www.resistenze.org - materiali resistenti - disponibili in linea – saggistica contemporanea - 10.03.03

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Franco Molfese

RIFLESSIONI SU STALIN



INDICE

Prefazione

Stalin come Robespierre

Connotati di classe dell'antistalinismo

Il rapporto «segreto» di Krusciov su Stalin

Stalin: un bilancio?

II testamento di Stalin
   a) L’internazionalismo proletario e i compiti storici dei partiti comunisti
   b) La pace e la guerra
   c) La costruzione del comunismo nell'Urss
      1 - la questione dello «sviluppo delle forze produttive»
      2 - La questione del superamento della proprietà colcosiana



Appendice: Il giuramento di Stalin alla morte di Lenin



Prefazione


La figura del segretario del partito comunista bolscevico e capo del governo sovietico, in uno dei periodi più difficili della storia dell' U.R.S.S. (1923-1953) riteniamo che vada vista sullo sfondo dei drammatici e nello stesso tempo. grandiosi avvenimenti storici di quegli anni ed ha bisogno di essere storicamente approfondita. Il che non significa essere direttamente ispirati all'apologia e neppure alla preconcetta ostilità.

È con questa premessa che proponiamo ai compagni ed ai lavoratori coscienti questo breve testo: "Riflessioni su Stalin" di Franco Molfese, pubblicato per la prima volta nel 1982 sulla rivista “Ideologia Proletaria” e che resta, tuttora a nostro avviso, un serio e valido contributo alla riflessione.

Questo è il primo lavoro fatto dal centro documentazione popolare di Torino, per contribuire allo sviluppo di un dibattito politico e storico, dal punto di vista degli oppressi e dei lavoratori, con gli strumenti del marxismo e del leninismo. nella prospettiva del ribaltamento degli attuali rapporti di forza tra le classi




Stalin come Robespierre


Nella prima pagina del Manifesto del partito comunista Marx ed Engels osservano sarcasticamente che «uno spettro si aggira per l'Europa - lo spettro del comunismo», turbando i giorni e le notti di preti e coronati, ministri conservatori e liberali, radicali borghesi e poliziotti.
A 130 anni di distanza, quando il comunismo o, per essere più precisi, la contrastata e a volte tortuosa transizione dal capitalismo al socialismo sta divenendo una concreta realtà mondiale, ancora una volta uno «spettro» turba i giorni e le notti di borghesi grandi e piccoli, di preti e di intellettuali, di «progressisti» e democratici «puri», di «socialisti» e di reazionari: lo «spettro» di Stalin.

Stalin è morto 29 anni fa e il suo destino in vita ha avuto un aspetto comune a quello di molti altri uomini di grande rilievo storico che hanno guidato lotte durissime e decisive fra contrasti politici e sociali acuti: di avere, cioè, suscitato amore e odio intensi tra le masse umane, esaltazioni incondizionate, giudizi apologetici e condanne categoriche senza attenuanti. Quel che, peraltro, appare singolare nella «storia» della valutazione della figura di Stalin, è l'accanimento e la pervicacia con i quali i suoi detrattori, utilizzando le centomila bocche dei mezzi di comunicazione di massa attive nel mondo capitalistico, continuano a condannare, a falsificare o a tacerne l’opera pur dopo il trascorrere di un intero periodo storico. Dato che i procedimenti di tale instancabile campagna di tutti i settori della borghesia internazionale sono tutt’altro che scientifici e «storiografici», è evidente che una grande lotta politica e di classe continua a svolgersi intorno alla figura e all'opera di Stalin.

Un primo aspetto che colpisce l'osservatore è l'analogia della vicenda storica di Stalin con quella toccata a Robespierre: due grandi rivoluzioni, l'una borghese, l'altra proletaria; due dittature, quella giacobina e quella leninista-staliniana; due "Termidori", ossia due colpi d'arresto, due riflussi, due assestamenti delle rispettive rivoluzioni, che coincidono all'incirca con la scomparsa dei due capi eminenti. L'analogia o, quantomeno, il precedente sembra estendersi anche alle vicende del giudizio storiografico. Robespierre per quasi un secolo venne considerato dagli storici e dai borghesi post-controrivoluzionari soltanto come il responsabile principale del terrore, il «mostro assetato di sangue», colui che aveva deviato il corso della rivoluzione dalle supposte idilliache destinazioni. Eppure col tempo, ossia seguendo il corso alterno delle lotte di classe in Francia per buona parte del secolo XIX (che furono essenzialmente una continuazione e uno sviluppo della grande rivoluzione) e con l'esperienza teorica e pratica delle nuove grandi rivoluzioni - proletarie questa volta - che, fra l'altro, riveleranno l'esistenza di determinate «leggi della rivoluzione», il giudizio degli storici più penetranti e via via il giudizio storico generale su Robespierre si modifica e infine si capovolge. Così si è visto che la grande rivoluzione borghese della Francia fu salvata dalla ferrea dittatura giacobina che organizzò la resistenza vittoriosa all'aggressione reazionaria esterna e lo schiacciamento di quella interna, trovando l'alleanza delle masse contadine. Inoltre si è compreso che soltanto la dittatura giacobina poté spingere l'eterogeneo moto politico rivoluzionario fino ai limiti politici e sociali estremi (temporaneamente sorpassandoli) compatibili in quel tempo con gli obiettivi perseguiti dalle forze motrici fondamentali della rivoluzione.

Si può intravedere qualcosa di simile nella valutazione dell'opera di Stalin? Riteniamo di sì per almeno tre ragioni di fondo. La prima, è che la figura di Stalin rimane emblematica per una parte considerevole del proletariato mondiale, di vari partiti del movimento comunista internazionale, dei combattenti antifascisti e dei popoli oppressi che si oppongono alla sua condanna. In secondo luogo, perché la Rivoluzione d'Ottobre «continua» nel nostro secolo sul piano mondiale attraverso i conflitti sempre più acuti fra imperialismo e socialismo. In terzo luogo, perché il giudizio su Stalin non è soltanto affare di studiosi versati nella particolare metodologia della storiografia ma appare sempre più come una questione di classe di importanza storica mondiale. Sull'antistalinismo della grande borghesia «laica» o clericale, «democratica» o autoritaria che sia, non c'è da spendere molte parole. Esso coincide con l'odio viscerale, classista verso il proletariato, il suo moto politico ed economico di emancipazione, la sua teoria rivoluzionaria, il suo potere, là dove è stato costituito. Essa non perdona a Stalin di essere stato l'organizzatore più intransigente della disfatta del fascismo, ma non può dirlo apertamente, in omaggio alla «democrazia» cui anche gli imperialisti e le multinazionali sono costretti oggigiorno a tributare i salamelecchi di rito. Un aspetto grottesco è certamente quello della virtuosa indignazione della grande borghesia per le «repressioni» staliniane nei confronti dei «rivoluzionari» che la grande borghesia, per parte sua, discrimina, perseguita, getta in carcere o sopprime fisicamente ogniqualvolta sia in condizione di farlo.




Connotati di classe dell'antistalinismo


Il discorso diviene più serio ed articolato per la piccola borghesia, che è il terreno d'elezione di un antistalinismo bifronte. Nella società capitalistica sviluppata, monopolistica, i vari strati sociali che si suole raggruppare sotto il termine comune di piccola borghesia, continuano a basarsi sulla piccola produzione, sulla piccola proprietà perlopiù parassitaria e sul commercio, anche se lo sviluppo di un'«economia sommersa» (il che significa in buona parte illegale) e del settore terziario dei servizi ausiliari della produzione e della distribuzione, accresce quantitativamente la piccola borghesia che si cimenta - congiuntura economica permettendolo - in imprese di varia natura di cui non poche superflue e talune decisamente dannose. Soggetta ad un ricambio incessante per cui una minoranza soltanto della piccola borghesia ascende al rango superiore mentre dall'altro lato settori consistenti slittano o franano continuamente nei ranghi del proletariato, la mentalità piccolo-borghese è necessariamente il riflesso dell'instabilità sociale, dell'insicurezza e dell'impotenza economica della classe. Essa si distingue perciò per la mancanza di energia e di grandi iniziative, per un timore cronico, per la contraddittorietà delle sue vedute culturali e filosofiche, sociali e politiche. Da una parte la piccola borghesia è pressata dalla grande borghesia le cui scelte economiche e politiche, messe in essere anche col mezzo dell'apparato statale, condizionano il tenore di vita e a volte l'esistenza stessa dei piccoli borghesi che nutrono così in quella direzione sentimenti di invidia, ammirazione, servilismo e sordo risentimento allo stesso tempo.

Sul versante opposto la piccola borghesia confina col proletariato che disprezza e teme e con il quale pure deve fare i conti giorno dopo giorno sia in prima persona, sia per conto della classe dominante. La sua posizione sociale la rende perciò oscillante, facilmente disorientata e incapace di centralizzazione sul piano politico. La piccola borghesia diviene perlopiù la base di massa dei regimi fascisti nei momenti di crisi della società e di acuta lotta di classe. In altri momenti, quando le crisi si avvicinano ma il proletariato non si solleva ancora, la piccola borghesia delega talvolta ai suoi giovani il compito di «arrabbiarsi» per le ingiustizie sociali, il che essi fanno manifestando a parole sentimenti sovversivi e di «estrema sinistra» ma nei fatti mostrando la consueta mancanza di fermezza, di disciplina, di tenacia nell'organizzazione e coltivando diffidenza e incomprensione per le ragioni del proletariato.

Di regola, dopo l'ondata «rivoluzionaria» i giovani arrabbiati piccolo-borghesi ricadono rapidamente nell'apatia nel «disimpegno» e non di rado fanno atto di sottomissione o si dedicano a coltivare le mode lanciate dalle «avanguardie» culturali borghesi. L'esempio dei giovani piccolo-borghesi «sessantottini» è lampante: partirono come «extra parlamentari» contestando stato e società borghesi, rifacendosi al pensiero di Mao; rivendicarono il potere all'«immaginazione» (il solo potere di cui erano provvisti) e al termine di un ciclone essenzialmente verbale i più sagaci tra loro sono finiti parlamentari o dirigenti di partiti e partitini più o meno appartenenti all'«arco costituzionale» della democrazia borghese e clericale, oppure nella posizione ancor più tranquilla di funzionari negli uffici-studi delle banche o come avviati professionisti.

