di tutto riprendere la lotta per i nostri interessi di classe contro il patto padroni sindacato.

Per il proletariato internazionale si evidenzia invece la possibilità e l’esigenza di organizzare il suo partito indipendente.

Coordinamento operaio delle fabbriche
Breda Fucine, Siderurgica, Termomeccanica,
Magneti Marelli, Falck Unione
Marzo 1978



Volantino 2

100 operai assassinati a Tunisi

100 operai assassinati a Tunisi durante uno sciopero: protestavano contro l’aumento dei prezzi e rivendicavano aumenti salariali “assurdi perché contrari alla politica di austerità”.

COSI’ NEI PAESI CAPITALISTI PIU’ DEBOLI VIENE RISTABILITA LA COMPETITIVITA’ INTERNAZIONALE PER REGGERE IL PASSO NEL MERCATO MONDIALE.

Dopo la strage di operai in Ecuador, i compagni assassinati a Tunisi dimostrano ancora una volta che quando non basta più il “patto sociale” il capitalismo non esita a ristabilire col piombo la “disciplina del lavoro”. Solo un anno fa in Tunisia era stato imposto da governo e sindacato il famigerato patto sociale, che congelava per 5 anni i salari.
Questa, per il partito socialista che controlla il governo e il sindacato, la condizione per salvare l’economia nazionale e rendere competitivo il capitalismo tunisino.

Ma la tregua sociale saltava dopo alcuni mesi e il malcontento per il forte aumento dei prezzi, l’intensificazione dello sfruttamento operaio, l’aumento della disoccupazione sfociava in scioperi e manifestazioni di piazza.
E’ a questo punto che la frazione “di sinistra” del partito governativo decide di cavalcare un movimento che non riusciva più a contenere, per ottenere - grazie alla lotta operaia - un rimpasto di governo in cui inserirsi in posizione di preminenza. Ora i sindacati fanno marcia indietro su tutto il fronte; revocato lo sciopero, si lamentano perché il governo “ha usato provvedimenti violenti per reprimere lo sciopero”.

Compagni
OGGI SONO LE BORGHESIE DEI PAESI EMERGENTI A TRACCIARE COL SANGUE L’INCONCILIABILITA’ DI INTERESSI TRA CAPITALE E LAVORO SALARIATO.

I capitalisti italiani hanno la possibilità di raggiungere gli stessi risultati usando il sindacato per “imporre nuovi sacrifici”. Ma cosa succederà quando non sarà più possibile rinviare i nostri interessi?

La crisi investe tutti i paesi capitalistici. Accettare i sacrifici per sostenere gli interessi della propria borghesia non porta ad uscire dalla crisi, ma pone gli uni contro gli altri gli operai di ogni paese, che pagano direttamente i disegni di espansione del proprio imperialismo.

NO AI SACRIFICI, NO AL PATTO SOCIALE ONORIAMO I COMPAGNI CADUTI IN DIFESA DEGLI INTERESSI PROLETARI

Gennaio 1979
Gruppo Operaio Breda Fucine



Volantino 3

GUERRA IN INDOCINA E INTERNAZIONALISMO PROLETARIO

La frazione filosovietica della borghesia cambogiana, con l’appoggio decisivo delle divisioni vietnamite, ha conquistato con una guerra-lampo la capitale e la quasi totalità del territorio cambogiano. Ora è impegnata a soffocare ogni focolaio.

Gli operai e i piccoli contadini del Vietnam, che avevano lottato vittoriosamente contro l’imperialismo USA, vengono chiamati dai propri borghesi a massacrare gli operai e i contadini cambogiani. Obiettivo l’espansione imperialista nel sud-est asiatico in concerto con l’URSS per controllare militarmente e sfruttare economicamente questa importante area. Sull’altro fronte, gli operai e i piccoli contadini della Cambogia vengono chiamati a lottare contro l’aggressione, non certo in difesa degli interessi di classe ma in nome della “patria”.

La Cina, nuova potenza in ascesa, si schiera con la nazione cambogiana non per internazionalismo proletario: il processo di accumulazione capitalista che è sancita a livello sociale dalla conquista del potere da parte di Hua Guofeng e Deng Xiaoping - quali rappresentanti della nuova borghesia cinese - ha bisogno di questo strategico punto d’appoggio contro la espansione URSS.

La borghesia liberale dell’Occidente definisce quest’aggressione come il grande avvenimento dell’epoca moderna: “ecco la prima guerra tra comunisti”, dicono, “Lenin dunque si sbagliava distinguendo tra guerra rivoluzionaria e di liberazione da una parte, d’aggressione o imperialista dall’altra. Il comunismo come bandiera della emancipazione operaia è finito. E’ aggressivo e imperialista più del capitalismo stesso“.

Questo il senso della propaganda borghese e tutte le apparenze sembrano confermare queste tesi: basta far passare per “comunisti” paesi dove il capitalismo di stato ha già sconfitto il potere proletario, per “socialisti” paesi dove tramite la lotta di liberazione la borghesia nazionale è riuscita ad andare al potere, ed il gioco è fatto. Non resta che addossare al comunismo, al marxismo, i crimini che quelle borghesie commettono.

Il marxismo conferma la propria validità: non c’è accumulazione capitalistica senza sfruttamento degli operai, sottomissione dei popoli, aggressione armata. Per quanto il capitale si presenti nella sua forma più avanzata, quella di “capitalismo di stato”, e si faccia chiamare comunismo, esso non può che marciare sul massacro degli operai in ogni parte del mondo.
Non si giudica un sistema per ciò che dice di essere, ma per ciò che è nella realtà. In Russia come nel Vietnam, in Cambogia come in Cina il regime del lavoro salariato, dello sfruttamento degli operai traspare al di là delle forme di cui si ammanta nazionalmente.

