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Convegno su Pietro Secchia - Torino 16/04/05

Intervento di :
Tiziano Tussi,

al convegno
LA RESISTENZA ACCUSA- Pietro Secchia antifascista, partigiano, comunista, Torino, 16 aprile 05

Riandare alla radice delle cose

 

Il mio intervento non avrà come tema Secchia perché su questo non avrei nulla da dire di significativo. Ciò che mi interessa però qui, per questo incontro, è sottolineare il tema della radicalità, che può benissimo trovare un riferimento politico ed umano proprio nella figura di Pietro Secchia. Mi interessa anche discutere del periodo della Resistenza come una situazione temporale che può indicarci alcune linee di analisi, utili per l’oggi.

Gli interventi che mi hanno preceduto mi spingono ancora di più ad intervenire sul crinale teorico che ho proposto, e proprio a partire dalla relazione iniziale di Sergio Ricaldone e dall’intervento del  partigiano che ha conosciuto, nel periodo terminale della Liberazione, Secchia.

L’intervento del partigiano Giorgio Caralli ha portato a tutti noi una testimonianza che ha toccato la corda della sensibilità immediata. Non è stato un intervento organico, né strutturato attorno a temi od obiettivi già preventivati, un intervento senza formalismi. Ma anche questa veste libera, proprio perché guidata da una tensione interna onesta e trasparente, ha fornito un contraltare interpretativo alla relazione iniziale di Ricaldone.

Una proposta di uno scavo profondo che giunga alle fondamenta di una piramide analitica,  per riandare alla radice delle cose. Vediamo un po’ di chiarire questi aspetti ripartendo dalla dialettica di confronto degli interventi precedenti.

Lo scavo storico risponde sempre alla testa di chi lo produce. Si può riandare allo storico inglese Edward H. Carr ed al suo Sei lezioni sulla storia, un piccolo testo, che ha avuto grande fortuna, nel quale Carr, autore di una monumentale opera sulla Russia sovietica, ci indica molti scenari che sono stati anche qui ripresi. Carr ci ricorda, fra l’altro,  che la storia la fanno gli storici e gli storici sono fatti dalla storia che ci illustra la loro costruzione culturale. Quindi anche l’approccio ricostruttivo, in campo storico, anche della storia delle idee, riflette questa costitutività. Un approccio come quello da poco ascoltato poco si interessa di ciò che potrebbe essere congeniale ad un disegno, ad una linea interpretativa, ad una scuola. Va direttamente alla radice delle cose. Evidentemente un approccio simile può spaccare tutta una serie di quadri già prefigurati che invece vogliano tenere fede ad una storia da ri-raccontare.

La radicalità storico non è di poco interesse. Ha una dignità sia a livello di ricerca sia a livello di posizione politica per una lotta culturale, nelle cose.
Il panorama che comincia a formarsi dal secondo dopoguerra sino ai giorni nostri può essere studiato anche cercando di seguire questo crinale di radicalità. Una posizione che potemmo definire assolutamente non ideologica, inerendo come ideologia la costruzione di un più o meno preciso castello d’analisi che deve sempre più sostanziarsi, trovare abbellimenti, sostegni, ma comunque già dato, già costruito.

Una questione importante è sicuramente quella che si aggira attorno al comportamento politico del PCI, dal secondo dopoguerra sino ai tempi più recenti. Ripeto, questo studio può cercar di rispondere a diversi disegni teorici che a loro volta cercano sé stessi nell’interpretazione che coglie alcuni aspetti invece di altri. Varie indirizzi storici si sono dialetticamente scontrati, a volte neppure tanto dialetticamente, su questo tema. Inutile riassumere i punti più controversi. Possiamo con approssimazione, che serve per continuare questo discorso, intitolare il tutto come il “problema Togliatti”, il togliattismo. Una tematica centrale per il rilievo storico del periodo.