Nei periodi storici di lotta politica e sociale relativamente «pacifica» la piccola borghesia si ritrova in generale soddisfatta sul terreno del pacifismo «borghese» e della democrazia «pura». Essa teorizza in tal modo la propria avversione ai cambiamenti e agli scontri di classe fra grande borghesia e proletariato che vorrebbe conciliare predicando la «programmazione» della politica economica. Essa aspira a «migliorare» lo stato e la società borghesi per ritagliarvisi una condizione particolare, più sicura e redditizia. Perciò ascolta con interesse ogni programma «democratico» che predichi una diminuzione del peso dello sfruttamento da parte dei monopoli e delle banche e la collaborazione delle classi, da attuarsi mediante un regime sostanzialmente corporativo. Di conseguenza la piccola borghesia riconosce al proletariato, più o meno a malincuore, il diritto a più alti salari e a migliori condizioni di lavoro ma si sforza di imporgli in contraccambio la condizione inderogabile di rinunciare a qualsiasi disegno di rovesciamento radicale della società capitalistica. La piccola borghesia circonda socialmente, economicamente e culturalmente da ogni lato il proletariato, preme su di esso incessantemente e giorno per giorno si sforza di farvi penetrare i propri punti di vista, i propri costumi, il proprio modo di vivere. Ma questo processo sociale spontaneo appare storicamente inadeguato rispetto agli obiettivi perseguiti, in specie da quando il proletariato nel corso del suo moto di emancipazione, ha cominciato a costituirsi un contropotere economico e politico dapprima embrionale, poi sempre più solido e una strategia e una tattica illuminate da una teoria molto avanzata, il materialismo storico e dialettico. Nell'epoca dell'imperialismo e delle rivoluzioni proletarie, la sola penetrazione spontanea non poteva essere più efficace: occorreva «organizzare» il lavoro, adibirvi un corpo di specialisti e cioè un apposito settore degli intellettuali (politologi, letterati, artisti, filosofi vecchi e nuovi, tecnici, professionisti, giornalisti, politicanti e sindacalisti più o meno acculturati).

Gli intellettuali, per dirla con Gramsci, sono, a prescindere dalla loro «statura», i «commessi del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell'egemonia sociale e del governo politico». La loro estrazione sociale, le loro condizioni di esistenza e di lavoro sono perlopiù piccolo-borghesi. Del tutto conseguente ne è la mentalità e il carattere per cui fatte le debite eccezioni accanto alla prontezza dell'intelligenza e alla padronanza delle metodologie specifiche, convivono deficienze caratteriali quali l'individualismo, il carrierismo, l'opportunismo, la fame di guadagni, rinomanza, pubblicità e vita agiata.

Ora, come parte di tutto un processo sociale, politico e culturale in cui la lotta di classe si svolge in forme più o meno acute, tra gli intellettuali si effettua una divisione del lavoro vera e propria, in parte spontanea, in parte guidata da centrali più o meno occulte (imperialistiche, borghesi, cattoliche, trotzkiste). Una parte degli intellettuali si pone direttamente ed apertamente al servizio della grande borghesia capitalistica e del suo potere statale. Una parte minore, animata talvolta inizialmente da «buone intenzioni» e da un generico populismo, assolve il suo compito fondamentale indirettamente e gradualmente, introducendosi nei ranghi del partito della classe operaia e del proletariato e comunque nell'area del movimento operaio.

Qui però li fronteggia una grossa contraddizione e cioè lo spirito di classe e di disciplina, la circolazione, più o meno intensa, delle idee del materialismo storico e dialettico, strutture centralizzate formatesi attraverso un processo storico, nonché il prestigio dei dirigenti storici del proletariato. Tutte cose che ripugnano alla mancanza di disciplina, all'individualismo anarcoide, all'eclettismo, all'idealismo, al dilettantismo filosofico di buona parte degli intellettuali piccolo-borghesi.

Tuttavia una parte di essi, sostenuti anche dall'«inconscio desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo», possiedono volontà sufficiente per conseguire l'obbiettivo individuale di arrivare a farsi capi dei lavoratori. Per ottenere ciò, dovranno operare gradualmente e collegarsi dapprima copertamente, poi - con il favore incessante dall'esterno della borghesia capitalistica - sempre più apertamente, propagandando nel partito e nel movimento operaio il «loro» immaginario e nebuloso socialismo piccolo-borghese, la loro concezione libertaria e lassista della vita di partito, il loro culto per il «pluralismo democratico», il loro odio per la dittatura proletaria, per la teoria del marxismo e del leninismo (che sviseranno e falsificheranno in tutti i modi), per l'opera di tutti i maggiori esponenti teorici e politici del proletariato internazionale. Storici rappresentanti di un tal genere di opposizione piccolo-borghese a Marx, Engel, Lenin e Stalin sono stati via via Bakunin, Kautsky, Trotzkij, Krusciov.

La parabola compiuta in una trentina di anni dal gruppo dirigente del partito comunista italiano è un'autentica «illustrazione» da riferirsi al periodo staliniano e post-staliniano. I giovani piccolo-borghesi, di cui non pochi avevano fatto le loro prime prove politiche nelle file fasciste, entrati a legioni nel Pci durante o dopo la Resistenza attraverso le porte spalancate del «partito di massa» di Togliatti (accanto a piccole minoranze dotate di una certa serietà spesseggiavano, come sempre, gli «avvocati senza causa, i medici senza malati e senza scienza, studenti di bigliardo e altri impiegati di commercio e principalmente giornalisti della piccola stampa di una reputazione più o meno equivoca» di cui parlava Engels riferendosi proprio all'Italia), al termine di un intenso periodo storico sono riusciti ad esprimere un gruppo dirigente che ha via via emarginato i militanti comunisti, ha scelto incondizionatamente la «via pacifica» e l'integrazione nella democrazia borghese e clericale, ha capitolato di fatto dinnanzi all'imperialismo, ha condotto una lotta instancabile quanto subdola contro il marxismo-leninismo divenuta manifesta, non a caso, in occasione della “destalinizzazione” di marca kruscioviana e togliattiana. ed è giunto oggi, attraverso le tappe di una degenerazione ideologica, politica ed organizzativa di tipo socialdemocratico, all'ultima spiaggia del distacco da ogni eredità della rivoluzione d'Ottobre. L'antistalinismo del gruppo dirigente piccolo-borghese intellettuale del Pci è stato quindi uno degli strumenti più sfruttati per portare avanti l'operazione politica di grande portata e di conseguenze storiche che ha provocato l'infradiciamento opportunistico del Pci o, quantomeno, del suo quadro dirigente con le sue diramazioni sindacali.

Beneficiari non potranno che esserne la conservazione interna e l'imperialismo internazionale.

Non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, se non nelle proporzioni. Già Gramsci osservava freddamente 50 anni fa: «Negli altri paesi il movimento operaio e socialista elaborò singole personalità politiche, in Italia invece elaborò interi gruppi di intellettuali che come gruppi passarono all'altra classe».

Se una lezione ed un ammaestramento si possono trarre da tutto ciò per lavorare alla ricostruzione storicamente necessaria di un autentico partito comunista in Italia, sono ancora quelli che cento anni fa Marx ed Engels formulavano categoricamente rivolgendosi ai dirigenti della socialdemocrazia tedesca: «Quando siffatte persone provenienti da altre classi aderiscono al movimento proletario, la prima esigenza è che non portino con sé nessun residuo dei pregiudizi borghesi, piccolo-borghesi, ecc., ma che facciano proprio senza riserve il modo di considerar le cose del proletariato... Se vi sono delle ragioni per tollerarli momentaneamente nel partito, vi è il dovere di tollerarli soltanto, di non consentire loro nessuna influenza sulla direzione del partito, di rendersi sempre conto che la rottura con essi è solo una questione di tempo».




Il rapporto «segreto» di Krusciov su Stalin


Il XX congresso del Pcus si svolse in Mosca dal 14 al 25 febbraio 1956 e fu il primo congresso tenuto dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953). Verso la conclusione dei lavori, in una seduta a porte chiuse, Krusciov, allora segretario del Comitato centrale, lesse quello che fu poi denominato correntemente il «rapporto segreto» su Stalin. Questo rapporto è certamente uno dei documenti più sensazionali ed esplosivi della storia contemporanea, ma lo è molto più per gli effetti che provocò che non per le cose in esso contenute. Infatti da esso data l'inizio ufficiale della «destalinizzazione» nell'Urss, nelle democrazie popolari e nella gran parte dei partiti comunisti operanti nel mondo capitalistico. Dopo di esso si manifesta apertamente nel movimento comunista internazionale il revisionismo di Krusciov, Tito e Togliatti, con la conseguenza a breve scadenza della scissione a sinistra del partito comunista cinese, del partito del lavoro d'Albania e altri, e, sulla destra, con il graduale allontanamento dall'Urss e dal Pcus del Pci e di altri partiti comunisti dei paesi capitalistici sviluppati che approderanno infine, dopo un progressivo e protratto processo di socialdemocratizzazione, all'«eurocomunismo». Nel mondo capitalistico il rapporto «segreto» fu il segnale per un attacco anticomunista di proporzioni mai viste che culminò, nel corso dello stesso 1956, nei gravi fatti di Polonia e di Ungheria. Da quel momento 1'antistalinismo divenne la bandiera comune di tutte le forze controrivoluzionarie e anticomuniste che scatenarono una lotta ideologica e politica ancora oggi in pieno svolgimento e che, oltrepassando la figura e l'opera di Stalin, mira alla demolizione dell'intera teoria e pratica del marxismo-leninismo. Riconsiderato a 25 anni di distanza, il rapporto «segreto» si mostra per quello che fu realmente e cioè lo strumento per un vero e proprio «golpe» ideologico e politico mirante a cancellare nell'Urss e altrove quanto sussisteva del regime della dittatura del proletariato e del partito leninista. Non ci si trova dinnanzi ad una analisi e ad un giudizio storici, ma in presenza di un pamphlet di scadente qualità dove si mira soprattutto all'effetto immediato.