Certo è comodo per i borghesi di casa nostra “credere” in queste forme. Possono così, a livello teorico, esorcizzare il fantasma del marxismo perché gli operai ne restino lontani, e, a livello politico, mettere in guardia l’opinione pubblica sul pericolo del potere esclusivo del comunismo nostrano, il PCI, presentandone le “mire totalizzanti”.
Il PCI deve ingoiare il rospo per tenere in piedi l’equivoco. Il più grande partito revisionista dell’occidente non può certo ammettere l’esistenza di paesi e partiti che, pur definendosi comunisti, sono a tutti gli effetti borghesi. Così non può che lamentare le dolorose lacerazioni tra “paesi fratelli” e, per rassicurare l’opinione pubblica, prendere le distanze dai modelli dell’est. L’obiettivo del PCI, assicura esso, non è il potere esclusivo, ma la gestione pluralistica dello sfruttamento operaio in una economia mista: un po’ liberale, un po’ a partecipazione statale.

I gruppi della piccola borghesia piangono come sempre sui cadaveri delle loro utopie e lanciano accorati appelli ai paesi belligeranti perché “tra fratelli socialisti non ci si deve sparare addosso”. Intanto si domandano, visto il fallimento delle vie traverse al socialismo a loro così caro, che modello proporre agli operai occidentali. Il mito interclassista sui popoli all’attacco e sul terzo mondo, dentro cui la piccola borghesia internazionale sognava di poter dirigere il processo rivoluzionaria, si è infranto a Cuba, in Cile, in Portogallo ed ora anche in Vietnam dove era nato. Ovunque il proletariato ha pagato col sangue le utopie nazional-democratiche dell’antimperialismo piccolo borghese: in questi giorni in Iran si svolgono gli ultimi atti.

Dentro i “paesi e i popoli” che lottano per liberazione nazionale ci sono classi e interessi contrapposti, la famosa borghesia nazionale non regala il potere conquistato solo perché alcuni idealisti predicano la concordia tra le classi e il “socialismo col garofano” nel fucile.
Conquistata l’indipendenza dallo straniero, primo obiettivo della borghesia nazionale è diventare imperialista sfruttando in proprio la classe operaia del paese e conquistando nuovi territori. Se gli operai dei paesi occupati e aggrediti militarmente dall’imperialismo, conseguita la vittoria e la liberazione nazionale, non rivolgono le armi contro la propria borghesia alleata di ieri, il sangue versato nella lotta servirà soltanto a costruire le nuove catene.

Questo è il risultato naturale se la lotta per l’indipendenza e i suoi obiettivi vengono sottomessi al programma nazional-democratico della “lotta allo straniero” e non al programma dell’emancipazione operaia e della lotta contro lo sfruttamento capitalistico per la rivoluzione comunista.
Non guerre tra comunisti dunque, ma ancora e solo una ennesima guerra di rapina imperialista: i borghesi dunque non hanno da rallegrarsi troppo. I paesi del “terzo mondo”, raggiunta l’indipendenza, marciano a tappe forzate nell’industrializzazione inquadrando nello sfruttamento ed educando alla lotta nuovi eserciti operai.

La sovrapproduzione attanaglia tutti i paesi capitalisti legati l’uno all’altro per il collo al cappio della più grave crisi del dopoguerra. Gli operai ne pagano direttamente le conseguenze in termini di immiserimento, disoccupazione, maggiore sfruttamento. Ovunque si incriminano i miti trentennali dello sviluppo lineare e del benessere di massa. La crisi, le sue conseguenze riconfermano in pieno l’analisi marxista del capitale e l’inevitabilità del superamento di questo modo di produzione. Gli operai dell’occidente e dell’oriente capitalistico ritornano alla ribalta del processo rivoluzionario spinti comunque, sotto gli attacchi del capitale, a difendersi, a riorganizzarsi, a definire un proprio programma.

Ora anche nei paesi dell’est diventa più difficile convincere gli operai a farsi sfruttare in nome della “patria socialista”. La crisi economica, il ricorso alla guerra e all’aggressione, l’intensificazione dello sfruttamento demistificano ulteriormente questa nuova forma in cui si presenta il capitale. Si apre l’epoca delle lotte operaie per la riconquista del potere proletario nei paesi delle prime rivoluzioni sconfitte, nei paesi socialimperialisti. L’aggressione vietnamita in Cambogia, in concerto col socialimperialismo sovietico, è un ulteriore insegnamento per gli operai di tutto il mondo.

Agli operai vietnamiti l’aggressione in Cambogia deve insegnare che nessun proletario può considerarsi libero se il proprio paese opprime altri popoli!
Questa azione di guerra chiarisce la natura del sistema che li sfrutta direttamente e pone ora il compito di rivolgere le armi della vittoria sugli USA contro la propria borghesia, aprendo una nuova fase nella lotta di classe in Vietnam.
Gli operai e i proletari della Cambogia sono chiamati dalla loro borghesia a difendere la patria, a liberarla dallo straniero. Di fatto sono la forza decisiva in grado di attuare questo obiettivo, ma essi devono definire gli obiettivi e i contenuti di questa lotta: combattere in difesa di una frazione della nascente borghesia cambogiana o cinese, o per i propri interessi rivoluzionari? Se la lunga guerra contro l’imperialismo USA o l’attuale evoluzione della borghesia vietnamita ha insegnato qualche cosa, sarà difficile usare i proletari dell’Indocina come carne da cannone nelle lotte imperialiste.

