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Capitolo 9. [M. Michelino:1970-1983 - La lotta di classe nelle grandi fabbriche di Sesto San Giovanni]
INTERNAZIONALISMO E SOLIDARIETA’ DI CLASSE
Il capitalismo, fin dai suoi albori, con la colonizzazione e la
conquista di buona parte del mondo, ha causato la schiavitù e la morte di
centinaia di milioni di persone. Solo in America Latina e in Africa si calcola
che siano morti almeno 70 milioni di indigeni e che , in nome del profitto,
circa 12 milioni di schiavi africani siano stati strappati ai loro paesi nei
primi anni del secolo, mentre sono miliardi gli esseri umani che ancor oggi
l’imperialismo sacrifica.
Così, mentre aumenta la ricchezza nelle mani di una minoranza, dall’altro polo
aumenta la miseria, la disuguaglianza, la povertà, i campi non coltivati, i
contadini senza terra, gli operai senza lavoro: disoccupazione, fame, malattie,
guerre, morte.
Nel sistema capitalista molte vite, che potrebbero essere salvate, si perdono
per pochi centesimi. L’analfabetismo, la prostituzione infantile, i bambini
sfruttati e costretti a lavorare sin dalla più tenera età che chiedono
l’elemosina per poter vivere, le baraccopoli in cui vivono milioni di persone
in condizioni disumane, le discriminazioni per motivi razziali o sessuali, sono
solo una parte dello sfruttamento capitalista.
L’imperialismo impone ai popoli del mondo sottosviluppo, prestiti usurai, debiti
con interessi impossibili da pagare, scambio diseguale, speculazioni
finanziarie non produttive, corruzione generalizzata, commercio di armi,
guerre, violenza, massacri.
In questo secolo l’umanità è cresciuta di 4 volte (la popolazione ha superato i
6 miliardi) e ormai sono migliaia di milioni le persone che soffrono la fame,
la sete, la voglia di riscatto e di giustizia.
Sull’intera popolazione mondiale, quasi 3 miliardi di persone sono considerate
“forza lavoro”. Di queste il 30% (meno di 1 miliardo) è considerato
disoccupato. Dei poco più di 2 miliardi di “popolazione attiva” solo il 40% ha
un’occupazione “garantita e protetta” legalmente, mentre il restate 60% lavora
in condizioni irregolari e precarie. Esistono quindi nel mondo 3 miliardi di
persone (di cui quasi un miliardo direttamente coinvolto nel processo di
trasformazione industriale, cioè la cara e vecchia “classe operaia”) che per
vivere devono continuamente vendere la propria capacità lavorativa (dati O.I.L.
Organizzazione Internazionale del Lavoro - Ginevra).
Secondo Susan George, direttrice del Transnational Institute, oggi nel mondo ci
sono 40.000 multinazionali e le prime 100 di queste controllano direttamente i
2/3 del commercio mondiale. Gli investimenti finiscono per tre quarti nel nord
del mondo e per un quarto in una decina di paesi del sud. Ormai ad un aumento
di produttività non corrisponde più alcuna crescita dell’occupazione.
Assistiamo quotidianamente al fatto che più le imprese multinazionali
licenziano i lavoratori e più si vedono aumentare il valore delle loro azioni.
La sovrapproduzione di capitali ha raggiunto cifre pazzesche, innescando nel
sistema mondiale una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento
all’altro, di cui le ricorrenti crisi delle Borse sono solo la spia.
Nei mercati finanziari mondiali ogni giorno vengono fatti circolare 2.000
miliardi di dollari. Di questi, solo una parte infinitesimale corrisponde a
transazioni commerciali o a investimenti produttivi. Nel 1997- su 100 dollari
trattati in valuta - solo 2 dollari e mezzo avevano qualcosa da spartire con lo
scambio di beni e servizi. Oggi si producono circa 70 milioni di macchine e se
ne vendono solo 57 milioni. 20 anni fa l’80% delle masse finanziarie aveva a
che fare con l’economia reale e riguardava aspetti produttivi, oggi invece il
95% del denaro non ha nulla a che vedere con cose concrete.
Ormai questa enorme massa di denaro non produce alcun giovamento alla società,
e quando esplodono crisi come quella del Sud-Est asiatico del 1998, o quella
argentina del 2000, il Fondo Monetario Internazionale interviene non per
salvare le popolazioni affamate di quei paesi, bensì i grandi speculatori
finanziari.
Agli ordini del mercato, lo stato viene privatizzato sempre più. Le campagne
sull’inefficienza e sulla corruzione montate dai capitalisti hanno lo scopo di
rendere possibile realizzare le privatizzazioni con il consenso di una parte
dell’opinione pubblica e con l’indifferenza di un’altra parte.
Gli stati del Terzo Mondo più pagano più sono in debito, e più sono costretti
ad obbedire all’ordine di smantellare lo stato sociale, ipotecare
l’indipendenza politica e alienare l”economia nazionale.
La Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale rispondono solo agli
interessi delle multinazionali, decidono e riscuotono a Washington, sebbene gli
Stati Uniti siano il paese più indebitato del mondo.
Conoscere, far conoscere e combattere le leggi che regolano il sistema di
sfruttamento capitalista che, in nome del profitto, impongono miseria, guerra,
fame e morte, è il primo dovere di ogni proletario cosciente.
Ormai l’imperialismo ed il sistema capitalista, per i proletari e i popoli del
mondo, è diventato sinonimo di distruzione e di barbarie, che continuano a
perpetuarsi attraverso le violenze e le guerre.
In questo contesto le lotte antimperialiste, di liberazione nazionale degli
anni ’70, e in particolare la rivoluzione iraniana, l’invasione russa
dell’Afganistan, l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam, lo scontro
armato fra i comunisti cinesi e quelli vietnamiti, fecero nascere molti
interrogativi e discussioni fra i lavoratori.
Qual’è l’interesse del proletariato mondiale? Perché le contraddizioni tra
compagni, “in seno al popolo” per usare una famosa frase di Mao, si trasformano
in antagoniste? E ancora, quale posizioni deve assumere, in questi conflitti,
il proletariato italiano?
A questi interrogativi il Coordinamento Operaio delle varie fabbriche cercò di
dare risposte. A volte in modo unitario, altre volte con forti contrasti
interni, ma prendendo sempre una posizione.
Intanto, mentre nel mondo accadevano i fatti sopra ricordati, in Italia il
dibattito di alcune frange di “sovversivi” si incentrava sull’ “operaio
sociale” e sulla critica all’operaio industriale ormai “integrato”.
Nella “democratica” America, i fucili della guardia nazionale costringevano i
minatori a interrompere lo sciopero facendoli tornare al lavoro e a Tunisi il
governo faceva sparare sugli operai tessili in lotta, seminando morte e
terrore. La centralità operaia tornava così
prepotentemente in primo
piano.
Ripristinare il punto di vista proletario - riconoscendosi come
appartenenti ad un’unica classe (contro ogni ideologia nazionalista) a livello
mondiale - è la battaglia che si svolge in fabbrica e nel movimento.