Vediamo innanzitutto i singolari aspetti della «segretezza» di questo documento. Chiudendo la sua esposizione, Krusciov dichiarò: «Dobbiamo esaminare con tutta serietà la questione del culto della personalità. Non possiamo permettere che l'argomento esca dall'ambiente del partito e sopratutto che vada in pasto alla stampa: per questo che lo trattiamo qui, a porte chiuse. Dobbiamo avere il senso della misura ed evitare di fornire armi al nemico. Non dobbiamo lavare i nostri panni sporchi sotto i loro occhi». In contrasto con queste belle affermazioni, sta il fatto che il resto del rapporto «segreto» mai diffuso tra il popolo sovietico venne. inviato nelle democrazie popolari per i «dirigenti di partito» e, non a caso, da Varsavia nel maggio 1956 finì direttamente nelle mani della C.I.A. statunitense.
Qui comincia il «bello» della vicenda.
L'autorevole «New York Times» del 25 dicembre 1977 ha rivelato nel corso di una serie di articoli dedicali alle infiltrazioni della C.I.A. nel campo dei mezzi di comunicazione di massa mondiali e senza essere stato smentito che la C.I.A. stessa, venuta in possesso di un documento così ghiotto ma giudicandolo evidentemente insufficiente per gli obbiettivi sensazionali che se ne riprometteva, provvide nei suoi uffici della Virginia a inserire brani compilati dai suoi agenti in ben 34 punti del testo originale (periodi, capoversi, interi paragrafi). I comunisti di tutto il mondo appresero così «gli errori e i delitti di Stalin» dalla stampa borghese. Ultimo, ma certamente non meno sconcertante aspetto della «segretezza» del rapporto, è il fatto che il testo del rapporto di Krusciov, quantunque inquinato dalla C.I.A. non è mai stato apertamente disconosciuto dal suo primo autore, forse compiaciuto dell'effetto amplificatore prodotto dalla collaborazione, volontaria o involontaria che fosse.

Entrando nel merito del lunghissimo documento, il contenuto si può riassumere in due argomenti: polemica col «culto della personalità» di Stalin «errori e delitti» derivati da tale «culto». È incontestabile che il «culto» di qualsiasi dirigente del movimento comunista internazionale costituisce una manifestazione anomala e patologica alla luce del marxismo-leninismo ed è incontestabile pure che negli ultimi anni di Stalin il «culto» avesse attecchito ampiamente e non nella sola Urss, distorcendo il corretto rapporto dirigenti-partito-classe-masse. Krusciov ha quindi buon giuoco nel condannare in maniera ossessiva il «culto» di Stalin, tanto più in quanto egli, ciò facendo, muove da posizioni «leniniste» e propone ripetutamente come modello corretto i comportamenti di Lenin.

Tuttavia oggi la sappiamo lunga sul «leninismo» di Krusciov e non possiamo perciò che concludere che il «ritorno a Lenin» di Krusciov è stato una copertura abile quanto ingannevole per facilitare la «destalinizzazione», per non parlare di tutto quello che è venuto dopo. Oltre a ciò, nel rapporto di Krusciov inquinato dalla C.I.A. manca qualsiasi approfondimento delle cause politiche e sociali del «culto». Questo sarebbe effetto della paranoia di Stalin e della sua sete di potere assoluto. Ma, analizzando bene la cosa sulla base di ciò che è avvenuto poi anche in Cina per Mao, si finirà per scoprire che i più interessati ad alimentare il «culto» in certi paesi socialisti ed anche in certi partiti comunisti sono proprio quei gruppi e quei settori dell'apparato del partito e dello stato che lavorano per la successione nel potere e per un capovolgimento della linea generale. Nell'intento unilaterale di demolire la figura e l'opera di Stalin, Krusciov affastella aneddoti incontrollabili, esagerazioni e persino assurdità ridicole. Stalin dirigeva le operazioni militari su un «mappamondo». Stalin diceva del maresciallo Zhukov che questi decideva o non di attaccare dopo aver raccolto e annusato una manciata di terra. Stalin «conosceva il paese e l'agricoltura solo attraverso i films». «I fatti e le cifre non lo interessavano minimamente». Con particolare accanimento Krusciov si sforza di annientare la fama di stratega e di organizzatore militare di Stalin. Incurante, o forse ignorando ciò che avevano scritto a tal riguardo vari conservatori insospettabili, tra i quali Churchili e sir Alanbrooke, capo di stato maggiore generale delle forze britanniche durante la seconda guerra mondiale, Krusciov assicura che una opportuna revisione porterà ad un ridimensionamento di Stalin anche su questo terreno. Previsione smentita, peraltro, dallo sviluppo ulteriore della storiografia militare sovietica che non ha mai contestato il ruolo eminente di Stalin.

Ma il nocciolo del rapporto di Krusciov inquinato dalla CIA e l'argomento che diverrà il cavallo di battaglia dell'antistalinismo e dell'anticomunismo sul piano mondiale, è quello delle «repressioni» staliniane fra gli anni 1934 e il 1938. Non si può certamente dire che il documento a tale proposito sia ricco di fatti e soprattutto di prove. Si illustrano a lungo tre casi di militanti di partito che sarebbero stati ingiustamente condannati a morte (Eikhe, Rudzutak, Rozenblum), si menziona qualche altro nome di sfuggita per periodi più recenti e poi si forniscono cifre praticamente incontrollabili senza la consultazione degli archivi sovietici: 7.679 riabilitati dopo la morte di Stalin, 98 su 136 membri del Comitato centrale uscito dal XVII congresso del PCUS (1934) condannati a morte; i due terzi di quei congressisti arrestati in quegli anni. Altre repressioni degli anni successivi sono indicate genericamente e affastellate insieme: deportazioni di alcune piccole minoranze nazionali compromesse nel collaborazionismo coi nazisti invasori, «affare» di Leningrado, cospirazione nazionalista in Georgia, complotto dei medici e infine - stranamente ma forse non casualmente mescolata all'elenco delle repressioni interne - la rottura dei rapporti con la Jugoslavia titoista nel 1948. Tutti gli esempi citati vengono generalizzati, amplificati e ripetuti nel documento creando in tal modo l'effetto desiderato e cioè di fornire di Stalin l'immagine di un despota assoluto, che agiva per libidine di potere secondo procedimenti puramente terroristici e che quindi era responsabile di tutto, al massimo con l'ausilio dei capi della polizia politica (per ultimo, Beria). Tutti gli arresti e le condanne appaiono quindi ingiustificati. Le confessioni estorte tutte con la tortura. Le riabilitazioni post-staliniane riguardano così soltanto innocenti, anche se di ciò non viene prodotta alcuna documentazione.

Se il discorso critico si dovesse limitare al rapporto di Krusciov, la cosa avrebbe un significato limitato. Oltretutto, oggi quel documento è quasi dimenticato dall'opinione pubblica e dalle masse. Tuttavia esso ricupera tutta la sua importanza primaria, ideologica e politica. per la storia dell'antistalinismo e dell'anticomunismo se si considera che in fondo esso costituisce l'archetipo, il cliché, di tutta l'enorme produzione di carta stampata, di discorsi e persino di spettacoli, con cui i mezzi di comunicazione di massa controllati dalla borghesia capitalistica hanno falsificato sistematicamente sul piano mondiale i termini reali della lotta di classe nell' Urss e nel mondo per un intero periodo storico. Infatti gli anni delle repressioni staliniane, gli anni '30, furono anche gli anni in cui la grande crisi attanagliava le economie dei paesi capitalistici provocando scontri politici e sociali sempre più acuti all'interno e contrasti politici, economici e diplomatici crescenti fra i vari imperialismi. Aggressioni imperialiste e fasciste creavano focolai di guerra in Cina, in Etiopia e in Spagna. Il nazismo, il regime dell'anticomunismo più feroce al potere in Germania, scatenava una nuova febbrile corsa agli armamenti, proclamava apertamente i propri obbiettivi di una nuova spartizione violenta del mondo e dell'annientamento del comunismo e dell'Urss. Favoriva in tutti i paesi dell'Europa e del mondo la costituzione di «quinte colonne» filo-naziste aventi il compito di disgregare dall'interno le democrazie borghesi coi metodi del terrore e della violenza. L 'Urss, la prima dittatura del proletariato nel mondo, isolata ed accerchiata, ancora arretrata economicamente, era allo stesso tempo obbiettivo delle dichiarate mire fasciste e dei tortuosi disegni degli altri paesi imperialisti che si sforzavano di rovesciare verso l'Est l'aggressività hitleriana.

All'interno dell'Urss, la direzione staliniana, dopo la scelta obbligata della costruzione del socialismo in un paese solo, aveva affrontato i ciclopici problemi della industrializzazione e della collettivizzazione dell'agricoltura a tappe forzate, in previsione della incombente nuova guerra mondiale imperialista. Stalin e la maggior parte del Pcus godevano di un vastissimo seguito tra le masse degli operai e dei contadini poveri e medi. Ma sussistevano anche notevoli frange sociali all'opposizione, costituite dai numerosi resti delle classi rovesciate, dei Kulak recentemente espropriati e della piccola borghesia insofferente del socialismo. Questa opposizione era politicamente rappresentata principalmente nella «destra» del Pcus (Bukharin) ma i più attivi avversari del potere sovietico erano i trotzkisti e i loro fiancheggiatori i quali, dopo la sconfitta e l'esilio del loro massimo esponente, si erano andati organizzando in forma clandestina, con obbiettivi di infiltrazione, di disgregazione e di destabilizzazione del partito, dell'apparato statale e dell'economia coi metodi del sabotaggio, dello spionaggio, del terrore ed eventualmente del ricorso al «golpe» militare.

Trotzkij prevedeva la guerra a breve scadenza e riteneva che l'Urss sarebbe rimasta schiacciata fra Germania e Giappone. Perciò sollecitava pressantemente l'opposizione di destra e di «sinistra» a stringere un'unità di azione e ad accelerare e radicalizzare i metodi di lotta perché la guerra sarebbe stata comunque l'occasione per rovesciare Stalin e per conquistare il potere. Le carte del periodo, appartenenti all'archivio Trotzkij, depositato nella biblioteca Houghton dell'università di Harvard (Usa), sembra chiariscano largamente tutto ciò, testimoniando la gravità dei piani dell'opposizione destra-trotzkisti.