Logicamente tale problematica trova una immediata radice di esistenza anche nel periodo della Resistenza e nelle differenze politiche che in esse vi erano. Differenze che sono state molto sottaciute, anche per costruire un luogo di esistenza storico-politica mai stato in assoluto molto reale ma che ha funzionato come cornice per il periodo successivo alla guerra di Liberazione.
Un elemento di questa “armonia” possiamo dire essere stata la cosiddetta “svolta di Salerno” della primavera del 1944, che ha avuto come attore principale proprio Togliatti. Ma la “difficile armonia della Resistenza”, titolo di un libro di Fermo Solari, per una casa editrice ora scomparsa, La pietra, descrive bene questo elemento di radicalità sottaciuto.

Scelte politiche, scontri tra leader e leadership; storie di sottofondo, di scontri sotterranei di uccisioni, a volte anche poco spiegabili e comprensibili, rispondono comunque ad una scontro, ad una dialettica, anche cruenta, tra linee, tendenze. Sistemi di pensiero, che in stato di guerra, assumono anche le caratteristiche violente di esclusione dalla lotta, di eliminazione di alcuni ad opera di altri. Nulla di sorprendente. Pure nella vita politica, di pace, accadono scontri simili, senza spargimento di sangue, laddove non se ne ravvisi il bisogno. A volte con spargimento di sangue. Ed ecco perciò apparire, tra le parole che stiamo spendendo, la “strategia della tensione”, le “stragi di stato”. Un’Italia dei misteri che ha è arrivata sino ad oggi. Basti leggere i libri che Giorgio Galli ha scritto, e continua a scrivere, sull’argomento per trovare un lunghissimo elenco che a volte corriamo il rischio di sottovalutare. Questi scontri, questi violenti contrasti, per avere un senso, per proporre un loro successo duraturo, debbono rispondere ad alcune domande che a posteriori hanno la potenzialità di riamare in piedi per tempi lunghi, anche se si cerca di rispondere continuamente:  a cosa è servito (quanto fatto)? le linee vincenti a cosa hanno portato? quali linee vincenti sono state totalmente tali oppure si sono già snaturate nel corso della loro esistenza, dovendo pagare ad altre linee minoritarie, ma ostative, un pedaggio di organicità, di purezza? In definitiva, se la situazione odierna, di una continua contemporaneità, invera o non invera tendenze storiche e politiche consolidatesi un tempo,  proprio alla luce di ciò che ora è.

E’ chiaro che al momento tutto può apparire giusto, dato che il poi deve ancora avvenire. Ma è proprio il vaglio del dopo che ci disvela la verità storica.
Anche per il fenomeno resistenziale possiamo ragionare in questi termini. Certo non dobbiamo per altro essere fattuali e banali sino al punto di fare dipendere totalmente dall’oggi la bontà di quanto accaduto ieri. Non possiamo operare solo in senso esclusivamente fattuale, con dati di fatto attuali. Così facendo ci ritroveremmo a non capire le stimolazioni di chi, come si dice usualmente, era “in  anticipo sui tempi”, oppure a non comprendere chi si dovesse trovare in “ritardo sui tempi”. Ma una riscontro disvelante la verità profonda di un comportamento storico, quindi teorico e politico, pratico-sensibile, lo si può trovare anche nell’oggi, che proprio perché sempre ci caratterizza, assume in ogni caso grande importanza..

Questa analisi che propongo la indico usando un noi che fa riferimento ad una sinistra che non abbia dismesso l’aggancio a quello che potremmo, con grande ecumenismo,  tanto per capirci, definire la cultura di classe.
Il fallimento culturale che stiamo scontando in questi, tempi confusi ed indecisi, parte proprio dalla vittoria che alcune linee interpretative, non radicali, hanno prodotto in altri decenni – gli anni ’60/’80 – e che ora si trovano a mal partito, non avendo costruito nulla di solido. Pur avendo avuto in quei tempi, grandi opportunità di potere cultuale, che hanno anche messo in campo, nello stesso tempo non si sono rese conto o non avendo voluto accorgersi che le loro costruzione teoriche, appunto non radicali, hanno creato poco a poco una controtendenza che le avrebbe uccise. Un po’ richiamando l’immagine marxiana della borghesia che alleva nel suo seno i suoi becchini, il proletariato.