È’ significativo vedere come spesso i volantini della Breda Fucine siano
firmati “Un gruppo di operai della Breda Fucine”: questo era dovuto al fatto
che su scadenze specifiche si facevano riunioni aperte a tutti i lavoratori e
il volantino o la presa di posizione erano il frutto del dibattito tra tutti i
partecipanti e andavano oltre il “Gruppo Operaio”.
Volantino 1
SOLIDARIETA’ CON I MINATORI AMERICANI IN
SCIOPERO DA OLTRE 100 GIORNI PER GLI INTERESSI DI CLASSE
Rifiutato l’accordo governo-sindacati, 160 mila minatori continuano
lo sciopero per forti aumenti salariali, per le norme di sicurezza, per i
diritti previdenziali.
COSA INSEGNANO GLI OPERAI AMERICANI AL PROLETARIATO INTERNAZIONALE?
I limiti alle rivendicazioni operaie che governo e sindacati impongono in nome
della crisi possono essere infranti. Quando gli accordi sanciscono
l’immiserimento degli operai in nome della possibilità della ripresa dei
profitti, vanno respinti.
I minatori insegnano così che i loro interessi non si stabiliscono sulla base
della “compatibilità”, ma sulla base delle loro reali condizioni di lavoro e di
vita. Su queste basi la lotta può essere diretta dagli operai anche senza e
contro i sindacati filo-padronali.
Le lotte operaie smascherano la democrazia borghese e mostrano la dittatura del
capitale sul lavoro salariato.
Carter, vista fallire la manovra del sindacato, convoca d’urgenza il governo,
vengono riattivate le leggi antisciopero. La “libera America”, tramite una
legge di stato, ordina la ripresa del lavoro. Denunce e ricatti vengono usati
per costringere i minatori a riprendere il lavoro, mentre la guardia nazionale
presidia militarmente la zona.
I padroni, terrorizzati dal rischio che l’esempio si generalizzi ad altre
categorie, premono per la repressione violenta.
Nei periodi di espansione potevano anche permettere che le lotte salariali e
normative riportassero il salario al livello del valore della forza lavoro e
vantare la loro democrazia.
Ma nella crisi ogni lotta diventa un intoppo per la ripresa dei profitti e
scatena reazioni violente.
Il metodo di imporre la ripresa del lavoro tramite esercito e magistratura è la
strada della borghesia a uno stadio in cui il sindacato non riesce più a
reprimere e controllare le lotte.
Gli esempi ci sono anche in Italia, come si è visto nei confronti dei
ferrovieri e degli ospedalieri.
Dietro la facciata democratica si mostra la dittatura borghese.
Dopo i massacri di operai in lotta in Ecuador, Tunisia, Guatemala, ora nella
patria della democrazia borghese la macchina repressiva dello stato scende in
campo per garantire nuovi livelli di sfruttamento.
Dal terzo mondo alle metropoli imperialiste è il moderno proletariato
industriale la classe più conseguente nella lotta contro il capitale.
Dieci anni di contestazione giovanile e studentesca non hanno intaccato la
facciata rispettabile e opulenta della “grande America”.
Tre mesi di sciopero per gli interessi operai fanno traballare dalle fondamenta
il maggior paese imperialista.
I teorici dell’integrazione operaia, dei nuovi strati emergenti, degli
emarginati come nuovi soggetti rivoluzionari devono inventare qualcos’altro.
I popoli del mondo si scindono in borghesi e proletari, i giovani invecchiano
ed evidenziano la loro appartenenza alle diverse classi, le scuole possono stare
chiuse per mesi e “democratizzarsi”, ma l’estorsione di plusvalore dagli operai
non può essere interrotta.
In una società fondata sul profitto le fabbriche devono produrre e gli operai
devono essere sfruttati: gli operai sono gli emarginati storici dell’epoca
imperialista.
Gli operai conquistano alleati ponendo i propri interessi di classe e
dimostrandosi i più coerenti nemici del capitale.
Tutto è stato usato per isolare i minatori, accusati di corporativismo, di
spirito antinazionale, di porre richieste assurde data la situazione economica,
mentre bisogna pensare ai disoccupati; ai giovani, ecc.
Con tutto ciò, attorno ai minatori si sono schierati gli strati colpiti dal
capitale. La solidarietà di classe, l’internazionalismo proletario si
dimostrano in primo luogo lottando contro la propria borghesia.
Come in Italia, anche in America il sindacato cerca di riversare la colpa della
crisi sugli altri paesi e chiede alla classe operaia di collaborare per
potenziare la competitività della propria borghesia nel mercato mondiale.
Il capo del maggiore sindacato ha dichiarato: “per il movimento sindacale
americano il protezionismo non è più una parolaccia ... basta col libero
scambio.”
Il nazionalismo è ormai diventato la bandiera dei sindacati per coinvolgere gli
operai nelle mire espansioniste e guerrafondaie dell’imperialismo.
Gli operai americani, rivendicando i propri interessi contro quelli della
propria borghesia hanno dato un esempio di internazionalismo proletario.
Il peggiore nemico dell’imperialismo USA sono i 36 milioni di operai americani.
Compagni, nessuna illusione sull’esito della lotta dei minatori.
Senza partito, senza un movimento politico indipendente nessuna lotta
proletaria si può trasformare in lotta rivoluzionaria per il potere.
Ora i vecchi cultori della spontaneità operaia, dopo essere corsi dietro
all’operaio sociale daranno nuovamente fiato alle trombette.
Solidarietà con gli operai americani significa per noi prima di tutto
riprendere la lotta per i nostri interessi di classe contro il patto padroni
sindacato.
Per il proletariato internazionale si evidenzia invece la possibilità e
l’esigenza di organizzare il suo partito indipendente.
Coordinamento operaio delle fabbriche
Breda Fucine, Siderurgica, Termomeccanica,
Magneti Marelli, Falck Unione
Marzo 1978
Volantino 2
100 operai assassinati a Tunisi
100 operai assassinati a Tunisi durante uno sciopero: protestavano
contro l’aumento dei prezzi e rivendicavano aumenti salariali “assurdi perché
contrari alla politica di austerità”.
COSI’ NEI PAESI CAPITALISTI PIU’ DEBOLI VIENE RISTABILITA LA COMPETITIVITA’
INTERNAZIONALE PER REGGERE IL PASSO NEL MERCATO MONDIALE.
Dopo la strage di operai in Ecuador, i compagni assassinati a Tunisi dimostrano
ancora una volta che quando non basta più il “patto sociale” il capitalismo non
esita a ristabilire col piombo la “disciplina del lavoro”. Solo un anno fa in
Tunisia era stato imposto da governo e sindacato il famigerato patto sociale,
che congelava per 5 anni i salari.
Questa, per il partito socialista che controlla il governo e il sindacato, la
condizione per salvare l’economia nazionale e rendere competitivo il
capitalismo tunisino.
Ma la tregua sociale saltava dopo alcuni mesi e il malcontento per il forte
aumento dei prezzi, l’intensificazione dello sfruttamento operaio, l’aumento
della disoccupazione sfociava in scioperi e manifestazioni di piazza.
E’ a questo punto che la frazione “di sinistra” del partito governativo decide
di cavalcare un movimento che non riusciva più a contenere, per ottenere -
grazie alla lotta operaia - un rimpasto di governo in cui inserirsi in
posizione di preminenza. Ora i sindacati fanno marcia indietro su tutto il
fronte; revocato lo sciopero, si lamentano perché il governo “ha usato
provvedimenti violenti per reprimere lo sciopero”.