Che quest'ultima abbia concordato e sincronizzato i propri piani con gli stati maggiori e i servizi segreti della Germania nazista e del Giappone militarista, i processi celebrati a Mosca fra il 1936 e il 1938 lo sostengono mentre i trotzkisti seguitano a negarlo recisamente e di certo la cosa è oggetto di un dibattito storico ancora aperto e che forse non si potrà mai concludere. Ma oggettivamente, per i suoi fini eversivi e per la sua azione clandestina e violenta, l'opposizione destro-trotzkista era, nell'interno dell'Urss, l'equivalente della «quinta colonna» negli altri paesi. Non fu facile combattere una lotta tanto acuta, avente caratteristiche di «contro-guerriglia» politica contro numerosi avversari annidati anche ad alto livello negli apparati del partito, del governo, della direzione economica e persino della polizia e delle forze armate. Si trattava di una lotta intestina in cui l'acquisizione della «certezza legale» dei reati è difficile e inevitabilmente dà luogo alla «certezza morale» o politica affidata alle inquisizioni poliziesche e ai metodi amministrativi. Per questo le «purghe» staliniane, attuate con l'epurazione del partito, con gli arresti, le carceri e le fucilazioni di esponenti dell'opposizione, finirono talvolta per colpire nel "mucchio" e provocarono anche persecuzioni ingiustificate e vittime incolpevoli. Alcuni torti furono riparati nell'imminenza e nel momento dell'aggressione nazista e conseguirono lo scopo di ricuperare onesti militanti di partito ed efficienti quadri militari per la lotta suprema e per la vittoria sul fascismo. Quanto allo scopo politico principale perseguito dalle repressioni staliniane, quello di stroncare preventivamente una opposizione interna che poteva divenire pericolosa o addirittura esiziale nel momento della guerra e dell'invasione, la storia indica nei fatti e nei risultati che esso fu conseguito, quali che fossero i costi pagati.

Una fonte insospettabile, Churchill, definì ,i processi e le «purghe» nell'Urss come «una spietata ma forse non inutile epurazione politico-militare». L'ambasciatore statunitense I.E. Davies, che seguì attentamente per conto del presidente Roosevelt vari pubblici dibattimenti dei processi di Mosca e notò, fra l'altro, che la maggior parte degli imputati non appariva affatto spezzata nel morale, controbatteva le accuse e si sforzava di non fare rivelazioni, annotò in seguito: “In Russia è mancata la cosiddetta «aggressione interna» pronta a collaborare con l'Alto comando tedesco... Il perché di questo va cercato nei cosiddetti processi di tradimento o di epurazione a cui avevo assistito e di cui avevo sentito parlare nel 1937 e nel 1938... Tutti quei processi, epurazioni e liquidazioni che sembravano allora tanto violenti e che scandalizzarono il mondo, appaiono ora chiaramente come uno degli aspetti del vigoroso e risoluto sforzo del governo di Stalin per proteggersi non solo da una rivoluzione all'interno, ma anche da un attacco dall'esterno”.

Queste, a nostro modo di vedere, sono le reali componenti storiche delle repressioni staliniane. Nulla può essere capito di quanto accadde allora, e nemmeno di quanto accadrà più tardi (fra l'altro, una sorta di rinnovata collusione ideologica e politica fra «destra» revisionista del movimento comunista mondiale e seguaci del trotzkismo) se ci si affida soltanto al soggettivismo, all'idealismo, all'unilateralità e alle vere e proprie distorsioni della verità storica contenute nel rapporto di Krusciov inquinato dalla CIA e nella gran parte della produzione più o meno «storiografica» che ne è derivata.




Stalin: un bilancio?


L'influenza esercitata dalla personalità di Stalin sul corso di taluni fra i maggiori avvenimenti storici della nostra epoca, costituirà indubbiamente un motivo di ricerche e di dibattito appassionati per gli storici nei prossimi decenni e forse ancora per qualche secolo. Il giudizio delle grandi masse umane al riguardo fluttuerà ancora a lungo, condizionato dalle vicende della lotta di classe che si combatte in modo sempre più duro sul piano mondiale, contrassegnando l'epoca della transizione dal capitalismo al socialismo. Ma è possibile già oggi tentare un primo bilancio storicamente attendibile dell'opera di Stalin? La risposta non può essere univoca. Da un punto di vista scientifico, ossia tecnico-storiografico, l'impresa appare ardua e gravida di pericoli di improvvisazione, presunzione e superficialità. Molte sono le scelte operate da Stalin su cui ancora non è praticamente disponibile alcuna documentazione e incerte o contraddittorie ne sono le fonti e le valutazioni. Ma, d'altra parte, un giudizio su Stalin è anch'esso un aspetto di una grande lotta ideologica e politica in corso e il risultato di questa lotta condizionerà, in ultima istanza, lo stesso giudizio storico. Infine, se con la scomparsa di Stalin si è chiuso un intero periodo storico, si sta ora concludendo anche il periodo che gli è succeduto. Il «panorama» storico ci si presenta così sufficientemente nitido nelle sue linee fondamentali anche se molti particolari non sono ancora «a fuoco» e forse non lo saranno mai. In ogni caso, per non cadere nell'angustia della storiografia idealistica e delle sue reviviscenze moderne, oppure nel soggettivismo del revisionismo, è necessario richiamare la lezione del materialismo storico e in particolare le pagine sulla funzione della personalità nella storia. Secondo tale concezione il processo di sviluppo delle società umane e gli avvenimenti storici attraverso cui si realizza, sono determinati in maniera più generale e decisiva dai modi della produzione materiale, dallo sviluppo delle forze produttive e dai connessi mutamenti dei rapporti di produzione, ossia quei rapporti economici e sociali che si stabiliscono tra gli uomini occupati nel processo della produzione stessa. Accanto a queste cause generali agiscono varie cause particolari, quali l'ambiente storico determinato in cui si sviluppano le forze produttive di un singolo popolo, a sua volta condizionato dagli analoghi processi di altri popoli. L'influenza delle cause particolari è completata dal concorso di molteplici cause singolari o individuali, tra cui in prima linea figurano le particolarità personali degli uomini politici o comunque detentori di potere, oltre a vari tipi di «casualità» e di «variabili».

Le cause singolari imprimono agli avvenimenti storici la loro «fisionomia individuale». Taluni individui, grazie a certe particolarità della loro personalità, quali la volontà, la lungimiranza, il talento, il coraggio, ecc., possono influenzare, anche in maniera importante, le sorti della società, possono cambiare la «fisionomia individuale» degli avvenimenti e talune conseguenze parziali (ad esempio, accelerando o ritardando taluni processi, ecc.). Tuttavia, la possibilità stessa e comunque la portata di tale influenza individuale, vengono predeterminate da tutta l'organizzazione della società, ossia dallo stato dei rapporti sociali, il che esclude che gli accadimenti seguano un corso radicalmente diverso da quello determinato dalle cause generali e particolari. Pertanto una personalità umana diviene realmente grande quando l'individuo più «capace» socialmente assume l'iniziativa e la responsabilità di adempiere le grandi necessità sociali della sua epoca, arreca un contributo decisivo alla soluzione dei problemi scientifici, indica con chiarezza le nuove esigenze sociali prodotte da tutto il precedente sviluppo culturale, economico e politico. Egli non può arrestare o deviare totalmente il corso naturale e necessario delle cose ma la sua azione costituisce una espressione cosciente e, in una certa misura, libera del corso necessario e incosciente dei rapporti sociali. «In ciò consiste tutta la sua importanza e tutta la sua forza.» osserva Plekhanov «Però questa importanza è colossale e questa forza tremenda».

Ora l'azione di Stalin si esplica nel periodo storico in cui la catena mondiale dell'imperialismo si spezza in uno dei suoi anelli deboli, la Russia zarista. Qui nasce il primo potere proletario della storia, si rafforza, costruisce strutture socialiste e si contrappone al mondo capitalistico attraverso gli urti più duri. Questo potere diviene il centro e la «testa di ariete» del movimento comunista ed operaio internazionale e del movimento di liberazione nazionale dei popoli oppressi. Questo potere è la dittatura del proletariato di cui Lenin è stato l'architetto geniale e Stalin sarà il costruttore rigoroso. L'azione di Stalin coincide perciò con lo sviluppo e l'affermazione del regime politico e sociale della dittatura del proletariato, s'intreccia, a volte in modo inestricabile, con l'azione del partito leninista, del regime sovietico e quindi delle grandi masse proletarie russe. Stalin e la sua direzione esercitano pertanto la loro influenza in un contesto storico di avvenimenti, di scelte e di orientamenti le cui cause generali e determinanti sono la rivoluzione proletaria e il passaggio dal capitalismo al socialismo in Russia; le cause particolari, l'ambiente storico che imprime talune particolarità sia al passaggio rivoluzionario che alla dittatura del proletariato e alla costruzione del socialismo. Infine, le cause individuali sono costituite in una certa misura dalle caratteristiche della personalità di Stalin.

Si tratta di trent'anni di mutamenti grandiosi, di successi storici conseguiti non soltanto nell'interesse della classe operaia sovietica ma di tutto il proletariato internazionale. Ad essi contribuirono con sacrifici sovrumani in primo luogo le masse lavoratrici sovietiche, sostenute dalla solidarietà del proletariato mondiale. In tutto questo periodo Stalin diresse il partito e lo stato sovietici e, in misura importante, anche il movimento comunista internazionale, grazie alle sue doti di fermezza ideologica e di inflessibilità politica, accoppiate alla duttilità e all'empirismo nel campo tattico. Strategicamente, furono perlopiù gli orientamenti di fondo delle grandi masse lavoratrici dell'Urss ad ispirarlo, tranne forse negli ultimi anni di vita in cui la situazione obbiettiva lo costrinse qualche volta ad imporre la propria volontà anche controcorrente. Nell'insieme la sua opera di direzione, che si attenne alle grandi indicazioni leniniane, fu adeguata alle esigenze vitali della dittatura di classe. In tempi di ferro, che ricordano - ma estesi sui decenni - gli anni superbi della rivoluzione francese, la sua fu una direzione dalle caratteristiche giacobine, «robespierriste», spietata nel rigore, accentrata al massimo nelle forme ma poggiante stabilmente sulle forze sociali motrici della rivoluzione. I grandi nodi storici di quel periodo sono noti: la decisione della costruzione del socialismo in un paese solo, con i corollari della priorità dell'industria pesante e della collettivizzazione accelerata e in parte forzata dell'agricoltura; la condotta politica e militare della guerra contro il nazifascismo e il contributo decisivo fornito dall'Urss alla vittoria della coalizione antihitleriana; la ricostruzione dell'economia sovietica nel dopoguerra e la ferma opposizione ai piani egemonici dell'imperialismo Usa.