Per noi operai dell’occidente capitalistico si pone l’esigenza di una posizione internazionalista che rifiuti la logica imposta dalle diverse frazioni borghesi: schierarsi contro il Vietnam perché rappresenta la barbarie comunista, schierarsi contro la Cambogia perché aveva un regime corrotto e sanguinario, o astenersi perché entrambi sono regimi totalitari?
Noi siamo in primo luogo contro la borghesia italiana che ci sfrutta direttamente e partecipa alla rapina imperialista. Sostenere l’autodeterminazione di ogni nazione significa essere contro ogni tipo di aggressione. Qualsiasi obiettivo democratico o “socialista” esse proclamino, sono di fatto aggressioni imperialiste che caratterizzano l’attuale fase del capitalismo.

Gli operai o si liberano da soli o non si liberano, nessun paese può arrogarsi il diritto di aggredirne un altro in nome della libertà.
Siamo quindi con gli operai e i proletari russi e vietnamiti quando si organizzano e lottano per la disfatta dei propri governi imperialisti.
Siamo con gli operai e i proletari cambogiani quando, lottando contro l’aggressione, pongono come obiettivo l’abolizione del lavoro salariato e quindi la resa dei conti con la propria borghesia.
Nessuna nuova epoca si è aperta: è maturata invece la lotta tra le classi in ogni paese del mondo.

Coordinamento operai di Sesto
(Breda Fucine, Siderurgica,
Termomeccanica, Falck, Magneti M.)
Alfa Arese, Borletti
25 gennaio, 1979



Volantino 4

8 MARZO: QUALE EMANCIPAZIONE?

L’8 marzo del 1908, a New York, 129 operale della “Cotton” morivano bruciate vive dentro la fabbrica in lotta.

Lottavano per il salario e per migliori condizioni di lavoro; il padrone attuava la serrata, sbarrando tutte le uscite, cosicché nessuna poté salvarsi dall’incendio scoppiato nella fabbrica.
Il capitale chiariva così, senza equivoci, il ruolo assegnato alle operaie nella produzione e nella società e l’accoglienza riservata alla lotta di emancipazione femminile.
Da allora l’8 marzo è stato assunto come scadenza di lotta del proletariato femminile e punto di riferimento per le donne oppresse di tutti i paesi.

Oggi il capitale si presenta in una nuova veste: ha affinato i propri strumenti democratici e ha sostituito il paternalismo del “protettore’’.

Responsabile dell’oppressione femminile è ora l’innato maschilismo dell’uomo. Lo stato con le sue leggi e tutti i partiti dichiarano di combatterlo. I maschietti più intelligenti dichiarano comprensione per il problema e appoggio al movimento. Più gentilezza e qualche saltuario lavaggio dei piatti, e la coscienza è a posto.

Ma qual è la realtà che sta sotto le dichiarazioni di questo improvviso femminismo di stato?

“Il LAVORO EMANCIPA LE DONNE” (?)
Questa tesi, cara al PCI e al sindacato, viene oggi rispolverata. Nella crisi ai padroni serve manodopera flessibile e a basso costo per accentuare la concorrenza tra gli operai e contenere i salari.
Alle donne si riaprono i cancelli di fabbrica. Ma la sottomissione allo sfruttamento non ha mai emancipato nessuno. E’ vero il contrario: solo nella lotta per l’abolizione del lavoro salariato, e con esso del capitale, è possibile un reale processo di emancipazione. Porre “il lavoro” come massima aspirazione, dato il ricatto della disoccupazione femminile, significa giustificare l’attuale condizione delle operaie nelle fabbriche, sottomesse alle condizioni di più brutale sfruttamento, inchiodate nei punti peggiori e dequalificanti del ciclo produttivo, dove il discorso del sindacato sulla personalità suona come una tragica beffa. Certo, abbiamo da ringraziare il capitale che, suo malgrado, ingrossa le file del proletariato industriale, suo antagonista diretto, creando allo stesso tempo, dentro le masse femminili, le condizioni e l’avanguardia per il sovvertimento dell’oppressione sulle donne. Ma non si venga a raccontare che lo sfruttamento sulle operaie è un favore accordato alle donne!

“L’UGUAGLIANZA CON L’UOMO” (?)
Altro cavallo di battaglia, che ha preparato le leggi speciali sul lavoro femminile della signora Tina Anselmi: “Anche le donne hanno il diritto a lavorare in miniera e in fonderia e a fare il turno di notte come gli uomini: uguale lavoro, uguale salarlo”. Dietro l’apparente egualitarismo un nuovo cappio al collo: per le operaie, svantaggiate a livello professionale e per i legami imposti loro dalla famiglia e dalla condizione sociale complessiva, parlare di parità nel lavoro in fabbrica serve solo a giustificare un maggiore sfruttamento.

“L’UOMO E’ IL NEMICO PRINCIPALE” (?)
Qui i reggicoda del capitale sembrano, in effetti, aver ragione. Certo fra gli operai questo fenomeno è più appariscente. Basta vedere come noi stessi trattiamo le compagne all’interno della fabbrica e, ancor peggio, fuori. Il fatto che abbiamo la stessa qualifica è un’offesa personale e difficilmente una donna viene vista come compagna di lotta con uguali e maggiori interessi a combattere il nemico comune. Di fatto, grazie anche al sindacato, le donne hanno dovuto vedersela da sole con la loro condizione. Nessuna scusante, quindi, e su questi problemi, decisivi per l’unità di classe e per la nostra stessa emancipazione, è necessaria la massima chiarezza. Ma non vengano a farci la predica i padroni, i loro leccapiedi e i rappresentanti delle classi colte, maestri dell’oppressione raffinata sulle donne!