Compagni
OGGI SONO LE BORGHESIE DEI PAESI EMERGENTI A TRACCIARE COL SANGUE
L’INCONCILIABILITA’ DI INTERESSI TRA CAPITALE E LAVORO SALARIATO.
I capitalisti italiani hanno la possibilità di raggiungere gli stessi risultati
usando il sindacato per “imporre nuovi sacrifici”. Ma cosa succederà quando non
sarà più possibile rinviare i nostri interessi?
La crisi investe tutti i paesi capitalistici. Accettare i sacrifici per
sostenere gli interessi della propria borghesia non porta ad uscire dalla
crisi, ma pone gli uni contro gli altri gli operai di ogni paese, che pagano
direttamente i disegni di espansione del proprio imperialismo.
NO AI SACRIFICI, NO AL PATTO SOCIALE ONORIAMO I COMPAGNI CADUTI IN DIFESA DEGLI
INTERESSI PROLETARI
Gennaio 1979
Gruppo Operaio Breda Fucine
Volantino 3
GUERRA IN INDOCINA E INTERNAZIONALISMO
PROLETARIO
La frazione filosovietica della borghesia cambogiana, con l’appoggio
decisivo delle divisioni vietnamite, ha conquistato con una guerra-lampo la
capitale e la quasi totalità del territorio cambogiano. Ora è impegnata a
soffocare ogni focolaio.
Gli operai e i piccoli contadini del Vietnam, che avevano lottato
vittoriosamente contro l’imperialismo USA, vengono chiamati dai propri borghesi
a massacrare gli operai e i contadini cambogiani. Obiettivo l’espansione
imperialista nel sud-est asiatico in concerto con l’URSS per controllare
militarmente e sfruttare economicamente questa importante area. Sull’altro
fronte, gli operai e i piccoli contadini della Cambogia vengono chiamati a
lottare contro l’aggressione, non certo in difesa degli interessi di classe ma
in nome della “patria”.
La Cina, nuova potenza in ascesa, si schiera con la nazione cambogiana non per
internazionalismo proletario: il processo di accumulazione capitalista che è
sancita a livello sociale dalla conquista del potere da parte di Hua Guofeng e
Deng Xiaoping - quali rappresentanti della nuova borghesia cinese - ha bisogno
di questo strategico punto d’appoggio contro la espansione URSS.
La borghesia liberale dell’Occidente definisce quest’aggressione come il grande
avvenimento dell’epoca moderna: “ecco la prima guerra tra comunisti”, dicono,
“Lenin dunque si sbagliava distinguendo tra guerra rivoluzionaria e di
liberazione da una parte, d’aggressione o imperialista dall’altra. Il comunismo
come bandiera della emancipazione operaia è finito. E’ aggressivo e
imperialista più del capitalismo stesso“.
Questo il senso della propaganda borghese e tutte le apparenze sembrano
confermare queste tesi: basta far passare per “comunisti” paesi dove il
capitalismo di stato ha già sconfitto il potere proletario, per “socialisti”
paesi dove tramite la lotta di liberazione la borghesia nazionale è riuscita ad
andare al potere, ed il gioco è fatto. Non resta che addossare al comunismo, al
marxismo, i crimini che quelle borghesie commettono.
Il marxismo conferma la propria validità: non c’è accumulazione capitalistica
senza sfruttamento degli operai, sottomissione dei popoli, aggressione armata.
Per quanto il capitale si presenti nella sua forma più avanzata, quella di
“capitalismo di stato”, e si faccia chiamare comunismo, esso non può che
marciare sul massacro degli operai in ogni parte del mondo.
Non si giudica un sistema per ciò che dice di essere, ma per ciò che è nella
realtà. In Russia come nel Vietnam, in Cambogia come in Cina il regime del
lavoro salariato, dello sfruttamento degli operai traspare al di là delle forme
di cui si ammanta nazionalmente.
Certo è comodo per i borghesi di casa nostra “credere” in queste forme. Possono
così, a livello teorico, esorcizzare il fantasma del marxismo perché gli operai
ne restino lontani, e, a livello politico, mettere in guardia l’opinione
pubblica sul pericolo del potere esclusivo del comunismo nostrano, il PCI,
presentandone le “mire totalizzanti”.
Il PCI deve ingoiare il rospo per tenere in piedi l’equivoco. Il più grande
partito revisionista dell’occidente non può certo ammettere l’esistenza di
paesi e partiti che, pur definendosi comunisti, sono a tutti gli effetti borghesi.
Così non può che lamentare le dolorose lacerazioni tra “paesi fratelli” e, per
rassicurare l’opinione pubblica, prendere le distanze dai modelli dell’est.
L’obiettivo del PCI, assicura esso, non è il potere esclusivo, ma la gestione
pluralistica dello sfruttamento operaio in una economia mista: un po’ liberale,
un po’ a partecipazione statale.
I gruppi della piccola borghesia piangono come sempre sui cadaveri delle loro
utopie e lanciano accorati appelli ai paesi belligeranti perché “tra fratelli socialisti
non ci si deve sparare addosso”. Intanto si domandano, visto il fallimento
delle vie traverse al socialismo a loro così caro, che modello proporre agli
operai occidentali. Il mito interclassista sui popoli all’attacco e sul terzo
mondo, dentro cui la piccola borghesia internazionale sognava di poter dirigere
il processo rivoluzionaria, si è infranto a Cuba, in Cile, in Portogallo ed ora
anche in Vietnam dove era nato. Ovunque il proletariato ha pagato col sangue le
utopie nazional-democratiche dell’antimperialismo piccolo borghese: in questi
giorni in Iran si svolgono gli ultimi atti.
Dentro i “paesi e i popoli” che lottano per liberazione nazionale ci sono
classi e interessi contrapposti, la famosa borghesia nazionale non regala il
potere conquistato solo perché alcuni idealisti predicano la concordia tra le
classi e il “socialismo col garofano” nel fucile.
Conquistata l’indipendenza dallo straniero, primo obiettivo della borghesia
nazionale è diventare imperialista sfruttando in proprio la classe operaia del
paese e conquistando nuovi territori. Se gli operai dei paesi occupati e
aggrediti militarmente dall’imperialismo, conseguita la vittoria e la
liberazione nazionale, non rivolgono le armi contro la propria borghesia
alleata di ieri, il sangue versato nella lotta servirà soltanto a costruire le
nuove catene.
Questo è il risultato naturale se la lotta per l’indipendenza e i suoi
obiettivi vengono sottomessi al programma nazional-democratico della “lotta
allo straniero” e non al programma dell’emancipazione operaia e della lotta
contro lo sfruttamento capitalistico per la rivoluzione comunista.
Non guerre tra comunisti dunque, ma ancora e solo una ennesima guerra di rapina
imperialista: i borghesi dunque non hanno da rallegrarsi troppo. I paesi del
“terzo mondo”, raggiunta l’indipendenza, marciano a tappe forzate
nell’industrializzazione inquadrando nello sfruttamento ed educando alla lotta
nuovi eserciti operai.