La decisione di costruire il socialismo nell'Urss arretrata e accerchiata dai paesi capitalistici, fu dettata dalla stessa necessità storica, dalla stabilizzazione relativa del capitalismo dopo la prima guerra mondiale, dal riflusso della rivoluzione proletaria nei paesi capitalistici sviluppati. In polemica con l'avventuroso ed astratto disegno della «rivoluzione permanente» di Trotzkij, Stalin osservava nel 1924: «che fare se la rivoluzione mondiale sarà costretta a giungere con ritardo? Rimarrà qualche briciola di speranza per la nostra rivoluzione? Trotzkij non ce ne lascia nessuna, perché "gli interessi contrastanti che dominavano la situazione di un governo operaio... non potevano portare ad una soluzione che... nell'arena della rivoluzione proletaria mondiale". Secondo questo piano, non rimane alla nostra rivoluzione che una prospettiva: vegetare nelle proprie contraddizioni e marcire nelle midolla in attesa della rivoluzione mondiale». Stalin e la maggioranza del Pcus, sia pure con differenziazioni interne non trascurabili, avevano fiducia nella dedizione al socialismo degli operai e dei contadini sovietici e comprendevano debitamente anche le esigenze nazionali e statali dell'Urss. Trotzkij, invece, diffidava dei contadini e finiva oggettivamente anche per sottovalutare il ruolo della stessa classe operaia sovietica, negando la possibilità di costruire compiutamente il socialismo nell'Urss senza l'appoggio «statale», ossia del proletariato vittorioso al potere nei principali paesi capitalistici sviluppati. La storia ha dato ragione alla scelta obbligata di Stalin, anche se gli alti costi materiali e morali pagati per la gigantesca operazione hanno influito inevitabilmente su tutta la storia successiva dell'Urss e taluni di essi costituiscono ancora nodi parzialmente irrisolti che ritardano od ostacolano il passaggio alla fase superiore del socialismo, il comunismo.

In tutto questo contesto l'impronta della personalità di Stalin apparve evidente soprattutto nei tempi e nei modi dell'industrializzazione e della collettivizzazione agricola, avviate col primo piano quinquennale del 1929, che provocarono la rottura con una parte della stessa maggioranza del Pcus, la destra bukhariniana, rappresentante della piccola borghesia urbana e agraria oscillante. Ma anche qui la storia non concedeva esitazioni. Il mondo capitalistico precipitava nella grande crisi economica; tutte le contraddizioni politiche e sociali nel mondo si acutizzavano; il fascismo conquistava il potere in Germania, scatenava una febbrile corsa al riarmo; la seconda guerra mondiale veniva preparata da una serie di aggressioni imperialistiche e fasciste che miravano all'isolamento, all'attacco e alla distruzione dell'Urss. Parlando ai dirigenti dell'industria nel 1931, Stalin prevedeva con precisione i tempi decisivi della congiuntura storica: «La storia della vecchia Russia consistette, fra l'altro, nel fatto che la Russia fu continuamente battuta, a causa della sua arretratezza... Noi ritardiamo sui paesi avanzati da cinquanta a cento anni. Dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni. O lo faremo, o saremo schiacciati».

Sulla condotta politica e militare staliniana della guerra antifascista, è utile ricordare almeno due aspetti tra i tanti già noti. Inprimo luogo, l'abile mossa diplomatica del patto di non-aggressione del 1939 con la Germania hitleriana che valse a frustrare i tenebrosi disegni degli imperialisti occidentali tendenti a dirottare contro l'Urss l'aggressione nazista. Insecondo luogo, un fatto inoppugnabile: gli oppositori esterni e interni del regime sovietico contavano molto sulla chiamata alle armi del popolo sovietico, nella speranza, in caso di sconfitta, di un rovesciamento della direzione staliniana, uscita a loro modo di vedere «indebolita» dalle epurazioni del 1934-38. Invece i popoli sovietici fronteggiarono coraggiosamente l'aggressione nazista e l'invasione, si batterono eroicamente a prezzo di sacrifici inenarrabili, sostennero il regime socialista ed espressero, nella loro stragrande maggioranza, una fiducia incondizionata nella direzione di Stalin. Questi in effetti si addossò una parte preminente di responsabilità politiche e militari alla testa del comitato statale per la difesa e del comando supremo, carica che conservò per tutta la guerra. Poteva contare su una serie di abili e valorosi quadri militari coi quali soleva consultarsi strettamente per le decisioni più importanti. Il 3 luglio 1941 chiamò i popoli sovietici alla resistenza ad oltranza. Il 7 novembre di quell'anno, in Mosca investita dalle armate naziste, espresse la sua fiducia nella vittoria finale perché la guerra condotta dall'Urss era una guerra fondamentalmente giusta. La straordinaria mobilitazione militare e industriale di tutto il potenziale umano ed economico dell'Urss, la combattività e la maestria conseguite dalle forze armate sovietiche animate dal partito, produssero la storica vittoria del 1945 con la distruzione del nazismo e del militarismo giapponese e la conquista di nuove più favorevoli posizioni per l'avanzata mondiale del socialismo e della democrazia e con la costituzione di un campo di paesi socialisti o a democrazia popolare.

Tuttavia con la vittoria non cessarono gli anni delle dure prove. L'Urss usciva dalla guerra con un immenso prestigio ma venti milioni di cittadini erano caduti, decine di migliaia di città e villaggi e 32.000 imprese industriali erano state completamente distrutte dagli invasori, il 30% della ricchezza nazionale annientato. La borghesia capitalistica internazionale, spaventata dall'avanzata del socialismo e del movimento di liberazione nazionale in tutti i continenti, si stringeva attorno al potente ed intatto imperialismo Usa che manifestava apertamente le sue mire di egemonia mondiale e a tale scopo agitava minacciosamente l'arma atomica di cui allora era il solo a disporre. Furono anni molto duri, quelli della «guerra fredda». Ancora una volta, sotto la direzione del partito e di Stalin, i lavoratori e tutti i popoli dell'Urss, quantunque giustamente desiderosi di pace, di benessere e di libertà, vennero chiamati a nuovi duri sforzi per la ricostruzione accelerata del paese, per fronteggiare senza cedimenti il ricatto atomico imperialista e per prestare l'aiuto internazionalista ai popoli in lotta per la propria emancipazione. Quando Stalin morì, il 5 marzo 1953, la ricostruzione economica era praticamente compiuta, il Pcus stava affrontando autocriticamente i compiti della sfida ideologica capitalistica, l'Urss era venuta anch'essa in possesso dell'arma atomica e i tentativi, anche militari, compiuti dall'imperialismo per ricacciare indietro il socialismo e il movimento di liberazione nazionale, erano stati respinti, da Berlino alla Corea.

Lungo un cammino così irto di difficoltà e di pericoli mortali, furono commessi non pochi errori. Ciò era in buona parte inevitabile perché si dovettero aprire vie inesplorate. A parte le preziose indicazioni di massima di Marx e di Lenin, mancava il precedente di una esperienza concreta. La «caccia agli errori» di Stalin costituisce da circa un quarto di secolo un importante settore dell'aspra lotta ideologica fra capitalismo e socialismo. La borghesia capitalistica considera tutto un «errore» non soltanto Stalin ma la dittatura del proletariato e tutto il marxismo-leninismo e li combatte furiosamente. I rappresentanti ed agenti dell'ideologia borghese in seno al movimento comunista ed operaio internazionale, da buoni specialisti della mistificazione ideologica e politica si ripartiscono meglio i compiti e non attaccano frontalmente il marxismo-leninismo e la dittatura del proletariato ma concentrano i colpi sugli «errori» di Stalin per poi risalire gradatamente agli «errori» di Lenin e di Marx. I revisionisti moderni si sono specializzati nella denuncia del «culto della personalità» e nelle violazioni del centralismo democratico e della «legalità socialista» compiute da Stalin, ma nel loro soggettivismo hanno evitato di approfondire le cose e tutto sommato preferiscono il silenzio. Gli «eurocomunisti» lamentano la mancanza di «democrazia» nell'esperienza leniniana e staliniana della rivoluzione d'Ottobre e le contrappongono i valori «pluralistici» della democrazia «occidentale» ovvero borghese. I trotzkisti hanno trovato da tempo, e una volta per tutte, la chiave di tutti gli «errori» nella «degenerazione burocratica» dell'Urss e degli altri paesi più o meno socialisti.

Ora è chiaro innanzitutto che la dittatura del proletariato non è la realizzazione della «democrazia» per tutti, ma è soltanto la democrazia per la maggioranza degli sfruttati e la repressione, ovvero la mancanza di democrazia per la minoranza degli sfruttatori. Taluni innegabili e reali errori di Stalin si manifestarono quindi nell'ambito della «democrazia socialista», ossia della democrazia per le classi proletarie sostenitrici della loro dittatura. Si tratta di talune violazioni del principio del centralismo democratico nella direzione del partito, dello stato e del movimento comunista internazionale; repressioni allargate negli anni '30; esaltazione eccessiva del ruolo della personalità dirigente. Stalin, soprattutto dopo il 1945, all'apogeo dei successi, si staccò talvolta in una certa misura dalle masse e in parte vi fu costretto dalla necessità storica e dalla profonda convinzione di operare sempre nell’interesse delle sorti dell'Urss e del socialismo mondiale. La centralizzazione eccessiva del potere provocò soggettivismo e arbitrio in talune decisioni (ad esempio, lo scioglimento della III Internazionale) e facilitò incrostazioni burocratiche. Le purghe degli anni '30 furono senza dubbio eccessivamente estese. Tuttavia le persecuzioni staliniane fino al 1934 furono in realtà colpi politici vibrati agli oppositori piccolo-borghesi della collettivizzazione agricola. Nel 1937-38 furono invece la manifestazione di una lotta senza quartiere condotta contro i settori infidi del partito e dell'apparato statale (burocrati, intellettuali, ex borghesi). Tale lotta ebbe un carattere prevalentemente amministrativo e in ciò sta il limite dell'azione staliniana e l'impossibilità di una vittoria definitiva sulla parte imborghesita della burocrazia. Il «culto della personalità» che ne derivò, fu forse tollerato ma non fomentato da Stalin e lo stesso rovesciamento del «culto», promosso dal XX Congresso, ci appare ormai in questa luce come il contorto e contraddittorio riflesso della inestinguibile ostilità della parte imborghesita della burocrazia verso Stalin e la dittatura del proletariato ch'egli continuava ad impersonare grazie al sostanziale controllo del partito e allo stabile sostegno delle masse lavoratrici e proletarie.