Non è certo dall’arrivo nel mondo della politica di Silvio Berlusconi, circa dieci anni fa, che possiamo datare una deriva negativa così siffatta. Ciò non è né colpa né merito di Berlusconi se la dirigenza del PDS-DS ha optato di allontanarsi sempre più da una radicalità che continuamente richiamo. I momenti costitutivi di questa mancanza, per non riandare a tempi biblici, la possiamo individuare nel periodo finale della seconda guerra mondiale, della Resistenza e del periodo immediatamente successivo. La radicalità è sempre stata vista come un brutto nemico da chi vuole invece rimanere fermo ad un disegno ideologico.

Due ricordi personali
In una delle manifestazioni degli anni Settanta, non mi ricordo esattamente il momento, in piazza Duomo a Milano un nutrito gruppo di giovani di allora, io ero con loro, hanno così tanto insistentemente fischiato Bruno Storti, l’allora leader della CISL, che questi ha dovuto abbandonare la piazza non potendo terminare il suo discorso. Poco dopo, negli usuali capannelli che si formano alla fine delle manifestazioni, alcuni attivisti del PCI esprimevano grande riprovazione per i nostri gesti dicendo che non era quello il modo di fare politica, essendo il loro, quello del Pci, l’unico che sarebbe riuscito a “spacciare questi democristiani”, alludendo ad un’anima “buona”, di sinistra, della DC, in opposizione ad un’altra “cattiva”, della destra conservatrice  e filo fascista e che fosse possibile separarle. Mentre i comportamenti di critica radicale dei giovani extraparlamentari avrebbero solo favorito un più solido ricompattamento della DC.

Altro scenario.
Un viaggio in Nicaragua nel 1985. Parlando con alcuni esponenti di piccoli partiti comunisti, in questo caso trotskisti, al mio chiedere se non fosse controproducente radicalizzare la rivoluzione sandinista, per non fare fuggire dal Paese i professionisti ed i tecnici, come invece chiedevano dai loro giornali questi piccoli partiti, mi sentii rispondere che invece  radicalizzare la rivoluzione era necessario dato che “del resto chi se ne è voluto andar via dal Paese – tecnici, ingegneri, medici - l’ha già fatto. Quindi nessun problema in questo senso.” Ricordo che i sandinisti presero il potere nel Nicaragua nel 1979.

Serve dire che tutti e due i fenomeni ricordati si sono evoluti in modo non atteso da chi aveva voluto rimanere fedele al proprio disegno, non radicale?
Tale indirizzo si deve servire, deve usare, dati quantitativi, numeri. I numeri non possono venire stravolti, in sé, a favore di questo o di quel disegno predefinito. Sono rivelatori, danno segnali forti.  Un ricorso al fattore numerico, al dato quantitativo serve per rimettere bene in discussione disegni troppo ideologici, aspetti ultra idealistici.

Un esempio.
Nel suo libro di grande successo, Il sangue dei vinti, Giampaolo Pansa, parla del periodo immediatamente alla fine della seconda guerra mondiale. Pochi mesi nei quali si sarebbe consumata una strage di grandi proporzioni ad opera di cattivi partigiani comunisti, nei confronti di altri partigiani non comunisti oppure non comunisti come gli stragisti, che ovviamente erano stalinisti. Ovviamente. Il libro ha venduto, in prima edizione ben trecentocinquantamila copie. Ora è stato recentissimamente ristampato, con nuova prefazione, in edizione economica. Si prevede un altro grande successo! Finalmente la destra può leggere un libro scritto in italiano corretto, dato che autori di destra che lo sappiano fare sono proprio pochini, e nello stesso tempo applaudire ad un “uomo della sinistra” che ha avuto il coraggio di ecc. ecc.; può acquistarne copie a centinaia di migliaia, procurare anche alcuni miliardi allo stesso Pansa per i diritti d’autore: tutti contenti.