La sovrapproduzione attanaglia tutti i paesi capitalisti legati l’uno all’altro
per il collo al cappio della più grave crisi del dopoguerra. Gli operai ne
pagano direttamente le conseguenze in termini di immiserimento, disoccupazione,
maggiore sfruttamento. Ovunque si incriminano i miti trentennali dello sviluppo
lineare e del benessere di massa. La crisi, le sue conseguenze riconfermano in
pieno l’analisi marxista del capitale e l’inevitabilità del superamento di
questo modo di produzione. Gli operai dell’occidente e dell’oriente
capitalistico ritornano alla ribalta del processo rivoluzionario spinti
comunque, sotto gli attacchi del capitale, a difendersi, a riorganizzarsi, a
definire un proprio programma.
Ora anche nei paesi dell’est diventa più difficile convincere gli operai a
farsi sfruttare in nome della “patria socialista”. La crisi economica, il
ricorso alla guerra e all’aggressione, l’intensificazione dello sfruttamento
demistificano ulteriormente questa nuova forma in cui si presenta il capitale.
Si apre l’epoca delle lotte operaie per la riconquista del potere proletario
nei paesi delle prime rivoluzioni sconfitte, nei paesi socialimperialisti.
L’aggressione vietnamita in Cambogia, in concerto col socialimperialismo
sovietico, è un ulteriore insegnamento per gli operai di tutto il mondo.
Agli operai vietnamiti l’aggressione in Cambogia deve insegnare che nessun
proletario può considerarsi libero se il proprio paese opprime altri popoli!
Questa azione di guerra chiarisce la natura del sistema che li sfrutta
direttamente e pone ora il compito di rivolgere le armi della vittoria sugli
USA contro la propria borghesia, aprendo una nuova fase nella lotta di classe
in Vietnam.
Gli operai e i proletari della Cambogia sono chiamati dalla loro borghesia a
difendere la patria, a liberarla dallo straniero. Di fatto sono la forza
decisiva in grado di attuare questo obiettivo, ma essi devono definire gli
obiettivi e i contenuti di questa lotta: combattere in difesa di una frazione
della nascente borghesia cambogiana o cinese, o per i propri interessi
rivoluzionari? Se la lunga guerra contro l’imperialismo USA o l’attuale
evoluzione della borghesia vietnamita ha insegnato qualche cosa, sarà difficile
usare i proletari dell’Indocina come carne da cannone nelle lotte imperialiste.
Per noi operai dell’occidente capitalistico si pone l’esigenza di una posizione
internazionalista che rifiuti la logica imposta dalle diverse frazioni
borghesi: schierarsi contro il Vietnam perché rappresenta la barbarie
comunista, schierarsi contro la Cambogia perché aveva un regime corrotto e
sanguinario, o astenersi perché entrambi sono regimi totalitari?
Noi siamo in primo luogo contro la borghesia italiana che ci sfrutta
direttamente e partecipa alla rapina imperialista. Sostenere
l’autodeterminazione di ogni nazione significa essere contro ogni tipo di
aggressione. Qualsiasi obiettivo democratico o “socialista” esse proclamino,
sono di fatto aggressioni imperialiste che caratterizzano l’attuale fase del
capitalismo.
Gli operai o si liberano da soli o non si liberano, nessun paese può arrogarsi
il diritto di aggredirne un altro in nome della libertà.
Siamo quindi con gli operai e i proletari russi e vietnamiti quando si
organizzano e lottano per la disfatta dei propri governi imperialisti.
Siamo con gli operai e i proletari cambogiani quando, lottando contro
l’aggressione, pongono come obiettivo l’abolizione del lavoro salariato e
quindi la resa dei conti con la propria borghesia.
Nessuna nuova epoca si è aperta: è maturata invece la lotta tra le classi in
ogni paese del mondo.
Coordinamento operai di Sesto
(Breda Fucine, Siderurgica,
Termomeccanica, Falck, Magneti M.)
Alfa Arese, Borletti
25 gennaio, 1979
Volantino 4
8 MARZO: QUALE EMANCIPAZIONE?
L’8 marzo del 1908, a New York, 129 operale della “Cotton” morivano bruciate
vive dentro la fabbrica in lotta.
Lottavano per il salario e per migliori condizioni di lavoro; il
padrone attuava la serrata, sbarrando tutte le uscite, cosicché nessuna poté
salvarsi dall’incendio scoppiato nella fabbrica.
Il capitale chiariva così, senza equivoci, il ruolo assegnato alle operaie
nella produzione e nella società e l’accoglienza riservata alla lotta di
emancipazione femminile.
Da allora l’8 marzo è stato assunto come scadenza di lotta del proletariato
femminile e punto di riferimento per le donne oppresse di tutti i paesi.
Oggi il capitale si presenta in una nuova veste: ha affinato i propri strumenti
democratici e ha sostituito il paternalismo del “protettore’’.
Responsabile dell’oppressione femminile è ora l’innato maschilismo dell’uomo.
Lo stato con le sue leggi e tutti i partiti dichiarano di combatterlo. I
maschietti più intelligenti dichiarano comprensione per il problema e appoggio
al movimento. Più gentilezza e qualche saltuario lavaggio dei piatti, e la
coscienza è a posto.
Ma qual è la realtà che sta sotto le dichiarazioni di questo improvviso
femminismo di stato?
“Il LAVORO EMANCIPA LE DONNE” (?)
Questa tesi, cara al PCI e al sindacato, viene oggi rispolverata. Nella crisi
ai padroni serve manodopera flessibile e a basso costo per accentuare la
concorrenza tra gli operai e contenere i salari.
Alle donne si riaprono i cancelli di fabbrica. Ma la sottomissione allo
sfruttamento non ha mai emancipato nessuno. E’ vero il contrario: solo nella
lotta per l’abolizione del lavoro salariato, e con esso del capitale, è
possibile un reale processo di emancipazione. Porre “il lavoro” come massima
aspirazione, dato il ricatto della disoccupazione femminile, significa
giustificare l’attuale condizione delle operaie nelle fabbriche, sottomesse
alle condizioni di più brutale sfruttamento, inchiodate nei punti peggiori e
dequalificanti del ciclo produttivo, dove il discorso del sindacato sulla
personalità suona come una tragica beffa. Certo, abbiamo da ringraziare il
capitale che, suo malgrado, ingrossa le file del proletariato industriale, suo
antagonista diretto, creando allo stesso tempo, dentro le masse femminili, le
condizioni e l’avanguardia per il sovvertimento dell’oppressione sulle donne.
Ma non si venga a raccontare che lo sfruttamento sulle operaie è un favore
accordato alle donne!
“L’UGUAGLIANZA CON L’UOMO” (?)
Altro cavallo di battaglia, che ha preparato le leggi speciali sul lavoro
femminile della signora Tina Anselmi: “Anche le donne hanno il diritto a
lavorare in miniera e in fonderia e a fare il turno di notte come gli uomini:
uguale lavoro, uguale salarlo”. Dietro l’apparente egualitarismo un nuovo
cappio al collo: per le operaie, svantaggiate a livello professionale e per i
legami imposti loro dalla famiglia e dalla condizione sociale complessiva,
parlare di parità nel lavoro in fabbrica serve solo a giustificare un maggiore
sfruttamento.