D'altra parte, soltanto una critica autenticamente da «sinistra», ossia marxista-leninista, può individuare e analizzare nella direzione staliniana una fonte di errori nella ripetuta affermazione, che risale all'incirca al 1936, sulla conseguita «unità della società sovietica». Infatti una tesi del genere contraddice alle leggi desunte dal materialismo storico e dialettico sulle perduranti, anche se non antagonistiche, contraddizioni fra le classi e fra le strutture economico-sociali e le sovrastrutture politiche, giuridiche e culturali in particolare nella fase inferiore del comunismo, il socialismo. Su questa categoria di errori i puntigliosi critici da «destra», vecchi e nuovi, dell'azione di Stalin hanno sempre preferito sorvolare prudentemente. Invece una critica marxista-leninista che affronti spregiudicatamente le questioni degli errori di Stalin, rientra nel metodo corretto della critica e dell'autocritica che non soltanto non pone in questione i principi fondamentali della teoria e della prassi ma mira, anzi ad una migliore elaborazione ed applicazione della strategia e della tattica rivoluzionarie. In conclusione, i successi di importanza storica mondiale conseguiti dalla dittatura del proletariato nell'Urss lungo tutto il periodo della direzione staliniana, autorizzano a sostenere che gli errori commessi non erano connaturati col sistema socialista ma furono provocati principalmente da vari fattori storici (e tra questi soprattutto l'arretratezza del paese e la pressione controrivoluzionaria) e da errati metodi di lavoro adottati in certi periodi per determinati settori e per determinare scelte. Nel contempo, la portata grandiosa di questi successi, alla cui «fisionomia individuale» Stalin contribuì con l'influenza della sua eminente personalità, stabiliscono nettamente, storicamente, che i suoi meriti dinnanzi al movimento comunista ed operaio internazionale sopravanzano di gran lunga i suoi difetti e i suoi errori.

Occupandosi della questione di Stalin nei giorni del XX Congresso del Pcus e delle denuncie kruscioviane circa il «culto della personalità», i comunisti cinesi ricorsero ad una formula matematica popolare per sintetizzare la loro indipendente valutazione: «i meriti e gli errori di Stalin sono nel rapporto di sette a tre». Oggi, a distanza di un quarto di secolo, quando le emozioni suscitate in quell'anno «indimenticabile» sono ormai estinte, e il periodo storico che ne prese avvio sta concludendosi; il revisionismo ha iniziato il suo declino e grandi orizzonti si aprono per nuove avanzate del marxismo-leninismo, pensiamo che quel rapporto può essere ulteriormente migliorato da una più approfondita valutazione delle cose. Non si tratta più soltanto di analizzare «meriti ed errori» del passato ma di richiamare anche le indicazioni staliniane destinate al futuro più o meno lontano.




II testamento di Stalin


Non sappiamo se Stalin ha lasciato un testamento politico vero e proprio. Probabilmente un tale documento non esiste. Tuttavia negli interventi noti degli ultimi mesi della vita, Stalin lasciò alcune indicazioni fondamentali su taluni problemi storici del movimento comunista ed operaio internazionale nel periodo in corso del passaggio dal capitalismo al socialismo sul piano mondiale. Queste indicazioni testimoniano la sua inscuotibile fiducia nella forza espansiva dei principi e della prassi del marxismo-leninismo e confermano la sua sollecitudine per il futuro dell'Urss e del socialismo mondiale. Queste indicazioni riguardano principalmente l'internazionalismo proletario e i compiti storici dei partiti comunisti, i problemi della pace e della guerra e il passaggio al comunismo nell'Urss. Richiamarle, non costituisce soltanto una esercitazione storiografica. Il riconoscimento della loro validità riveste un preciso significato politico-ideologico nelle complesse controversie attuali sulle vie del socialismo.

a) L’internazionalismo proletario e i compiti storici dei partiti comunisti

Nell'ultima seduta del XIX Congresso del Pcus. tenutosi nell'ottobre del 1952, Stalin con un conciso intervento ricordò innanzitutto i rapporti di mutuo appoggio sempre intercorsi fra il Pcus e gli altri partiti comunisti, fra l'Urss e gli altri popoli «fratelli». Sottolineò il grande contributo fornito dall'Urss, «reparto d'assalto» del movimento rivoluzionario e operaio internazionale, in specie con la vittoria nella II guerra mondiale che aveva liberato i popoli dell'Europa e dell' Asia dalla minaccia della schiavitù fascista. Dichiarò poi che il difficile «compito d'onore» addossatosi dall'Urss quando era sola, veniva ora agevolato dalla costituzione dei nuovi «reparti d'assalto» delle democrazie popolari, dalla Cina alla Cecoslovacchia. Si rivolse quindi ai partiti comunisti o «operai-contadini» che si trovavano impegnati in lotte, talvolta durissime, sotto il tallone delle «draconiane leggi borghesi». Il loro lavoro, indubbiamente difficile, era tuttavia illuminato dalle esperienze di «errori e di successi» compiute dall'Urss e dalle democrazie popolari. Inoltre - affermò Stalin - la borghesia internazionale si è trasformata in modo molto profondo, è diventata più reazionaria,, ha perso i legami col popolo e quindi si è indebolita. Prima praticava il liberalismo, difendeva le libertà democratico-borghesi. Oggi del liberalismo non rimane più traccia. È scomparsa la cosiddetta «libertà individuale», i diritti della persona sono riconosciuti soltanto a chi detiene il capitale, mentre tutti gli altri uomini sono considerati come «grezzo materiale umano, buono soltanto per essere sfruttato». Anche il principio dell'uguaglianza dei popoli e degli individui è sistematicamente calpestato, i pieni diritti spettano soltanto alla minoranza sfruttatrice. Prima la borghesia si considerava alla testa della nazione e ne difendeva i diritti e l'indipendenza «al di sopra di tutto». Adesso non vi è più traccia del «principio nazionale» e la borghesia «vende i diritti e l'indipendenza della nazione per dollari». Le bandiere delle libertà democratico-borghesi e dell'indipendenza e sovranità nazionali sono state gettate a mare dalla borghesia capitalistica. Tocca ai partiti comunisti risollevare queste bandiere se vorranno raggruppare attorno a sé la maggioranza del popolo e divenire in tal modo la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che possa farlo.

Gli ultimi trent’anni di storia della lotta di classe nei paesi capitalistici dimostrano quanto sia ancora valida l'indicazione staliniana. Fra l'altro, quei partiti comunisti - in particolare il Pci e gli altri «eurocomunisti» - che hanno gradatamente rinunciato alla lotta per l'indipendenza nazionale, hanno in pari tempo imboccato la via dei cedimenti dinnanzi alla propria borghesia e all'imperialismo Usa e hanno attentato o spezzato i legami fraterni con l'Urss e gli altri paesi del campo del socialismo. Ma questa capitolazione non ha fruttato neppure sul terreno del mantenimento della «democrazia». Sotto l'incalzare della aggravata crisi globale delle società capitalistiche, anche le libertà democratico-borghesi svaniscono aprendo la via alla «democrazia protetta», all'autoritarismo, quando non addirittura a nuove forme più o meno larvate di fascismo.

b) La pace e la guerra

Verso la fine del 1951 nell'Urss si accese un grande dibattito, che impegnò il partito, le organizzazioni economiche e gli specialisti intorno alla proposta di redazione di un manuale di economia politica che raccogliesse in forma sistematica e i principi scientifici elaborati da Marx e da Lenin ed attuati nella costruzione del socialismo nell'Urss. Stalin intervenne più volte nel dibattito e in una di tali occasioni allargò il discorso ai problemi determinanti della pace, della guerra e dell'imperialismo. Basandosi sulle tesi leniniste dell'imperialismo quale causa principale delle guerre nella nostra epoca ed appoggiandosi sull'esperienza storica della prima metà del secolo, Stalin ribadì il principio dell'inevitabilità delle guerre imperialiste provocate dallo sviluppo ineguale dei vari capitalismi, ma sottolineò anche con forza l'inevitabilità delle guerre fra paesi capitalistici osservando: «Si dice che i contrasti tra il capitalismo e il socialismo sono più forti che i contrasti fra i paesi capitalistici. Teoricamente, certo, questo è vero. È vero anche solo oggi, ai nostri giorni, ma era vero anche alla vigilia della seconda guerra mondiale. E lo capivano, in maggiore o minore misura, anche i dirigenti dei paesi capitalistici. Eppure la seconda guerra mondiale non incominciò con la guerra contro l'Urss, ma con la guerra fra i paesi capitalistici. Perché? Perché, in primo luogo, la guerra contro l'Urss, in quanto guerra contro il paese del socialismo, è più pericolosa per il capitalismo della guerra fra i paesi capitalistici, giacché, mentre la guerra fra i paesi capitalistici pone solo la questione del predominio di determinati paesi capitalistici su altri paesi capitalistici, la guerra control'Urss deve invece necessariamente porre la questione dell'esistenza del capitalismo stesso. In secondo luogo, perché i capitalisti, sebbene a scopo di "propaganda" facciano chiasso circa l'aggressività dell'Unione Sovietica, non credono essi stessi a questa aggressività, poiché tengono conto della politica pacifica dell'Unione Sovietica e sanno che l'Unione Sovietica non attaccherà, dal canto suo, i paesi capitalistici». Notò poi che il movimento in difesa della pace (allora molto ampio, combattivo ed omogeneo) pur essendo prezioso per i fini «democratici» del mantenimento della pace oper scongiurare orinviare una determinata guerra, non era sufficiente ad eliminare l'inevitabilità delle guerre fra paesi capitalistici se non si elevava al livello superiore della lotta per il socialismo. Infatti l'imperialismo continuerebbe a sussistere e a conservare le sue forze e quindi a rendere inevitabili le guerre. Stalin concludeva con un grande monito: "Per eliminare l'inevitabilità della guerra, è necessario distruggere l'imperialismo». La «sottolineatura» staliniana sull'inevitabilità delle guerre fra paesi capitalistici anche nell'epoca della coesistenza e del confronto fra imperialismo e socialismo, è importante, nelle sue molteplici implicazioni, per l'elaborazione di una globale strategia antimperialista da parte del campo mondiale del socialismo e del movimento per la liberazione nazionale e per la pace.

c) La costruzione del comunismo nell'Urss

1 - La questione dello «sviluppo delle forze produttive»

Il vivace dibattito attorno al progetto di un manuale di economia politica marxista-leninista si elevò nel corso del 1952 ad una discussione di fondo sulle vie per il passaggio dal socialismo al comunismo nell'Urss. Si delinearono due posizioni contrastanti: quella staliniana fermamente ancorata ai principi del marxismo-leninismo, e quella che sosteneva la teoria dello «sviluppo delle forze produttive». Stalin nel maggio 1952 concentrò la sua polemica sulle tesi dell'economista Iaroscenko, ben comprendendo che questi rappresentava soltanto la «punta emergente» di un iceberg. Iaroscenko sosteneva che nell'economia politica del socialismo non importava tanto discutere delle categorie (quali: valore, merce, denaro, credito, ecc.) quanto sviluppare i temi dell'organizzazione razionale delle forze produttive, della pianificazione dello sviluppo dell'economia, della «giustificazione scientifica» dell'organizzazione. Iaroscenko andava oltre, sostenendo che nel socialismo la lotta essenziale per edificare la società comunista si riduceva alla lotta per la «giusta» e «razionale» organizzazione delle forze produttive e che il comunismo consisteva nella «più alta organizzazione scientifica delle forze produttive nella produzione sociale». Stalin richiamò innanzitutto la lezione scientifica di Marx che metteva in risalto l'importanza dei rapporti di produzione (rapporti degli uomini fra loro) rispetto ai rapporti degli uomini con la natura (forze produttive), nel processo generale e unitario della produzione sociale, socialista o non. I rapporti di produzione riguardano le forme della proprietà sui mezzi di produzione, quindi i rapporti fra i vari gruppi sociali nella produzione e infine le forme della distribuzione dei prodotti. Subito dopo Stalin chiarì il rapporto dialettico esistente fra i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive, sottolineando il fatto che storicamente i rapporti di produzione possono costituire in certi periodi, quando sono superati, un freno per le forze produttive, ma in altri periodi, una volta rinnovati, costituiscono un fattore di propulsione principale (e citò il rinnovamento dei rapporti di produzione introdotto dalla rivoluzione d'ottobre e approfonditosi nelle campagne con la collettivizzazione degli anni '30). Tutto ciò costituiva la materia essenziale dell'economia politica.