A noi interessano i numeri.
Se non ci riferissimo alle cifre potremmo discutere inutilmente, trovando in ogni caso valide ragioni, e adducendo la superiorità  del proprio sistema di pensiero che logicamente corrisponde, per comodità di definizione, in questo caso a paradigmi anti comunisti oppure filo comunisti. Andando invece alle cifre possiamo tranquillamente definire falsa tutta l’operazione di Pansa. Vediamo!

In quel libro si parla di circa ventimila morti ammazzati da partigiani stalinisti, in particolare in pochi mesi alla fine della seconda guerra mondiale. In pochi mesi. Questo riscontro evidenzia tutta l’insussistenza della questione.

Un raffronto. Il numero dei morti, ammazzati nella “guerra sucia”, la guerra sporca in Argentina, dal 1976 al 1983, arrivano alla cifra di trentamila. Altro raffronto. Ventimila sono i morti uccisi in Guatemala, in circa vent’anni, morti campesinos, da squadroni della morte, squadracce di paramilitari e similari. Nel primo caso si ha un sistema di potere teso anche all’eliminazione fisica costante degli oppositori politici. Un sistema, non scontri sporadici. Nel secondo caso oltre alla volontà di uccidere, ammazzando i contadini, tutti i contadini possibilmente eliminabili, vi è anche un lasso di tempo ancora superire a quello argentino. Le cifre assolute sono trenta-quaranta mila, al massimo. Come è possibile pensare sia possibile che alcune bande di stalinisti inferociti, in pochi mesi abbiano ucciso praticamente lo stesso numero di persone. In aggiunta abbiamo poi così bene nascosto i corpi, che si sono poi evidentemente così velocemente volatilizzati, scomparsi totalmente, dato che non si è mai trovata traccia di alcuna fossa comune, che ancora si trovano in Guatemala, e non avendo a dispostone un’aviazione di massacratori per fare scomparire i corpi, gettandoli in mare, il caso dell’Argentina. Questo problema naturalmente non viene neppure affrontato dal Pansa e rimane, anche per lui, un grande mistero. Mistero che sparisce alla luce di un’analisi quantitativa. Risulta essere semplicemente una menzogna. Per di più il Pansa non si è mai sentito in dovere di dissentire da alcuni rappresentanti di associazioni delle vittime di quegli anni, dato che alcuni uccisi vi sono stati, così come alla fine di ogni scontro armato importante, che hanno parlato, anche in presenza di Pansa, in alcune trasmissioni televisive, di almeno quarantamila morti.

Le vittime delle stragi nazifasciste, dal 1943 al 1945, assommano, nelle stime di diversi studi storici sull’epoca, a circa 10-15mila. Anche in questo caso con eserciti organizzati e rivolti anche verso quella funzione. Un esercito di occupazione nazista ed un altro di rinforzo, della Repubblica Sociale Italiana,  scherani repubblichini, che lavorava di rincalzo. La temporalità è almeno circa un anno e mezzo.
Il problema dei corpi uccisi, che debbono essere nascosti, fatti scomparire, non è minimale. I nazisti lo sapevano bene, tanto che inventarono un sistema industriale per eliminare alla radice il problema, bruciando gli uccisi nei forni dei campi di sterminio.
Situazione abissalmente lontana da quelle possibilità per i tremendi e cattivi partigiani stalinisti, che al massimo potevano contare su poche armi, tra quelle non consegnate, e sulla necessità di agire nell’ombra.

I numeri disvelano la menzogna.
L’elemento quantitativo che abbiamo sin qui usato si può aggiungere a quell’altro, dal quale siamo partiti ed alla luce delle domande che ci siamo fatti cercar di rispondere anche in termini di orizzonte teorico storico.