“L’UOMO E’ IL NEMICO PRINCIPALE” (?)
Qui i reggicoda del capitale sembrano, in effetti, aver ragione. Certo fra gli
operai questo fenomeno è più appariscente. Basta vedere come noi stessi
trattiamo le compagne all’interno della fabbrica e, ancor peggio, fuori. Il
fatto che abbiamo la stessa qualifica è un’offesa personale e difficilmente una
donna viene vista come compagna di lotta con uguali e maggiori interessi a
combattere il nemico comune. Di fatto, grazie anche al sindacato, le donne
hanno dovuto vedersela da sole con la loro condizione. Nessuna scusante,
quindi, e su questi problemi, decisivi per l’unità di classe e per la nostra
stessa emancipazione, è necessaria la massima chiarezza. Ma non vengano a farci
la predica i padroni, i loro leccapiedi e i rappresentanti delle classi colte,
maestri dell’oppressione raffinata sulle donne!
Per gli operai, al miserabile privilegio della serva in casa, si contrappone un
rapporto familiare infame; all’atteggiamento sprezzante verso le compagne di
lavoro, la divisione della classe. Per i padroni i vantaggi sono ben maggiori:
il loro sfruttamento significa direttamente profitti, la loro subordinazione
all’uomo serve alla riproduzione delle classi, la loro dequalificazione e
disoccupazione significano bassi salari, la divisione della classe significa
perpetuazione del proprio potere: mentre parlano di emancipazione e di
uguaglianza, producono la prostituzione e la segregazione della donna nel lavoro
domestico.
Solo le donne possono rovesciare la propria condizione e nessuno può regalare
loro l’emancipazione; ciò vale soprattutto per le operaie, su cui si concentra
l’oppressione femminile in tutta la sua globalità.
Compito degli operai coscienti è sostenere questa lotta contro il nemico
comune. Contro chi vuol trasformare l’8 marzo in una festa della femminilità
come grazia e gentilezza, viva l’8 marzo giornata di lotta per l’emancipazione
del proletariato femminile!
8 marzo 1979
Un gruppo di operai della Breda Fucine
Volantino 5
“OLOCAUSTO”: PERCHE’ ?
Rimbalza sui principali organi di informazione il dibattito sul
massacro degli ebrei ad opera del nazifascismo. Occasione contingente è uno
scadente fumettone televisivo, con rilievo non sulle cause del massacro e la
natura del nazifascismo, ma sul dramma umano e le vicissitudini di una famiglia
di borghesotti ebrei e dei loro miti pacifisti.
Il successo è stato enorme. I benpensanti democratici hanno potuto indignarsi
perché tutto è avvenuto ieri. Giornali come il “Corriere della Sera” hanno
avuto un’altra occasione per rinnegare, con vibranti articoli, il proprio
passato di promotori, in Italia, delle campagne antisemitiche del trentennio; i
borghesi possono unirsi al coro di condanna “dall’alto dell’attuale sistema
democratico” fondato sul rispetto della vita, della dignità umana e della
proprietà privata che le garantisce.
Principale imputato è la bestialità insita in ogni uomo, la violenza che può
scatenarsi in qualsiasi momento, mettendo l’uomo contro se stesso. Il capitale
è assolto: bisogna eliminare invece l’ignoranza e l’istinto violento, che come
è noto alberga nelle classi sottomesse.
I borghesi sono maestri nel rifare la storia per scaricare sui proletari i
propri crimini.
Rispondere è necessario, perché le cause sono ben altre e tutt’altro che
irripetibili.
Dunque, perché lo sterminio sistematico e
scientifico di 6 milioni di ebrei?
Forse perché Hitler era un pazzo? Forse in Germania era al potere
l’ala più retriva della borghesia?
La Germania era in realtà il paese industrialmente e finanziariamente più
avanzato del mondo. La crisi economica imponeva una rapida centralizzazione dei
capitali e dello stato per controbattere l’accresciuta concorrenza
internazionale. La conquista di nuovi mercati diventava un’esigenza impellente
per l’imperialismo mondiale e spingeva inevitabilmente alla guerra.
Il nazionalismo rappresentava quindi la bandiera attorno a cui stringere le
diverse frazioni borghesi e le classi medie nella difesa dell’economia nazionale
e preparare l’opinione pubblica alla guerra imminente.
Gli ebrei, anche in Germania, conservavano una propria cultura ed una propria
unità come popolo a parte e con saldi legami con gli ebrei di altri paesi
difficilmente disciplinabili al nazionalismo tedesco, rappresentavano una
specie di stato nello stato ed un grave motivo di instabilità politica ed
economica.
Infatti, detenendo una parte consistente del capitale finanziario ed usuraio,
oltre che il controllo della circolazione delle merci, erano una spina nel
fianco per il capitalismo industriale tedesco.
Concentrazione del capitale nazionale e ristrutturazione del credito e della
circolazione si ponevano quindi come necessarie per rispondere alla crisi e, in
prospettiva, ad una guerra mondiale in cui gli ebrei non avevano alcun
interesse. Per questo bisognava liberarsene.
Perché, allora, i campi di sterminio? Bisogna rovesciare anche il mito della
violenza fine a
sé stessa. Come utilizzare produttivamente la questione ebrea?
Nel campo di Auschwitz era scritto: “Il lavoro rende liberi”.
L’aumento della produttività si poneva come altra e decisiva esigenza per
superare la grave crisi economica, contrastare la caduta del saggio di profitto
e incrementare la produzione bellica. Intere fabbriche furono costruite e
stipate di ebrei, che lavoravano al salario ideale per i capitalisti: pane e
acqua, e nessun limite al saccheggio intensivo della forza-lavoro. Gli operai
totalmente consumati ed inutilizzabili venivano poi scaricati nei forni
crematori e così gli inabili al lavoro, vecchi, donne e bambini, per non
mantenere pensionati e disoccupati. Il massimo della razionalizzazione
capitalistica!
Queste fabbriche realizzarono i massimi profitti in tutta la Germania,
riducendo al minimo il capitale variabile e le spesa sociali. Inoltre, ciò
rappresentava per gli operai tedeschi un macabro ammonimento contro la
ribellione allo sfruttamento od una formidabile concorrenza per la riduzione
del salario al suo minimo. E infatti, per anni, nessun paese democratico si
oppose all’esperimento germanico, entrando in guerra solo quando l’imperialismo
tedesco mise in discussione i loro diretti interessi.
La Germania esaudiva il sogno del capitalismo internazionale: la possibilità di
sottomettere ed utilizzare senza alcun limite la forza-lavoro. E nei lager non
finirono solo gli ebrei, ma anche gli operai ribelli, i pericolosi bolscevichi
che anche qui, alla Breda, “sabotavano” la produzione.
Ma anche gli ebrei inquadrati nelle fabbriche diventano classe operaia e i problemi
della lotta di classe che si volevano scongiurare si ripresentano. Le prime
rivolte armate di ebrei esplodono nei ghetti operai di Varsavia e nelle
fabbriche. Se sotto la direzione pacifista e democratica degli ebrei possidenti
6 milioni di uomini avevano dovuto affrontare la morte con rassegnazione, ora
gli operai ebrei, organizzati e armati, si rivoltavano come classe al capitale.