Circa il passaggio al comunismo, Stalin denunciò il semplicismo di Iaroscenko secondo cui la formula del comunismo: «A ognuno secondo i suoi bisogni» poteva essere soddisfatta con una organizzazione razionale delle forze produttive che assicurasse l'abbondanza dei prodotti, e ciò senza mutare fatti economici di fondo, strutturali, quali la proprietà di gruppo colcosiana, la produzione e la circolazione mercantili, ecc…. Non si tratta soltanto di questioni di produzione e di consumo ma dello scopo, del compito che la società pone alla sua produzione sociale. Nel regime capitalistico, scopo supremo della produzione di merci è la creazione di plusvalore, del massimo profitto capitalistico da conseguire con ogni mezzo (sfruttamento dei popoli, militarizzazione, guerre). I bisogni reali degli uomini sono praticamente estranei a tale logica. Al contrario, lo scopo della produzione socialista è l'assicurazione del massimo soddisfacimento delle sempre crescenti esigenze materiali e culturali di tutta la società, mediante l'aumento ininterrotto e il perfezionamento della produzione socialista sulla base di una tecnica superiore. Per Iaroscenko la produzione diventa fine a sé stessa e i bisogni dell'uomo scompaiono: una sorta di riaffermazione del primato dell'ideologia borghese sull'ideologia marxista, qualcosa che riecheggiava le tesi di Bukharin sulla «distruzione dell'economia politica» e sulla «tecnica dell'organizzazione sociale». Dopo queste premesse, Stalin espose i punti di vista marxisti-leninisti sulle condizioni per un passaggio effettivo al comunismo. In primo luogo si dovrà assicurare non una mitica «organizzazione razionale» delle forze produttive, ma uno sviluppo ininterrotto di tutta la produzione sociale con uno sviluppo prevalente dei mezzi di produzione, presupposto per una riproduzione allargata. In secondo luogo, occorre elevare la proprietà colcosiana al livello di proprietà di tutto il popolo e sostituire gradualmente alla circolazione mercantile un sistema globale di scambio dei prodotti, controllato nell'interesse della società da un centro economico-sociale. In terzo luogo, per promuovere lo sviluppo culturale dei lavoratori occorrerà diminuire la giornata lavorativa a sei o anche cinque ore, migliorare le abitazioni, aumentare i salari reali di almeno due volte, se non più. Soltanto dopo l'attuazione di tutte queste misure preliminari, il lavoro diverrà non più un «pesante fardello» ma - come dicevano Marx ed Engels - «la prima necessità dell'esistenza», «una gioia».

2 - La questione del superamento della proprietà colcosiana

Nel settembre 1952 Stalin fu indotto ad intervenire nuovamente nel dibattito in corso e questa volta per combattere la proposta degli economisti Sanina e Vensger i quali si erano occupati della capitale questione della trasformazione della proprietà colcosiana in proprietà di tutto il popolo. Stalin comprendeva bene che tali proposte costituivano non soltanto la «punta emersa» di un iceberg ma coinvolgevano pure la fondamentale questione dell'alleanza fra operai e contadini nella costruzione del socialismo e nel passaggio al comunismo. Stalin chiarì preliminarmente che la proprietà colcosiana, pur essendo una forma di proprietà collettiva di gruppo e non una proprietà di tutto il popolo, era tuttavia una forma di proprietà di tipo socialista e non capitalista. Misure di nazionalizzazione o di statizzazione erano perciò da considerarsi del tutto inappropriate, anche perché la proprietà di tutto il popolo con l'estinzione dello stato sarebbe finita storicamente per approdare alla socializzazione. Stalin si occupò quindi della principale proposta avanzata dai due economisti e cioè di elevare la proprietà colcosiana al livello di proprietà di tutto il popolo mediante la vendita in proprietà dei colcos dei principali mezzi di produzione concentrati nelle stazioni di macchine e trattori (SMT). La critica staliniana a tale proposito fu serrata. Innanzitutto era necessario distinguere fra l'attrezzamento agricolo minuto - che veniva correntemente venduto dallo stato ai colcos - e i grossi mezzi di produzione delle SMT. Il primo non decideva in alcun modo le sorti della produzione colcosiana mentre le macchine e i trattori, con la terra, influivano in maniera determinante sulle sorti dell'agricoltura sovietica. Ora, la produttività in agricoltura e l'ascesa continua della produzione agricola nell'Urss dipendevano dal progresso tecnico incessante dei mezzi di produzione, dalla loro continua sostituzione con mezzi più moderni. Ma ciò comportava investimenti giganteschi che potevano essere ammortizzati - a parte le perdite inevitabili - in periodi di non meno di sei-otto anni. I colcos, anche i più prosperi, non potevano addossarsi spese e perdite di tale entità. Soltanto lo stato poteva sostenere tali oneri. Così stando le cose, la proposta di vendita ai colcos delle SMT avrebbe significato perdite e rovina per molti colcos, un declino della meccanizzazione dell'agricoltura e una diminuzione dei ritmi della produzione colcosiana.

Passando ad esaminare l'influenza che la vendita delle SMT ai colcos avrebbe avuto sull'adempimento delle condizioni per il passaggio al comunismo, Stalin rilevò che con la vendita i colcos sarebbero divenuti proprietari dei principali strumenti di produzione, situazione di anormale privilegio non goduta da alcuna azienda sovietica, neppure del settore nazionalizzato. Con ciò la proprietà colcosiana si sarebbe allontanata, non avvicinata, alla proprietà di tutto il popolo e quindi la prospettiva del passaggio dal socialismo al comunismo si sarebbe anch'essa allontanata per questa via. Inoltre un'enorme quantità di strumenti della produzione agricola sarebbe entrata nella sfera della circolazione mercantile. Le conclusioni di Stalin a questo riguardo furono perentorie: «La circolazione mercantile è incompatibile con la prospettiva del passaggio dal socialismo al comunismo... noi marxisti partiamo dalla nota tesi marxista secondo cui il passaggio dal socialismo al comunismo e il principio comunista della ripartizione dei prodotti secondo i bisogni escludono qualsiasi scambio mercantile, quindi anche la trasformazione dei prodotti in merci e al tempo stesso la loro trasformazione in valore». Approfondendo ulteriormente l'analisi, Stalin constatava che i colcos, non essendo proprietari della terra e dei principali mezzi di produzione, erano in realtà proprietari soltanto del prodotto della produzione colcosiana (a parte gli edifici e le aziende individuali dei colcosiani). Tuttavia una buona parte di tale produzione, le eccedenze rispetto alle vendite allo stato, ecc. si riversava sul mercato ed entrava nella circolazione mercantile. Ciò ostacola il processo di elevamento della proprietà colcosiana a proprietà di tutto il popolo. Occorrerà quindi escludere le eccedenze della produzione colcosiana dalla circolazione mercantile e inserirle via via nel sistema dello scambio diretto dei prodotti fra l'industria statale e i colcos. Questo sistema, ancora allo stato embrionale, andrà introdotto gradualmente anche perché presuppone un gigantesco aumento della produzione fornita dalla città alla campagna. Ma la sua progressiva estensione a tutti i rami dell'agricoltura agevolerà anche l'inserimento della produzione colcosiana nel sistema della pianificazione generale e anche per questa via accelererà la transizione dal socialismo al comunismo.

Per trarre alcune prime, per quanto approssimate conclusioni, è necessario delineare un quadro, sia pure molto sommario e in parte lacunoso, degli assetti dell'agricoltura sovietica risultati dal nuovo corso aperto dal XX Congresso del Pcus del 1956 e continuato attraverso gli anni della «destalinizzazione» e della stessa destituzione di Krusciov del 1964. Dalla seconda metà degli anni '50 più volte lo Stato sovietico aumentò i prezzi di acquisto dai colcos dei prodotti più importanti e concesse sgravi fiscali. Nel 1958 venne adottata la fondamentale misura strutturale della vendita da parte dello stato dei mezzi delle SMT ai colcos che ne divennero proprietari. Nel 1964-65 fu vietato alle istanze locali del partito, dei soviet e degli organismi economici, di fissare obbiettivi di produzione ai colcos. Furono ridotte le misure delle consegne obbligatorie allo stato (in particolare per grano, ortaggi, patate, semi oleosi), vennero stabilizzati i prezzi di acquisto e i quantitativi. I crediti ai colcos vennero pagati direttamente dalle banche, senza più l'intermediazione e la compensazione da parte degli organismi degli ammassi. Vennero praticamente annullati i debiti dei colcos verso lo stato, con uno stanziamento di 2.250 milioni di rubli. Fra il 1969 e il '70, in particolare in occasione del II congresso dei colcosiani dell'Urss, vennero adottati nuovi statuti-modello della cooperazione agricola che, unitamente ad altri provvedimenti adottati in quel torno di tempo, comportarono mutamenti profondi nell'ordine della pianificazione, restando attribuite ai colcos le decisioni circa l'estensione delle aree da seminare, il rendimento delle singole coltivazioni del bestiame, mentre lo stato stabilisce la misura delle consegne dei prodotti e della vendita. Ai singoli colcos venne riconosciuta la facoltà di modificare le clausole degli statuti. Non fu più richiesto di precisare l'ammontare del prelievo sui redditi colcosiani da destinare ai fondi sociali. Le relative decisioni furono lasciate ai colcosiani stessi.