Per gli operai, al miserabile privilegio della serva in casa, si contrappone un rapporto familiare infame; all’atteggiamento sprezzante verso le compagne di lavoro, la divisione della classe. Per i padroni i vantaggi sono ben maggiori: il loro sfruttamento significa direttamente profitti, la loro subordinazione all’uomo serve alla riproduzione delle classi, la loro dequalificazione e disoccupazione significano bassi salari, la divisione della classe significa perpetuazione del proprio potere: mentre parlano di emancipazione e di uguaglianza, producono la prostituzione e la segregazione della donna nel lavoro domestico.

Solo le donne possono rovesciare la propria condizione e nessuno può regalare loro l’emancipazione; ciò vale soprattutto per le operaie, su cui si concentra l’oppressione femminile in tutta la sua globalità.

Compito degli operai coscienti è sostenere questa lotta contro il nemico comune. Contro chi vuol trasformare l’8 marzo in una festa della femminilità come grazia e gentilezza, viva l’8 marzo giornata di lotta per l’emancipazione del proletariato femminile!

8 marzo 1979
Un gruppo di operai della Breda Fucine



Volantino 5
“OLOCAUSTO”: PERCHE’ ?

Rimbalza sui principali organi di informazione il dibattito sul massacro degli ebrei ad opera del nazifascismo. Occasione contingente è uno scadente fumettone televisivo, con rilievo non sulle cause del massacro e la natura del nazifascismo, ma sul dramma umano e le vicissitudini di una famiglia di borghesotti ebrei e dei loro miti pacifisti.
Il successo è stato enorme. I benpensanti democratici hanno potuto indignarsi perché tutto è avvenuto ieri. Giornali come il “Corriere della Sera” hanno avuto un’altra occasione per rinnegare, con vibranti articoli, il proprio passato di promotori, in Italia, delle campagne antisemitiche del trentennio; i borghesi possono unirsi al coro di condanna “dall’alto dell’attuale sistema democratico” fondato sul rispetto della vita, della dignità umana e della proprietà privata che le garantisce.

Principale imputato è la bestialità insita in ogni uomo, la violenza che può scatenarsi in qualsiasi momento, mettendo l’uomo contro se stesso. Il capitale è assolto: bisogna eliminare invece l’ignoranza e l’istinto violento, che come è noto alberga nelle classi sottomesse.
I borghesi sono maestri nel rifare la storia per scaricare sui proletari i propri crimini.
Rispondere è necessario, perché le cause sono ben altre e tutt’altro che irripetibili.

Dunque, perché lo sterminio sistematico e scientifico di 6 milioni di ebrei?

Forse perché Hitler era un pazzo? Forse in Germania era al potere l’ala più retriva della borghesia?
La Germania era in realtà il paese industrialmente e finanziariamente più avanzato del mondo. La crisi economica imponeva una rapida centralizzazione dei capitali e dello stato per controbattere l’accresciuta concorrenza internazionale. La conquista di nuovi mercati diventava un’esigenza impellente per l’imperialismo mondiale e spingeva inevitabilmente alla guerra.
Il nazionalismo rappresentava quindi la bandiera attorno a cui stringere le diverse frazioni borghesi e le classi medie nella difesa dell’economia nazionale e preparare l’opinione pubblica alla guerra imminente.

Gli ebrei, anche in Germania, conservavano una propria cultura ed una propria unità come popolo a parte e con saldi legami con gli ebrei di altri paesi difficilmente disciplinabili al nazionalismo tedesco, rappresentavano una specie di stato nello stato ed un grave motivo di instabilità politica ed economica.
Infatti, detenendo una parte consistente del capitale finanziario ed usuraio, oltre che il controllo della circolazione delle merci, erano una spina nel fianco per il capitalismo industriale tedesco.

Concentrazione del capitale nazionale e ristrutturazione del credito e della circolazione si ponevano quindi come necessarie per rispondere alla crisi e, in prospettiva, ad una guerra mondiale in cui gli ebrei non avevano alcun interesse. Per questo bisognava liberarsene.
Perché, allora, i campi di sterminio? Bisogna rovesciare anche il mito della violenza fine a
sé stessa. Come utilizzare produttivamente la questione ebrea?
Nel campo di Auschwitz era scritto: “Il lavoro rende liberi”.
L’aumento della produttività si poneva come altra e decisiva esigenza per superare la grave crisi economica, contrastare la caduta del saggio di profitto e incrementare la produzione bellica. Intere fabbriche furono costruite e stipate di ebrei, che lavoravano al salario ideale per i capitalisti: pane e acqua, e nessun limite al saccheggio intensivo della forza-lavoro. Gli operai totalmente consumati ed inutilizzabili venivano poi scaricati nei forni crematori e così gli inabili al lavoro, vecchi, donne e bambini, per non mantenere pensionati e disoccupati. Il massimo della razionalizzazione capitalistica!

Queste fabbriche realizzarono i massimi profitti in tutta la Germania, riducendo al minimo il capitale variabile e le spesa sociali. Inoltre, ciò rappresentava per gli operai tedeschi un macabro ammonimento contro la ribellione allo sfruttamento od una formidabile concorrenza per la riduzione del salario al suo minimo. E infatti, per anni, nessun paese democratico si oppose all’esperimento germanico, entrando in guerra solo quando l’imperialismo tedesco mise in discussione i loro diretti interessi.