Fino all’ultimo finanzieri e bottegai cercarono di rimandare lo scontro
sperando di poter salvare la vita in cambio della proprietà, offrendosi come
Kapò delle fabbriche della morte. Le classi, dunque, sono anche nel popolo
ebreo e oggi in Israele vedono da una parte i capitalisti, dall’altra gli
operai in lotta contro i propri borghesi e contro la loro guerra.
Ci risparmino dunque gli zelanti difensori del capitale gli interessati sermoni
sulla difesa della dignità umana. Chi parla oggi di salvezza dell’economia
nazionale, di maggior produttività per rafforzare l’industria italiana nel
mondo? Chi ha scritto sulle proprie bandiere che “il lavoro emancipa l’uomo”?
Chi conduce le campagne contro lo straniero (i giapponesi che invadono “il
nostro” mercato, gli arabi che rincarano il petrolio, le multinazionali
straniere che soffocano la nostra economia)?
Ed ecco che Hitler non è poi tanto distante da tanti ideologhi dei nostri
giorni. La sua particolarità
sta nel fatto che gli stranieri doveva combatterli anche in casa propria.
L’ATTUALE CRISI ECONOMICA STA FORGIANDO ANCHE IN ITALIA I PROMOTORI DEL NUOVO
OLOCAUSTO DEL CAPITALE.
PERCHE’ I DEMOCRATICI NON ABBIANO DA INDIGNARSI FRA TRENT’ANNI, AGLI OPERAI, AI
COMUNISTI, IL COMPITO DI COMBATTERLI SUBITO.
Aprile 1979
Sesto San Giovanni
Un gruppo di operai della Breda Fucine
Volantino 6
LA LOTTA DI CLASSE IN IRAN
La rivoluzione è finita, consegnate le armi e tornate a lavorare!
Questa direttiva di Khomeini agli operai, quando la rivoluzione aveva mosso
solo i suoi primi passi, ne svela in pieno il suo carattere di classe:
ripristinare l’ordine e la legalità borghese per riprendere il pacifico
sfruttamento degli operai. Così la “grande rivoluzione islamica”, osannata da
tutti i gruppi della piccola borghesia italiana come la “rivoluzione di nuovo
tipo”, si conclude come era iniziata: ingloriosamente.
La borghesia lavora per ristabilire il controllo dell’esercito “epurato” sul
paese, per costringere gli operai a lavorare per la salvezza dell’economia
nazionale, per adeguare la macchina dello stato a questo scopo: dalla monarchia
alla repubblica democratica borghese.
Né Ovest, né Est, l’Iran è il migliore
La gestione dello stato attraverso lo Scià e la sua corte era
diventato un vestito troppo stretto per il capitale industriale iraniano,
costretto dalla crisi a presentarsi indipendente sul mercato mondiale.
La borghesia industriale iraniana, colpita dalla crisi e preoccupata
dall’esaurirsi delle risorse di petrolio, non poteva più accettare che lo Scià
e la vecchia borghesia finanziaria decidessero sulle rendite del petrolio. Lo
Scià andava abbattuto. Occorreva unificare le classi medie scontente e cucire
le lacerazioni tra popolo e stato, acuite dal dispotismo monarchico, sotto la
bandiera del nazionalismo islamico.
L’ulteriore sviluppo dell’accumulazione capitalistica era in contraddizione con
le strutture politiche e militari del vecchio regime, e ne rivendicava
l’adeguamento.
Il popolo unito non sarà mai vinto
Il movimento di opposizione allo Scià vedeva schierate tutte le
classi, ognuna per sostenere i propri interessi e imporre la sua direzione a
tutte le altre. La borghesia industriale lottava per svincolarsi da ogni legame
feudale e poter disporre delle rendite del petrolio. Le classi medie, urbane e
agricole, perché colpite dalle misure dello Scià (taglio della spesa pubblica,
concorrenza dei prodotti agricoli stranieri). I religiosi perché privati dallo
Scià delle “decime” (diritto a 1/4 delle terre coltivabili, 1/5 dei prodotti
agricoli, 1/10 di tutti i profitti). Il Corano diventava così l’anima
ideologica della rivoluzione, il tramite - secondo l’autonomia operaia - del più
originale comunismo.
Ma gli operai non sono scesi in campo per
amore della religione
Salari da fame, il 50% di aumento degli affitti e dei generi
alimentari, 31% di inflazione annua. Sfruttati nelle fabbriche, schiacciati nei
gradini più bassi della società, ovunque c’era la possibilità anche minima di
aprire la strada alla propria emancipazione, gli operai iraniani hanno saputo
impegnarsi nella battaglia. Senza una propria organizzazione hanno partecipato
in massa agli scioperi e alle manifestazioni, schierandosi in prima fila e
pagando il più alto prezzo di sangue. Una massa minacciosa che, una volta messa
in movimento, non è stato facile fermare e che Khomeini ha sempre temuto come
cento volte più pericolosa dello Scià.
Questa la forza decisiva che ha costretto la stessa borghesia iraniana allo
scontro diretto
nelle strade, impedendo l’aborto della stessa rivoluzione borghese.
Con la requisizione delle armi e la ricostituzione dell’esercito gli operai
scoprono di aver combattuto per il capitale e la sua forma ideale di
funzionamento per lo sfruttamento operaio: la repubblica democratica. Ma hanno
anche creato le condizioni più ideali alla nuova fase della lotta di classe tra
lavoro salariato e capitale. I compagni di strada di ieri diventano i più chiari
e irriducibili nemici di oggi. Il grande popolo iraniano si scompone oggi nelle
grandi classi in lotta.
Agli operai il compito di un bilancio della
rivoluzione iraniana
Se gli operai, in ogni lotta, non sanno difendere i loro interessi
indipendenti, se non sanno imporre il loro programma, non potranno che servire
le altre classi nel raggiungere i loro obbiettivi.
Gli operai in Iran hanno dimostrato di essere gli elementi più decisivi e
radicali nella lotta contro lo Scià, ora devono utilizzare questa capacità
nella rivoluzione per i loro interessi. Lo scontro in Iran, come in tutto il
mondo, si sfronda di ogni forma arretrata. La nuova fase della lotta
rivoluzionaria inizia oggi. Con Khomeini e Bazargan, non è più da attaccare
solo la nuova forma di governo. Gli operai hanno da vedersela non contro una
forma di potere dei padroni, ma contro il loro potere: 100.000 uomini
organizzati da Khomeini, più il vecchio esercito dello Scià, più tutto
l’apparato politico-militare dello stato.
Contro queste forze gli operai non possono che “accettare” di tornare al
lavoro. Frange di piccola borghesia e aristocrazia operaia - dopo aver
appoggiato, senza discriminarsi minimamente in nome della tattica, il programma
islamico - ora si appellano agli operai e tentano l’opposizione a Khomeini per
ottenere posti di governo. Gli operai, senza un loro partito indipendente, non
sono niente e contano pochissimo sulla scena politica. Su questa base si pone
in Iran l’esigenza del partito rivoluzionario degli operai.