Un problema che possiamo rievocare è quello che potremmo intitolare “la retorica della Resistenza”, fenomeno storico reale che ben si adatta ad essere aggredito da “studi “quali quelli di Pansa. E’ possibile l’aggressione politica proprio perché il fenomeno esiste.
Vi sono logicamente delle motivazioni al suo esserci. Attraverso la solidificazione retorica l’ANPI ha potuto vivere e sopravvivere anche a momenti oscuri e difficili. Quello che stiamo vivendo è uno dei tanti. Inchiodarsi nel tessuto istituzionale, giocare un ruolo di sponda tra le diverse istituzioni ha voluto dire anche questo: vivere.

La retorica della Resistenza ha potuto avere motivazioni di sostanza sino a che esisteva e viveva la retorica della vita politica che alimentava e si alimentava da essa. Un mondo rappresentativo della realtà sociale che lo risolveva su un piano ideologico, usando la retorica. Ed anche se, in prospettiva era sbagliato alimentare quell’orizzonte politico, in senso lato, la forma generale delle cose stava in piedi, per l’immediato. Tale orizzonte non voleva mettere a soqquadro gli equilibri che si erano creati giocando sulla memoria retorica dei fatti immediatamente vicini. Proprio perché tale costruzione ideologica di tessuto era funzionale alle diverse trame dello stesso.

Alcuni intitolazioni di tendenza:  il compromesso storico, la solidarietà nazionale, gli opposti estremismi, l’arco costituzionale. Nonostante questo riferimento teorico di tutta tranquillità, poi le cose spesse, i fenomeni inquietanti venivano preparati sotto la superficie ma esplodevano in superficie: le stragi, le bombe, il terrorismo ed il suo uso. Ma la vita democratica del Paese doveva rimanere salda. Vi sono frasi che si ripetono nel tempo, sempre uguali: non dobbiamo abbassare la guardia; il terrorismo non vincerà; la vita democratica del paese; un attacco alle radici democratiche; ecc. ecc. Frasi che vengono rispolverate secondo necessità, quando occorre, anche ora.

Ma nonostante questa tendenza di fondo all’unione democratica ora c’è un problema in più, un problema politico nuovo che è venuto a mettere a nudo la tendenza retorica di fondo.
La nuova compagine di centro destra al potere da tempo, pur usando scenari retorici - chi non li usa del resto?-, agisce su un crinale che è smaccatamente  - ed è questo quello che conta per  loro – il crinale del potere. Del puro potere. Del semplice e puro potere.
Il nostro agire politico pre berlusconiano invece era tutto teso a scambiare piani di coscienza politica con piani di retorica culturale diffusa. Innescava sensi di colpa parlare di problemi che non si potevano discutere. L’assalto al cielo degli anni ’60 e ’70, le lotte studentesche ed operaie andavano per la verità a colpire, a lacerare, lo spesso velo di questa coltre che tutto copriva. Il senso di colpa, naturalmente è un portato della secolare cultura cristiana.

Un caso che ho di recente ristudiato è stato quello del giornalino studentesco La zanzara, del Liceo Parini a Milano. Nel 1966 un giornalino interno ad una scuola, seppur di livello prestigioso in quanto frequentato dai figli della borghesia bene di Milano, ha interessato l’Italia intera ed i media internazionali. Una inchiesta sulle abitudini e sui pensieri che alcune ragazze della scuola resero noti, per argomenti quali rapporti prematrimoniali, contraccezione e libero amore, sconvolse il Paese. Vi fu un processo, rapido e, per fortuna, una soluzione altrettanto rapida, davanti agli inviati dei giornali nazionali, televisioni e corrispondenti di testate estere. L’Italia era ingessata in un perbenismo di facciata, la retorica che torna, totale. Grande fu in quel caso il disordine sotto il cielo, solo per avere nominato parole proibite, quali profilattico.