La Germania esaudiva il sogno del capitalismo internazionale: la possibilità di sottomettere ed utilizzare senza alcun limite la forza-lavoro. E nei lager non finirono solo gli ebrei, ma anche gli operai ribelli, i pericolosi bolscevichi che anche qui, alla Breda, “sabotavano” la produzione.
Ma anche gli ebrei inquadrati nelle fabbriche diventano classe operaia e i problemi della lotta di classe che si volevano scongiurare si ripresentano. Le prime rivolte armate di ebrei esplodono nei ghetti operai di Varsavia e nelle fabbriche. Se sotto la direzione pacifista e democratica degli ebrei possidenti 6 milioni di uomini avevano dovuto affrontare la morte con rassegnazione, ora gli operai ebrei, organizzati e armati, si rivoltavano come classe al capitale.

Fino all’ultimo finanzieri e bottegai cercarono di rimandare lo scontro sperando di poter salvare la vita in cambio della proprietà, offrendosi come Kapò delle fabbriche della morte. Le classi, dunque, sono anche nel popolo ebreo e oggi in Israele vedono da una parte i capitalisti, dall’altra gli operai in lotta contro i propri borghesi e contro la loro guerra.

Ci risparmino dunque gli zelanti difensori del capitale gli interessati sermoni sulla difesa della dignità umana. Chi parla oggi di salvezza dell’economia nazionale, di maggior produttività per rafforzare l’industria italiana nel mondo? Chi ha scritto sulle proprie bandiere che “il lavoro emancipa l’uomo”? Chi conduce le campagne contro lo straniero (i giapponesi che invadono “il nostro” mercato, gli arabi che rincarano il petrolio, le multinazionali straniere che soffocano la nostra economia)?
Ed ecco che Hitler non è poi tanto distante da tanti ideologhi dei nostri giorni. La sua particolarità
sta nel fatto che gli stranieri doveva combatterli anche in casa propria.

L’ATTUALE CRISI ECONOMICA STA FORGIANDO ANCHE IN ITALIA I PROMOTORI DEL NUOVO OLOCAUSTO DEL CAPITALE.
PERCHE’ I DEMOCRATICI NON ABBIANO DA INDIGNARSI FRA TRENT’ANNI, AGLI OPERAI, AI COMUNISTI, IL COMPITO DI COMBATTERLI SUBITO.

Aprile 1979
Sesto San Giovanni
Un gruppo di operai della Breda Fucine



Volantino 6

LA LOTTA DI CLASSE IN IRAN

La rivoluzione è finita, consegnate le armi e tornate a lavorare!
Questa direttiva di Khomeini agli operai, quando la rivoluzione aveva mosso solo i suoi primi passi, ne svela in pieno il suo carattere di classe: ripristinare l’ordine e la legalità borghese per riprendere il pacifico sfruttamento degli operai. Così la “grande rivoluzione islamica”, osannata da tutti i gruppi della piccola borghesia italiana come la “rivoluzione di nuovo tipo”, si conclude come era iniziata: ingloriosamente.

La borghesia lavora per ristabilire il controllo dell’esercito “epurato” sul paese, per costringere gli operai a lavorare per la salvezza dell’economia nazionale, per adeguare la macchina dello stato a questo scopo: dalla monarchia alla repubblica democratica borghese.

Né Ovest, né Est, l’Iran è il migliore
La gestione dello stato attraverso lo Scià e la sua corte era diventato un vestito troppo stretto per il capitale industriale iraniano, costretto dalla crisi a presentarsi indipendente sul mercato mondiale.
La borghesia industriale iraniana, colpita dalla crisi e preoccupata dall’esaurirsi delle risorse di petrolio, non poteva più accettare che lo Scià e la vecchia borghesia finanziaria decidessero sulle rendite del petrolio. Lo Scià andava abbattuto. Occorreva unificare le classi medie scontente e cucire le lacerazioni tra popolo e stato, acuite dal dispotismo monarchico, sotto la bandiera del nazionalismo islamico.
L’ulteriore sviluppo dell’accumulazione capitalistica era in contraddizione con le strutture politiche e militari del vecchio regime, e ne rivendicava l’adeguamento.

Il popolo unito non sarà mai vinto
Il movimento di opposizione allo Scià vedeva schierate tutte le classi, ognuna per sostenere i propri interessi e imporre la sua direzione a tutte le altre. La borghesia industriale lottava per svincolarsi da ogni legame feudale e poter disporre delle rendite del petrolio. Le classi medie, urbane e agricole, perché colpite dalle misure dello Scià (taglio della spesa pubblica, concorrenza dei prodotti agricoli stranieri). I religiosi perché privati dallo Scià delle “decime” (diritto a 1/4 delle terre coltivabili, 1/5 dei prodotti agricoli, 1/10 di tutti i profitti). Il Corano diventava così l’anima ideologica della rivoluzione, il tramite - secondo l’autonomia operaia - del più originale comunismo.

Ma gli operai non sono scesi in campo per amore della religione
Salari da fame, il 50% di aumento degli affitti e dei generi alimentari, 31% di inflazione annua. Sfruttati nelle fabbriche, schiacciati nei gradini più bassi della società, ovunque c’era la possibilità anche minima di aprire la strada alla propria emancipazione, gli operai iraniani hanno saputo impegnarsi nella battaglia. Senza una propria organizzazione hanno partecipato in massa agli scioperi e alle manifestazioni, schierandosi in prima fila e pagando il più alto prezzo di sangue. Una massa minacciosa che, una volta messa in movimento, non è stato facile fermare e che Khomeini ha sempre temuto come cento volte più pericolosa dello Scià.