Febbraio 1979
Coordinamento di operai di Sesto
(Breda Fucine, Siderurgica, Termomeccanica,
Falck, Magneti Marelli, Alfa Arese, Borletti)
Volantino 7
LA FRANCIA PREPARA TRUPPE SCELTE D‘INTERVENTO
Dopo l’annuncio del governo USA la Francia si affretta a dichiarare
di avere organizzato un proprio “contingente militare per l’azione esterna
destinato ad intervenire nei campi petroliferi”. Si tratta di una minaccia
aperta verso i paesi arabi riuniti a Ginevra per decidere la politica di
salvaguardia delle proprie risorse contro il saccheggio e le speculazioni
tariffarie delle Compagnie occidentali. Ma è anche un avvertimento reciproco
tra paesi capitalistici
contro eventuali iniziative dei concorrenti nella spartizione del bottino.
Ancora una volta, con l’aggravarsi della crisi economica, il mito della
regolamentazione dei prezzi e degli scambi basati su domanda e offerta si
trasforma nella legge del più forte; il libero mercato viene regolato con la
persuasione delle armi; la strada alla penetrazione delle merci viene spianata
dagli eserciti di aggressione.
E’ chiaro, finora si tratta solo di tracotanti dichiarazioni, infatti i paesi
capitalisti non hanno certo bisogno di preparare ora le “truppe per l’azione
esterna”. Un’economia basata sul profitto, che deve garantire il furto
quotidiano di plusvalore agli operai del proprio paese e di quelli stranieri,
si basa necessariamente sulla forza di eserciti addestrati e sempre pronti ai
confini interni e internazionali.
CHE OGGI L’IMPERIALISMO DICHIARI APERTAMENTE QUESTA SUA INTIMA NATURA DIMOSTRA
SOLO, CON GRAVITA’ ESTREMA, IL PRECIPITARE DELLA SITUAZIONE INTERNAZIONALE.
AGLI ACCORDI E AI PACIFICI TRATTATI COMMERCIALI SI SOSTITUISCE IL RICATTO E LA
MINACCIA DI AGGRESSIONE.
Giscard D’Estaing: “In caso fosse minacciata la sopravvivenza dei consumatori
essi sarebbero portati a reazioni proporzionate a questo pericolo”. Gli fa eco
Schmidt: “Il problema petrolio oggi rappresenta una causa possibile di
conflitti”.
La questione dell’accaparramento delle materie prime è un continuo assillo per
i paesi imperialisti. Ma al fondo resta il problema del saggio di profitto che
cala e della attuale crisi di sovrapproduzione; col petrolio si cerca di
giustificare la guerra per la ripartizione dei mercati. Infatti non è in corso
alcun embargo petrolifero da parte dei paesi arabi ma solo un tentativo di
salvaguardarsi dall’esaurimento; il prezzo è aumentato meno di quanto non lo
siano i manufatti industriali e le materie prime dei paesi occidentali e, in
ogni caso, ogni paese deve poter disporre incondizionatamente delle proprie
risorse. Ma è forse l’esaurimento delle risorse a determinare lo scontro sul
petrolio? Al contrario, le grandi potenze assoggettano, con il monopolio della
tecnologia e dei profitti industriali, i paesi del terzo mondo. Enormi risorse
idriche, giacimenti di carbone, uranio, energia solare ecc. sono a completa
disposizione dei paesi imperialisti. Ma richiedono investimenti di capitale che
non realizzano immediati profitti e i capitalisti investono solo per trarre il
massimo profitto. E’ molto più conveniente saccheggiare a piene mani, sino al
completo esaurimento, il petrolio arabo.
LA LEGGE DEL PROFITTO DUNQUE, E NON L’ESAURIMENTO DELLE RISORSE, STA SPINGENDO
GLI SFRUTTATORI INTERNAZIONALI VERSO UNA TERZA GUERRA MONDIALE.
E in Italia? Agnelli invoca misure protezioniste contro il Giappone e impone
agli operai di lavorare di più per essere competitivi. Tutti i partiti borghesi
e il sindacato da essi controllato, sono schierati in difesa dell’economia
nazionale e ci chiedono sacrifici per salvare la patria capitalista.
NOI OPERAI NON ABBIAMO NIENTE DA SPARTIRE CON L’ESIGENZA DI GUERRA DEI NOSTRI
PADRONI, I NOSTRI INTERESSI CI SPINGONO A FIANCO, E NON CONTRO, GLI OPERAI DI
TUTTI I PAESI.
ORGANIZZIAMOCI CONTRO IL CAPITALE CHE PREPARA IL NUOVO MASSACRO TRA SFRUTTATI.
Giugno 1979
Gruppo Operaio Breda Fucine
Volantino 8
INTERVENTO RUSSO IN AFGHANISTAN
Con la forza di persuasione dei suoi carri armati l’URSS dimostra
agli operai dell’Afganistan e di tutto il mondo la vera natura del capitalismo
di stato. 100000 uomini guidano l’efficiente macchina bellica dell’imperialismo
sovietico spianando di cadaveri la strada verso le rotte del petrolio.
Su fronti contrapposti, ma con uguali obbiettivi le potenze occidentali si
mobilitano freneticamente per non farsi precedere nella spartizione del
bottino.
Gli USA già impegnati nella preparazione dell’intervento in Iran minacciano la
rappresaglia armata e adottano le sanzioni economiche invitando gli alleati
tradizionali all’embargo generale contro l’URSS.
Gli imperialisti europei e giapponesi e con essi l’Italia, mentre condannano
l’iniziativa sovietica, cercano di sfruttare la situazione per incrementare gli
affari acquisendo le quote di mercato lasciate libere dagli USA. Ma non si
tratta di neutralismo. Da tempo gli imperialisti di casa nostra sono mobilitati
in proprio contro “l’imperialismo degli sceicchi” e preparano l’opinione
pubblica all’eventualità dell’intervento militare sui pozzi petroliferi per
riaffermare
il diritto delle potenze industriali a stabilire il prezzo secondo le proprie
esigenze di profitto nell’attuale crisi.
L’aggressione è quindi condannata solo perché viene realizzata da un diretto
concorrente, ma è la legge del profitto che spinge tutti i paesi capitalisti a rispondere
con la guerra al precipitare della crisi economica. Gli appelli alla pace e
alla distensione servono solo a coprire il rapido precipitare della situazione
e a mobilitare gli operai per condurli impreparati verso il nuovo macello
mondiale.
In Italia il PCI si fa principale portavoce tra gli operai di questa campagna
pacifista mistificando le reali cause della guerra e proponendo di evitarla con
gli appelli morali alla “cooperazione” e al “disarmo”, mentre tutti si armano e
già si sparano contro. Mentre predica la pace agli operai sostiene nei fatti le
ragioni economiche che spingono irreversibilmente alla guerra. Chiama
“socialismo reale” il capitalismo di stato in URSS, critica come tentativo di
“esportare la rivoluzione” ciò che è invece l’esigenza di sovrapprofitti del
socialimperialismo sovietico.
Chiama gli operai italiani ai sacrifici per risolvere la crisi, per rendere più
competitivo l’imperialismo italiano, le sue merci, i suoi capitali, nella
guerra commerciale che precede e prepara la guerra armata per la spartizione
dei mercati.