Ma intanto scandali, uccisioni eccellenti, stragi,  si consumavano. Già allora una doppia verità.
Quindi retorica che si appoggiava a retorica. Per decenni una egemonismo culturale, ideologico, sia in campo resistenziale, sia in campo politico. Ripeto nonostante tutto il subbuglio che a volte veniva a galla nella società, ma che era subito soffocato dalle frasi prima ricordate, e da atti conseguenti, i famosi depistaggi investigativi e sentenze giudiziaria addomesticate, che facevano da contorno.
Tutto teneva. Certo non in senso definitivo. C’era sempre qualche guastafeste, gruppo di giovani, operai arrabbiati, cenacoli letterario, musicisti fuori linea, cappelloni. Sforzi senza apparente su cesso.

Finalmente il sistema non reggeva più. Un problema di tempi. Non si può continuare all’infinito nella stanca ripetizione di gesti, atti, analisi mai modernizzate. Ecco perciò all’inizio degli anni ’90 i fenomeni che hanno spaccato quel mondo: mani pulite, Berlusconi in campo, scomparsa dei partiti che hanno fatto la Resistenza, l’Italia, la Costituzione. Un nuovo indirizzo di potere, un nuovo potere, anche nella forma.
Forse è il caso di rimettere al loro posto, alla luce del sole, sensibilità minoritarie del periodo esteso che avevano visto giusto, che avevano già denunciato i limiti strutturali di un pensiero e di comportamenti socio-politici che non potevano avere fiato lungo. Per la temporalità storica i decenni sono poca cosa. Ci troviamo ora a dovere ragionare attorno a tematiche, inventarci ricette per uscire da un problema che in modo chiaro già Marx ed Engels avevano indicato, sia per il crinale economico, sociale e culturale e per la posizione politica da tenere.

Il punto morto era già morto decenni fa ma la sopravvivenza della forma partitica e della forma economica di sistemi retorici ha ancora di più aggravato, cercando di allontanarla nel tempo, col risultato però di farla incancrenire, una crisi di fondo del nostro Paese, quale esempio di Occidente. Possiamo pertanto, usando termini assolutamente consueti per chi si interessa di politica, ma che appaiono nuovissimi per gli ingenui del mestiere, indicare un punto morto in Italia, che non appare ancora totalmente marcio per le soli ragioni di vischiosità che abbiamo già citato. La forma sussiste e resiste quando ancora la sostanza è morta. Quando già i rapporti mondiali e nazionali sono saltati. La forma persiste. Da Aristotele in poi, la forma ha una permanenza ottusa.
Ed è a questo punto che il richiamo alla radicalità deve interessare chi fa politica, i comunisti, l’ANPI. 

Ricordo che Berlusconi ha anche una piccola casa editrice intestata a se stesso, nella quale pubblica testi, molto curati, trattano della questione potere: Marx ed Engels, Erasmo da Rotterdam, Machiavelli, sono presenti nel suo prezioso catalogo. Autori che cucinano la teoria del potere, in salse diverse.
Perciò vi è necessità di recuperare il terreno della radicalità che è un segnale atteso da una non piccola parte di italiani che ha sete e fame di questo indicatore. Lo si nota parlando in pubblico di Resistenza e problemi connessi. Quando si radicalizza il discorso non pochi  mostrano di gradire, di essere pronti per riprendere un percorso mai smesso in via definitiva.

Non tutti siamo oramai convinti da ricette culturali imposte, che non vanno alla radice delle cose, alla radice della vita. La vita di ognuno di noi, che ognuno di noi vive nei luoghi di lavoro, quando va a fare la spesa, quando vuole trovare un attimo di concentrazione, di divertimento.
Una radicalità interrotta, soffocata da montagne di retorica che solo dagli anni ‘90 si è scrollata di dosso grazie proprio all’apparire sulla scena politica di Berlusconi  e grazie all’attacco inconsulto, per il potere culturale, economico e politico, che sempre la stessa figura e suoi alleati di comodo, quali ad esempio Pansa , storici revisionisti, opinion makers alla Brunetta, economisti super moderni, hanno condotto sulla scena politica, non vergognandosi di ciò che facevano, di ciò che fanno. L’uscita dal senso di colpa che altri hanno usato in grande quantità, grazie ai loro mezzi, soldi e potere, deve farci riflettere per indurci finalmente a smettere l’abito dell’eterno momento riflessivo che l’uomo di sinistra, comunista, ha assunto da troppo tempo, riprendendo una fondamentale pratica radicale che altri stanno già praticando.