Questa la forza decisiva che ha costretto la stessa borghesia iraniana allo scontro diretto
nelle strade, impedendo l’aborto della stessa rivoluzione borghese.
Con la requisizione delle armi e la ricostituzione dell’esercito gli operai scoprono di aver combattuto per il capitale e la sua forma ideale di funzionamento per lo sfruttamento operaio: la repubblica democratica. Ma hanno anche creato le condizioni più ideali alla nuova fase della lotta di classe tra lavoro salariato e capitale. I compagni di strada di ieri diventano i più chiari e irriducibili nemici di oggi. Il grande popolo iraniano si scompone oggi nelle grandi classi in lotta.

Agli operai il compito di un bilancio della rivoluzione iraniana
Se gli operai, in ogni lotta, non sanno difendere i loro interessi indipendenti, se non sanno imporre il loro programma, non potranno che servire le altre classi nel raggiungere i loro obbiettivi.
Gli operai in Iran hanno dimostrato di essere gli elementi più decisivi e radicali nella lotta contro lo Scià, ora devono utilizzare questa capacità nella rivoluzione per i loro interessi. Lo scontro in Iran, come in tutto il mondo, si sfronda di ogni forma arretrata. La nuova fase della lotta rivoluzionaria inizia oggi. Con Khomeini e Bazargan, non è più da attaccare solo la nuova forma di governo. Gli operai hanno da vedersela non contro una forma di potere dei padroni, ma contro il loro potere: 100.000 uomini organizzati da Khomeini, più il vecchio esercito dello Scià, più tutto l’apparato politico-militare dello stato.

Contro queste forze gli operai non possono che “accettare” di tornare al lavoro. Frange di piccola borghesia e aristocrazia operaia - dopo aver appoggiato, senza discriminarsi minimamente in nome della tattica, il programma islamico - ora si appellano agli operai e tentano l’opposizione a Khomeini per ottenere posti di governo. Gli operai, senza un loro partito indipendente, non sono niente e contano pochissimo sulla scena politica. Su questa base si pone in Iran l’esigenza del partito rivoluzionario degli operai.

Febbraio 1979
Coordinamento di operai di Sesto
(Breda Fucine, Siderurgica, Termomeccanica,
Falck, Magneti Marelli, Alfa Arese, Borletti)




Volantino 7

LA FRANCIA PREPARA TRUPPE SCELTE D‘INTERVENTO

Dopo l’annuncio del governo USA la Francia si affretta a dichiarare di avere organizzato un proprio “contingente militare per l’azione esterna destinato ad intervenire nei campi petroliferi”. Si tratta di una minaccia aperta verso i paesi arabi riuniti a Ginevra per decidere la politica di salvaguardia delle proprie risorse contro il saccheggio e le speculazioni tariffarie delle Compagnie occidentali. Ma è anche un avvertimento reciproco tra paesi capitalistici
contro eventuali iniziative dei concorrenti nella spartizione del bottino.

Ancora una volta, con l’aggravarsi della crisi economica, il mito della regolamentazione dei prezzi e degli scambi basati su domanda e offerta si trasforma nella legge del più forte; il libero mercato viene regolato con la persuasione delle armi; la strada alla penetrazione delle merci viene spianata dagli eserciti di aggressione.
E’ chiaro, finora si tratta solo di tracotanti dichiarazioni, infatti i paesi capitalisti non hanno certo bisogno di preparare ora le “truppe per l’azione esterna”. Un’economia basata sul profitto, che deve garantire il furto quotidiano di plusvalore agli operai del proprio paese e di quelli stranieri, si basa necessariamente sulla forza di eserciti addestrati e sempre pronti ai confini interni e internazionali.

CHE OGGI L’IMPERIALISMO DICHIARI APERTAMENTE QUESTA SUA INTIMA NATURA DIMOSTRA SOLO, CON GRAVITA’ ESTREMA, IL PRECIPITARE DELLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE. AGLI ACCORDI E AI PACIFICI TRATTATI COMMERCIALI SI SOSTITUISCE IL RICATTO E LA MINACCIA DI AGGRESSIONE.

Giscard D’Estaing: “In caso fosse minacciata la sopravvivenza dei consumatori essi sarebbero portati a reazioni proporzionate a questo pericolo”. Gli fa eco Schmidt: “Il problema petrolio oggi rappresenta una causa possibile di conflitti”.

La questione dell’accaparramento delle materie prime è un continuo assillo per i paesi imperialisti. Ma al fondo resta il problema del saggio di profitto che cala e della attuale crisi di sovrapproduzione; col petrolio si cerca di giustificare la guerra per la ripartizione dei mercati. Infatti non è in corso alcun embargo petrolifero da parte dei paesi arabi ma solo un tentativo di salvaguardarsi dall’esaurimento; il prezzo è aumentato meno di quanto non lo siano i manufatti industriali e le materie prime dei paesi occidentali e, in ogni caso, ogni paese deve poter disporre incondizionatamente delle proprie risorse. Ma è forse l’esaurimento delle risorse a determinare lo scontro sul petrolio? Al contrario, le grandi potenze assoggettano, con il monopolio della tecnologia e dei profitti industriali, i paesi del terzo mondo. Enormi risorse idriche, giacimenti di carbone, uranio, energia solare ecc. sono a completa disposizione dei paesi imperialisti. Ma richiedono investimenti di capitale che non realizzano immediati profitti e i capitalisti investono solo per trarre il massimo profitto. E’ molto più conveniente saccheggiare a piene mani, sino al completo esaurimento, il petrolio arabo.