E’ proprio la crisi capitalistica, l’esigenza di contrastare la caduta dei
saggi di profitto con un maggiore sfruttamento degli operai all’interno e di
sovrapprofitti estorti agli operai di altri paesi, che spinge tutti i paesi
capitalistici alla guerra.
Non basta sfruttare più intensamente e immiserire ai limiti della sussistenza i
propri operai.
In Russia come negli Usa e in Italia per battere la concorrenza straniera è
necessario disporre di materie prime a basso prezzo, strappare nuovi mercati ai
concorrenti, dirottare verso l’esterno, contro lo straniero, i crescenti
contrasti di classe tra borghesi e operai in ogni paese.
OPERAI,
la propaganda borghese deve nascondere il legame stretto tra competitività delle
merci e spartizione dei mercati, tra sfruttamento degli operai e guerra
imperialista.
Solo organizzandoci per eliminare lo sfruttamento, solo con la lotta
rivoluzionaria degli operai contro i padroni del proprio paese si potrà evitare
il nuovo massacro mondiale. Gli appelli a fermare la mano dell’ “orso bruno” o
americano o di qualsiasi altro paese straniero è soltanto un incitamento di
guerra contro gli operai di altri paesi. Solo l’apertura di un fronte interno
tra operai e borghesi in Russia come in USA come in Italia può segnare la fine
dell’imperialismo e delle guerre.
L’organizzazione degli operai per la lotta generale contro il capitale è oggi
il compito principale e irrimandabile di ogni operaio cosciente.
SOLIDARIETA’ RIVOLUZIONARIA TRA GLI OPERAI DI
TUTTO IL MONDO CONTRO I PROPRI PADRONI!
Gennaio 1980
Gruppi operai dell’Alfa Arese, Breda Fucine,
Borletti,
Falck Unione, Ivisc, Fiat Rivalta, Italsider Genova
Volantino 9
I padroni ci hanno tolto anche il 1° maggio
L’UNITA’ INTERNAZIONALE DEGLI OPERAI PRENDE
UN’ALTRA STRADA
Nata come giornata internazionale di lotta contro i padroni, il 1°
maggio è stato trasformato nella celebrazione e santificazione del “lavoro”,
giornata di pacificazione tra sfruttati e sfruttatori. Sui palchi tricolorati,
gli ex partiti operai e i sindacati collaborazionisti si riempiono la bocca di
“internazionalismo, emancipazione, difesa della pace”. Intanto ci chiamano ai
sacrifici per difendere l’economia in crisi del capitale nazionale, a sostenere
con una maggiore produttività la penetrazione dell’imperialismo italiano nei
mercati esteri. Il loro “internazionalismo” è il diritto del capitale nazionale
a penetrare nei paesi concorrenti. La loro “emancipazione” è l’affrancamento
economico dal capitale straniero che persegue gli stessi obiettivi. La loro
“pace” è la collaborazione tra operai e padroni per combattere insieme contro
padroni e operai di altri paesi.
Nella crisi l’internazionalismo del capitale si frantuma con la frantumazione
del mercato e si fa strada la più spietata concorrenza. Gli agenti della
borghesia nelle file operaie cercano di trascinarci nella tragica competizione
per la conquista dei mercati, in una guerra tra sfruttati, condotta oggi con le
cannonate delle merci a più basso prezzo, che prepara però la spartizione dei
mercati tramite la forza militare. Oggi milioni di disoccupati in tutto il
mondo e operai a bassi salari, domani la carneficina tra operai. Così la
giornata di solidarietà rivoluzionaria degli operai di tutto il mondo, la
dichiarazione che i proletari non hanno patria, viene frantumata anch’essa in
tante parate nazionalistiche del lavoro. La strada dell’unità internazionale
degli operai può nascere solo da un suo rifiuto: il maggio rosso muove nella
direzione opposta i suoi primi passi.
La crisi avanza e, mentre matura il nazionalismo che prepara la guerra, spinge
nei diversi paesi alla ribellione operaia contro i piani di sfruttamento. Gli
stessi capitalisti inglesi che si erano potuti assicurare decenni di relativa
pace sociale, comprando i capi e corrompendo gli strati superiori degli operai
grazie ai sovrapprofitti estorti al proletariato delle colonie e del mondo,
devono pagare tutto il prezzo della crisi economica. Gli strati più sfruttati
degli operai inglesi, su cui si fondava la forza di penetrazione
dell’imperialismo britannico, oggi scuotono con le loro lotte la
concorrenzialità dei propri padroni. I sindacalisti che per anni hanno potuto
vantare le grandi conquiste nello sviluppo graduale del capitalismo oggi devono
implorare i sacrifici per salvare la patria che affonda. Nel paese che ha
insegnato il trade-unionismo al mondo la polizia è dovuta intervenire nelle
assemblee per liberare i sindacalisti che si erano presentati con un contratto
contenente irrisori aumenti salariali.
Gli scioperi continuano ancora in diverse fabbriche rompendo clamorosamente la
centenaria disciplina del sindacalismo borghese. La normalizzazione, lontana
dall’essere raggiunta, non potrà comunque cancellare questa storica rottura tra
interessi operai, padroni e sindacalisti collaborazionisti.
E l’Inghilterra viene subito dopo le sommosse dei siderurgici francesi e dei
minatori americani, dei tessili turchi, di quelle ancora clandestine degli
operai russi. E’ questo il maggio operaio che salutiamo mentre in Italia PCI e
sindacati faticano a controllare il malcontento che serpeggia nelle maggiori
fabbriche.
I sacrifici imposti in questi anni chiedono già una verifica delle
contropartite e delle promesse, mentre la crisi capitalistica richiede nuove e
più pesanti misure antioperaie. Per questo tanta demagogia e tanto accanimento
per far passare come terroristi quegli operai che denunciano la politica dei
sacrifici e lottano contro lo sfruttamento dei padroni. Devono impedire agli
operai di darsi un’altra organizzazione, di impostare una linea di difesa dei
propri interessi di classe, di muoversi come classe internazionale.
Compagni operai, anche il 1° maggio ci è stato dunque tolto e ora viene
utilizzato contro di noi. Temporaneamente siamo costretti a cederglielo.
Ma mentre ci chiamano a responsabilizzarci per salvare i nostri padroni contro
la concorrenza straniera, mentre ci spingono contro gli operai di altri paesi,
nella prospettiva di scannarci nella guerra che sta maturando, raccogliamo
l’esempio degli operai che in Inghilterra, Francia e America lottano contro i
rispettivi padroni e la loro economia nazionale.
Mentre tentano di far passare come terrorista ogni operaio che non si
sottomette agli interessi dei padroni, colleghiamoci, organizziamoci per
costruire il partito politico che dichiara apertamente il suo programma.
ABOLIZIONE DELLO SFRUTTAMENTO, DELLA PROPRIETA’ PRIVATA, DEL CAPITALE.
RISPONDERE ALLA GUERRA IMPERIALISTA CON LA RIVOLUZIONE DELLA CLASSE PROLETARIA.
1° Maggio 1980
Coordinamento gruppi operai delle fabbriche
Breda Fucine, Falck Unione, Alfa Arese, Borletti, Ivisc