In sostanza, i colcos oggigiorno, partendo dal piano statale pluriennale di vendite a prezzi stabili, determinano l'ordine delle loro attività economiche e le priorità nella destinazione dei fondi che all'incirca rimangono fissate come segue: sementi - conti verso lo stato (ammassi, prestiti) - salari - vari. Precedentemente le priorità erano nell'ordine: conti verso lo stato - sementi - salari. I colcos vendono l'eccedenza della loro produzione immettendola sul mercato per la popolazione o cedendola alle cooperative di consumo o agli organismi degli ammassi (a prezzi maggiorati). I pagamenti in moneta si sono andati generalizzando, sostituendo quelli in natura, e ciò sia per i salari colcosiani, sia per i pagamenti dei costi di produzione, debiti verso lo stato, fondi sociali, ecc.. È da notare inoltre che lo sviluppo delle forze produttive nelle campagne ha comportato la nascita e la diffusione di tutto un settore agro-industriale e di mestieri connessi con la trasformazione, conservazione e trasporto dei prodotti, i cui impianti e relativi mezzi di produzione (ad esempio, centrali elettriche, almeno entro certe capacità produttive) sono di proprietà dei colcos. Una rapida rassegna risulterebbe incompleta se mancasse un cenno al settore degli appezzamenti agricoli individuali (concessione della terra a tempo indeterminato), che è un aspetto specifico dei rapporti sociali nell'agricoltura sovietica, sopravvissuto alla collettivizzazione. Negli ultimi anni della direzione kruscioviana si era tentato di limitare questo settore, ma nel 1964 vennero ripristinate le condizioni precedenti. Il 60% della produzione di queste imprese individuali proviene dai colcosiani, il rimanente da operai e impiegati. La famiglia colcosiana ha quindi in uso l'appezzamento individuale e in proprietà la casa e le costruzioni annesse, il bestiame, volatili, piccoli strumenti agricoli e può inoltre avvalersi degli animali, dei pascoli e dei mezzi di trasporto dei colcos. L'importanza e la specializzazione relative di questo settore della produzione agricola può misurarsi dalle seguenti cifre: su una superficie coltivabile pari al 2,7% di quella totale, nel 1977 si allevava circa il 20% del totale di bovini, suini e ovini, mentre la produzione di carne, latte e uova si aggirava attorno al 35% del totale. Una consistente parte di tale produzione viene immessa direttamente nel mercato senza alcun obbligo di consegna. Malgrado la tendenza generale alla diminuzione della parte di popolazione dedita all'agricoltura, la produzione individuale mostra ritmi di sviluppo tendenti alla crescita.

Il senso delle riforme compiute nell'agricoltura sovietica nel periodo post-staliniano sta nell'obiettivo fondamentale di promuovere lo sviluppo delle forze produttive mediante l’interessamento materiale e la partecipazione decisionale dei colcosiani, in un quadro di rapporti economici e giuridici fra stato e colcos che si avvicina molto all’«autogestione». Probabilmente le riforme rispondevano in una certa misura ad esigenze oggettive e ad aspirazioni soggettive reali, in specie se si tiene conto della rigida pianificazione centralizzata precedente e dei grandi sacrifici richiesti per lungo tempo alle masse lavoratrici contadine. Una riprova di tutto ciò potrebbe essere vista nello slancio registrato nella produzione agricola e culminato attorno al 1970 con ottimi raccolti dei prodotti più importanti. Tuttavia l'autonomia economica e la «democrazia colcosiana» portano con sé anche inconvenienti e pericoli seri. È vero che è illusorio costruire il socialismo chiamando le masse lavoratrici a contribuirvi soltanto sulla base dell'entusiasmo o anche della sola convinzione. Ma è anche certo che la proprietà collettiva di gruppo, in specie se rafforzata dal possesso di mezzi di produzione ragguardevoli, e se sottratta in buona parte alla regola di una giusta pianificazione centralizzata e di un corretto e continuo orientamento e controllo politico, costituisce la base per lo sviluppo spontaneo di tendenze psicologiche di massa verso l'egoismo corporativo, l'edonismo e magari il consumismo. Ciò sul terreno soggettivo. Ma sul terreno dei rapporti economici, l'affievolimento del principio centralizzatore della pianificazione e il contemporaneo incremento della circolazione mercantile, fanno riemergere inevitabilmente l'azione di talune leggi economiche inerenti al mercato, tra cui quella della concorrenza ma soprattutto quella della ricerca del profitto. Sulla base della ricerca del profitto, e sia pure di un profitto di gruppo, è breve il passo al processo di una differenziazione economica fra gli strati contadini, per quanto collettivizzati, tanto più se esposti continuamente alla tentazione di un uso e di uno sfruttamento individuale della terra.

È innegabile che le riforme post-staliniane nell'agricoltura hanno comportato una riduzione dell'area della pianificazione centralizzata e un aumento della produzione mercantile con annessa circolazione monetaria e un potenziamento della proprietà collettiva di gruppo. È vero che lo stesso Stalin difendeva la funzione positiva della produzione mercantile e della proprietà collettiva di gruppo nelle condizioni economiche, sociali e politiche del potere socialista sovietico. Ma la sua era una concezione «dinamica» e storicistica del fenomeno. In altri termini, un assetto da utilizzare per un certo periodo (storico) ma con l'impegno risoluto a passare a forme superiori appena possibile. «Nel momento attuale» - scriveva nel maggio 1952 - «questi fenomeni vengono da noi utilizzati con successo per sviluppare l'economia socialista ed essi recano alla nostra società un utile indubbio. Non v'è dubbio che recheranno questa utilità anche nel prossimo futuro; ma sarebbe una cecità imperdonabile non vedere che in pari tempo questi fenomeni cominciano già adesso a frenare il potente sviluppo delle nostre forze produttive in quanto creano ostacoli alla completa estensione a tutta l'economia nazionale, in modo particolare all'agricoltura, della pianificazione statale. Non vi può essere dubbio che più si andrà avanti e più questi fenomeni freneranno l'ulteriore sviluppo delle forze produttive del nostro paese. Di conseguenza, il compito consiste nel liquidare queste contraddizioni mediante la trasformazione graduale della proprietà colcosiana in proprietà di tutto il popolo e mediante l'introduzione - anch'essa graduale - dello scambio dei prodotti invece della circolazione mercantile». Le persistenti difficoltà dell'agricoltura sovietica, i suoi insufficienti ritmi di sviluppo che si ripercuotono sfavorevolmente sull'intera economia socialista e l'accentuazione del fenomeno negli ultimi anni, inducono a ritenere che si tratta proprio del genere di contraddizioni strutturali previste da Stalin. Esse coinvolgono direttamente anche i tempi del processo di transizione al comunismo.

La «destalinizzazione» fu accompagnata da una particolare enfasi propagandistica posta sulla prospettiva ravvicinata della costruzione delle basi materiali e dello stesso passaggio alla fase economico-sociale del comunismo. Il XX Congresso del Pcus indicò l'obiettivo di raggiungere e superare gli Usa nella produzione agricola pro-capite (in particolare latte, burro e carne). Nell'anno seguente fu delineato un piano di 15 anni per cui la costruzione della società comunista diventava «l'obiettivo immediato e pratico del partito e del popolo sovietico». Il XXI Congresso del Pcus del 1959 fu definito il congresso dei «costruttori del comunismo» in una «fase avanzata di costruzione del comunismo» e il piano settennale 1959-65 venne presentato come la «tappa decisiva nella creazione della base tecnico-materiale del comunismo». Oggigiorno, a più di venti anni da quelle enunciazioni trionfalistiche, sono subentrati cautela e realismo. Si continua a sottolineare il ruolo determinante dello sviluppo delle forze produttive. Se ne deduce la possibilità del passaggio al comunismo attraverso un processo graduale e pacifico di integrazione e di compenetrazione delle due forme di proprietà socialista nelle campagne, la proprietà di tutto il popolo e la proprietà collettiva di gruppo. Tuttavia, anche qui la storia non concede all'Urss fasi troppo prolungate di «respiro» o di «grandi NEP». Il socialismo «maturo» potrebbe infradiciare nelle sue stesse basi se la transizione al comunismo ritardasse o venisse procrastinata indefinitamente. D'altra parte, il nuovo approfondimento della crisi generale del capitalismo comporta nuovi conflitti interimperialistici con la connessa tentazione da parte del mondo capitalistico di regolare i conti col campo mondiale del socialismo e con l'Urss. Svanisce il periodo storico della «coesistenza pacifica» e subentra quello delle guerre economiche e della preparazione delle guerre imperialiste. All'Urss incombe ancora una volta il compito storico di fronteggiare, ritardare, deviare o stroncare l'aggressione imperialista, di mantenere e di ristabilire la pace, e comunque di sostenere una pesante corsa agli armamenti e quindi una dura sfida sul terreno economico.

In che modo tali compiti supremi saranno conciliabili col passaggio al comunismo? La risposta è tremendamente ardua. Quel che è certo, è che l'Urss dovrà adottare necessariamente una concentrazione e una pianificazione mai viste di tutte le sue risorse economiche e umane e della sua direzione politica, economica e militare, oltreché favorire processi analoghi nei paesi più o meno avanzati sulla via del socialismo o nel movimento comunista internazionale. È ben difficile che tutto ciò potrà essere conseguito senza un ritorno alla rigorosa definizione ed applicazione in tutti i settori della vita sociale dei principi basilari del marxismo-leninismo.




Appendice

Il giuramento di Stalin alla morte di Lenin

Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di tener alto e serbar puro il grande appellativo di membro del partito.
Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore il tuo comandamento !

Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di salvaguardare, come la pupilla dei nostri occhi, l'unità del nostro partito.
Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche questo tuo comandamento !

Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di rinsaldare con tutte le forze l'alleanza degli operai e dei contadini.
Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore anche questo tuo comandamento !

Lasciandoci il compagno Lenin ci ha comandato di essere fedeli ai principi dell'Internazionale Comunista.
Ti giuriamo, compagno Lenin,
che non risparmieremo la nostra vita pur di rafforzare e di estendere l'unione dei lavoratori di tutto il mondo,
l'Internazionale Comunista !

30 Gennaio 1924