LA LEGGE DEL PROFITTO DUNQUE, E NON L’ESAURIMENTO DELLE RISORSE, STA SPINGENDO GLI SFRUTTATORI INTERNAZIONALI VERSO UNA TERZA GUERRA MONDIALE.

E in Italia? Agnelli invoca misure protezioniste contro il Giappone e impone agli operai di lavorare di più per essere competitivi. Tutti i partiti borghesi e il sindacato da essi controllato, sono schierati in difesa dell’economia nazionale e ci chiedono sacrifici per salvare la patria capitalista.

NOI OPERAI NON ABBIAMO NIENTE DA SPARTIRE CON L’ESIGENZA DI GUERRA DEI NOSTRI PADRONI, I NOSTRI INTERESSI CI SPINGONO A FIANCO, E NON CONTRO, GLI OPERAI DI TUTTI I PAESI.

ORGANIZZIAMOCI CONTRO IL CAPITALE CHE PREPARA IL NUOVO MASSACRO TRA SFRUTTATI.

Giugno 1979
Gruppo Operaio Breda Fucine



Volantino 8

INTERVENTO RUSSO IN AFGHANISTAN

Con la forza di persuasione dei suoi carri armati l’URSS dimostra agli operai dell’Afganistan e di tutto il mondo la vera natura del capitalismo di stato. 100000 uomini guidano l’efficiente macchina bellica dell’imperialismo sovietico spianando di cadaveri la strada verso le rotte del petrolio.
Su fronti contrapposti, ma con uguali obbiettivi le potenze occidentali si mobilitano freneticamente per non farsi precedere nella spartizione del bottino.

Gli USA già impegnati nella preparazione dell’intervento in Iran minacciano la rappresaglia armata e adottano le sanzioni economiche invitando gli alleati tradizionali all’embargo generale contro l’URSS.
Gli imperialisti europei e giapponesi e con essi l’Italia, mentre condannano l’iniziativa sovietica, cercano di sfruttare la situazione per incrementare gli affari acquisendo le quote di mercato lasciate libere dagli USA. Ma non si tratta di neutralismo. Da tempo gli imperialisti di casa nostra sono mobilitati in proprio contro “l’imperialismo degli sceicchi” e preparano l’opinione pubblica all’eventualità dell’intervento militare sui pozzi petroliferi per riaffermare
il diritto delle potenze industriali a stabilire il prezzo secondo le proprie esigenze di profitto nell’attuale crisi.

L’aggressione è quindi condannata solo perché viene realizzata da un diretto concorrente, ma è la legge del profitto che spinge tutti i paesi capitalisti a rispondere con la guerra al precipitare della crisi economica. Gli appelli alla pace e alla distensione servono solo a coprire il rapido precipitare della situazione e a mobilitare gli operai per condurli impreparati verso il nuovo macello mondiale.
In Italia il PCI si fa principale portavoce tra gli operai di questa campagna pacifista mistificando le reali cause della guerra e proponendo di evitarla con gli appelli morali alla “cooperazione” e al “disarmo”, mentre tutti si armano e già si sparano contro. Mentre predica la pace agli operai sostiene nei fatti le ragioni economiche che spingono irreversibilmente alla guerra. Chiama “socialismo reale” il capitalismo di stato in URSS, critica come tentativo di “esportare la rivoluzione” ciò che è invece l’esigenza di sovrapprofitti del socialimperialismo sovietico.

Chiama gli operai italiani ai sacrifici per risolvere la crisi, per rendere più competitivo l’imperialismo italiano, le sue merci, i suoi capitali, nella guerra commerciale che precede e prepara la guerra armata per la spartizione dei mercati.
E’ proprio la crisi capitalistica, l’esigenza di contrastare la caduta dei saggi di profitto con un maggiore sfruttamento degli operai all’interno e di sovrapprofitti estorti agli operai di altri paesi, che spinge tutti i paesi capitalistici alla guerra.
Non basta sfruttare più intensamente e immiserire ai limiti della sussistenza i propri operai.
In Russia come negli Usa e in Italia per battere la concorrenza straniera è necessario disporre di materie prime a basso prezzo, strappare nuovi mercati ai concorrenti, dirottare verso l’esterno, contro lo straniero, i crescenti contrasti di classe tra borghesi e operai in ogni paese.

OPERAI,
la propaganda borghese deve nascondere il legame stretto tra competitività delle merci e spartizione dei mercati, tra sfruttamento degli operai e guerra imperialista.

Solo organizzandoci per eliminare lo sfruttamento, solo con la lotta rivoluzionaria degli operai contro i padroni del proprio paese si potrà evitare il nuovo massacro mondiale. Gli appelli a fermare la mano dell’ “orso bruno” o americano o di qualsiasi altro paese straniero è soltanto un incitamento di guerra contro gli operai di altri paesi. Solo l’apertura di un fronte interno tra operai e borghesi in Russia come in USA come in Italia può segnare la fine dell’imperialismo e delle guerre.
L’organizzazione degli operai per la lotta generale contro il capitale è oggi il compito principale e irrimandabile di ogni operaio cosciente.