La laicità del pensiero deve essere il nostro terreno di pratica politica. Noi, proletari in senso lato, dobbiamo esercitarla a pieno. Purtroppo la nostra borghesia non esprime capacità in tale direzione,  se le togliamo i conati riformisti, che a volte affiorano a livello di conato, di illusoria volontà di cambiamento, che può però darci conforto, ma se le togliamo i conati altro non rimane.
Rinunciare comunque al senso di colpa dai cambiamenti in atto dall’inizio degli anni ’90 ha toccato temi che la retorica post resistenziale aveva incartapecorito: la Resistenza stessa, la Costituzione. Ora molti si sorprendono delle intenzioni della compagine di centro destra di cambiare alcune parti importanti della Costituzione nata dalla Resistenza ecc.

Quattro ignoranti in materia giuridica hanno discusso pochi giorni in una malga alpina, nell’estate 2003, tra una polenta e l’altra, di come cambiare l’assetto dello stato. Calderoli, un odontotecnico, Tremonti, diciamo un economista, D’Onofrio, mai un congiuntivo al posto giusto, e Nania, senza commento, hanno deciso quello che circa 550 rappresentati all’Assemblea costituente hanno prodotto in un anno e mezzo circa di discussioni.

Molta meraviglia tra i commentatori  politici di centro sinistra, tra chi cerca di organizzare il Comitato a difesa della Costituzione.
Ma non deve esserci nessuna meraviglia. Dall’epoca dei sofisti dell’antica Grecia, nulla deve sorprendere se alcuni politici puntano diritto al cuore di un aspetto del potere di uno stato.
Perché sottostare al santino della Costituzione, se la stessa non è mai stata intereramnte messa in atto. Quando le disposizioni transitorie e finali, quali espressamente quelle sulla Casa sabauda, ora in Italia, e quella sulla impossibilità della  ricostituzione del partito fascista, non sono mai state fatte osservare. Pure per diversi articoli, definiti fondamentali, troppi sono tranquillamente disattesi ancora ora. Per tutti l’articolo 11, sul ripudio della guerra da parte dell’Italia.
Quindi nessun timor riverenziale da parte del centro destra che dimostra di volere andare alla radice del problema, naturalmente dal loro punto di vista.

Come alla radice dei problemi sono andati, da altro punto d’azione, i resistenti tra il 1943 ed il 1945. Non vi fu bisogno di richiami ai valori ecc., c’era solo da scegliere un comportamento non ideologico. Radicale.

Une esempio per tutti
Giaime Pintor scrive al fratello, che poi sarà tra i fondatori de Il manifesto, morto da pochi anni, una lettera, che sarà poi la sua ultima. Un passaggio: ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo, non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e [sarò]un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unico possibilità aperta e l’accolgo”. La lettera è stata scritta a Napoli il 28 novembre 1943. Veramente altre scelte c’erano. Bastava stare tranquilli o indifferenti. Ma il momento politico richiedeva altro. Pintor morirà poco dopo.

Quindi va bene il convegno e vanno bene momenti simili ma occorre riscoprire e praticare il livello della radicalità a cui mi sono richiamato per tutto il mio intervento. Occorre recuperare il ritardo. Althusser spesso ricordava che noi, a sinistra, siamo sempre in “ritardo sul ritardo”.
Solo ovviando a questa contraddizione riusciremo anche a rendere appieno e ad usare anche i convegni che faremo. Altrimenti sarà sempre e solo un altro bel convegno.

Tiziano Tussi