SOLIDARIETA’ RIVOLUZIONARIA TRA GLI OPERAI DI TUTTO IL MONDO CONTRO I PROPRI PADRONI!

Gennaio 1980
Gruppi operai dell’Alfa Arese, Breda Fucine, Borletti,
Falck Unione, Ivisc, Fiat Rivalta, Italsider Genova




Volantino 9

I padroni ci hanno tolto anche il 1° maggio
L’UNITA’ INTERNAZIONALE DEGLI OPERAI PRENDE UN’ALTRA STRADA

Nata come giornata internazionale di lotta contro i padroni, il 1° maggio è stato trasformato nella celebrazione e santificazione del “lavoro”, giornata di pacificazione tra sfruttati e sfruttatori. Sui palchi tricolorati, gli ex partiti operai e i sindacati collaborazionisti si riempiono la bocca di “internazionalismo, emancipazione, difesa della pace”. Intanto ci chiamano ai sacrifici per difendere l’economia in crisi del capitale nazionale, a sostenere con una maggiore produttività la penetrazione dell’imperialismo italiano nei mercati esteri. Il loro “internazionalismo” è il diritto del capitale nazionale a penetrare nei paesi concorrenti. La loro “emancipazione” è l’affrancamento economico dal capitale straniero che persegue gli stessi obiettivi. La loro “pace” è la collaborazione tra operai e padroni per combattere insieme contro padroni e operai di altri paesi.

Nella crisi l’internazionalismo del capitale si frantuma con la frantumazione del mercato e si fa strada la più spietata concorrenza. Gli agenti della borghesia nelle file operaie cercano di trascinarci nella tragica competizione per la conquista dei mercati, in una guerra tra sfruttati, condotta oggi con le cannonate delle merci a più basso prezzo, che prepara però la spartizione dei mercati tramite la forza militare. Oggi milioni di disoccupati in tutto il mondo e operai a bassi salari, domani la carneficina tra operai. Così la giornata di solidarietà rivoluzionaria degli operai di tutto il mondo, la dichiarazione che i proletari non hanno patria, viene frantumata anch’essa in tante parate nazionalistiche del lavoro. La strada dell’unità internazionale degli operai può nascere solo da un suo rifiuto: il maggio rosso muove nella direzione opposta i suoi primi passi.

La crisi avanza e, mentre matura il nazionalismo che prepara la guerra, spinge nei diversi paesi alla ribellione operaia contro i piani di sfruttamento. Gli stessi capitalisti inglesi che si erano potuti assicurare decenni di relativa pace sociale, comprando i capi e corrompendo gli strati superiori degli operai grazie ai sovrapprofitti estorti al proletariato delle colonie e del mondo, devono pagare tutto il prezzo della crisi economica. Gli strati più sfruttati degli operai inglesi, su cui si fondava la forza di penetrazione dell’imperialismo britannico, oggi scuotono con le loro lotte la concorrenzialità dei propri padroni. I sindacalisti che per anni hanno potuto vantare le grandi conquiste nello sviluppo graduale del capitalismo oggi devono implorare i sacrifici per salvare la patria che affonda. Nel paese che ha insegnato il trade-unionismo al mondo la polizia è dovuta intervenire nelle assemblee per liberare i sindacalisti che si erano presentati con un contratto contenente irrisori aumenti salariali.

Gli scioperi continuano ancora in diverse fabbriche rompendo clamorosamente la centenaria disciplina del sindacalismo borghese. La normalizzazione, lontana dall’essere raggiunta, non potrà comunque cancellare questa storica rottura tra interessi operai, padroni e sindacalisti collaborazionisti.

E l’Inghilterra viene subito dopo le sommosse dei siderurgici francesi e dei minatori americani, dei tessili turchi, di quelle ancora clandestine degli operai russi. E’ questo il maggio operaio che salutiamo mentre in Italia PCI e sindacati faticano a controllare il malcontento che serpeggia nelle maggiori fabbriche.

I sacrifici imposti in questi anni chiedono già una verifica delle contropartite e delle promesse, mentre la crisi capitalistica richiede nuove e più pesanti misure antioperaie. Per questo tanta demagogia e tanto accanimento per far passare come terroristi quegli operai che denunciano la politica dei sacrifici e lottano contro lo sfruttamento dei padroni. Devono impedire agli operai di darsi un’altra organizzazione, di impostare una linea di difesa dei propri interessi di classe, di muoversi come classe internazionale.

Compagni operai, anche il 1° maggio ci è stato dunque tolto e ora viene utilizzato contro di noi. Temporaneamente siamo costretti a cederglielo.

Ma mentre ci chiamano a responsabilizzarci per salvare i nostri padroni contro la concorrenza straniera, mentre ci spingono contro gli operai di altri paesi, nella prospettiva di scannarci nella guerra che sta maturando, raccogliamo l’esempio degli operai che in Inghilterra, Francia e America lottano contro i rispettivi padroni e la loro economia nazionale.
Mentre tentano di far passare come terrorista ogni operaio che non si sottomette agli interessi dei padroni, colleghiamoci, organizziamoci per costruire il partito politico che dichiara apertamente il suo programma.

ABOLIZIONE DELLO SFRUTTAMENTO, DELLA PROPRIETA’ PRIVATA, DEL CAPITALE. RISPONDERE ALLA GUERRA IMPERIALISTA CON LA RIVOLUZIONE DELLA CLASSE PROLETARIA.

1° Maggio 1980
Coordinamento gruppi operai delle fabbriche
Breda Fucine, Falck Unione, Alfa Arese, Borletti, Ivisc