www.resistenze.org - osservatorio - economia - 17-03-11 - n. 356

Il disastro nucleare in Giappone e le conseguenze economiche
 
di Giuseppe Amata
 
Il disastro nucleare in Giappone in seguito al terremoto ed allo tsunani ha scatenato l’informazione e le immagini mediatiche sui danni, sul comportamento della popolazione, sulle conseguenze economiche che ne deriveranno. Temi paralleli riguardano il futuro dell’energia nucleare, in particolare per l’Italia il cui governo Berlusconi da alcuni anni ne tenta un rilancio. L’argomento merita, a mio avviso, un’analisi approfondita sul perché della scelta nucleare e sul futuro non solo del Giappone, ma di tutto il mondo capitalistico.
 
Anzitutto, concordo con tutto il contenuto dell’articolo di Mimmo Vasapollo su Contropiano del 16 marzo (Anche sul nucleare la borghesia italiana è sempre più subalterna al grande capitale europeo) ma desidero svolgere ulteriori considerazioni.
 
Durante il disastro di Cernobyl dovuto ad un errore umano ed al conseguente abbandono della centrale da parte dei dirigenti per recarsi con le famiglie in luoghi più sicuri (e successivamente l’intervento con ritardo di pompieri, militari e lavoratori che hanno sacrificato la vita nel tentativo di spegnere l’incendio e di gettare sabbia, cemento ed altro materiale per costruire un sarcofago attorno al nocciolo esploso), i media occidentali oltre a criticare l’Unione Sovietica per l’arretratezza dell’impianto e per la mancata informazione aggiunsero che in Occidente una tragedia come Cernobyl non si poteva mai verificare, sia perché le centrali installate erano moderne dal punto di vista tecnologico, sia perché l’informazione immediata avrebbe messo al sicuro la popolazione.
 
Nel corso dell’attuale disastro in Giappone i fautori del nucleare sostengono che le nuove centrali che si costruiscono in Occidente sono sicure e che quella giapponese, costruita agli inizi degli anni ’70 doveva essere smantellata ed invece la sua vita è stata prorogata per altri dieci anni, nonostante diversi incidenti che si erano verificati negli ultimi dieci anni, in barba alla tanta declamata informazione democratica vigente nell’Occidente. Sicuramente se succederà fra trent’anni un nuovo disastro nucleare si dirà che il tale impianto era obsoleto e che le nuove centrali saranno sicure al cento per cento.
 
Ma come già scriveva Barry Commoner (Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano, 1972) la natura ne sa una più dell’uomo. In realtà l’installazione delle centrali nucleari è avvenuta ed avviene senza che il quesito scientifico sull’utilizzazione del nucleare sia stato del tutto risolto, in quanto i costruttori delle centrali sono in grado di realizzarle e di avviarle, ma non di spegnerle quando si verifica un incidente e soprattutto non sono in grado di smaltire i rifiuti, i quali conservati in contenitori depositati in magazzini sotterranei in cemento armato di grande spessore vi dovranno restare per migliaia e migliaia di anni in balìa degli eventi umani e naturali.
 
La domanda, quindi, sorge spontanea: perché nonostante la mancata soluzione del problema dei rifiuti sono state insediate in tanti paesi del mondo le centrali nucleari? La risposta non è univoca, perché diverse sono le motivazioni per l’installazione, a seconda dei diversi paesi; alcuni di questi paesi, ad esempio, hanno utilizzato le scorie delle centrali per costruire la cosiddetta bomba atomica sporca, altri per colmare il ritardo nello sviluppo economico, in mancanza di altre fonti energetiche a prezzo più conveniente; altri, i paesi capitalistici più forti, perché con le commesse pubbliche delle centrali nucleari i gruppi monopolistici più forti delle costruzioni civili, dell’acciaio e dell’elettricità nonché i grandi studi professionali di consulenza (dalla costruzione alla valutazione d’impatto ambientale) avevano una grossa torta da spartirsi o l’avranno come è nel tentativo odierno dei gruppi italiani dietro alla scelta del governo Berlusconi.
 
A queste risposte bisogna però aggiungerne un’altra di grande importanza: il nucleare, così come l’automazione e l’informatizzazione dei processi produttivi tende a frenare la caduta tendenziale del saggio del profitto o addirittura ad invertire questa tendenza. Nella relazione marxiana del saggio del profitto, l’energia nucleare in quanto capitale costante, sia come fisso che come circolante, se diminuisce il suo valore nella determinazione del valore complessivo della merce significa una diminuzione del denominatore e quindi un rialzo del saggio del profitto. Questa considerazione è mascherata con la presentazione di conti economici attestanti la convenienza del nucleare per Kwh di energia elettrica rispetto alle altre fonti energetiche.
 
L’imbroglio di questi conti l’ho messo da tempo in rilievo (basti consultare due miei libri, il primo scritto in collaborazione con S. Notarrigo, Energia e ambiente; una ridefinizione della teoria economica, Cuecm, Catania 1987; il secondo, Socialismo come formazione sociale, Cuecm, Catania, 1991), in quanto l’energia nucleare risulta più conveniente perché il calcolo economico è svolto secondo il paradigma “dell’azienda come unità di produzione” (quindi ricavi meno costi aziendali), tralasciando i costi sociali pagati dalla collettività in termini di danni alla salute o pagati economicamente dallo Stato per attenuare i danni dell’inquinamento, senza contare il danno ambientale alla vita degli ecosistemi che non ha un prezzo economico di riferimento. Se invece il calcolo economico lo svolgiamo considerando il “territorio come unità di produzione” ed internalizziamo costi economici ed input ed output energetici il risultato è diverso ed allora viene fuori che il nucleare è quello più costoso ed inquinante, mentre le fonti di energia rinnovabile che magari hanno un più alto costo d’impianto, hanno un minor costo d’esercizio e soprattutto risultano meno inquinanti per il territorio circostante.
 
Il Giappone agli inizi degli anni ’60 aveva una forte opposizione politica da parte dei due consistenti partiti di classe (quello socialista e quello comunista) e da parte del sindacato, tanto da provocare imponenti manifestazioni di massa. Basti pensare all’estate del 1960, quando si é impedito al presidente degli Stati Uniti, Eisenhower, di visitare il Giappone, latore della strategia americana di costruire un cordone nucleare ed economico contro la Repubblica Popolare Cinese, oppure le grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam, con sabotaggio delle merci in partenza dai porti nipponici. Agli inizi degli anni ‘70 con il fallimento della politica americana sulla Cina e con la successiva sconfitta militare in Indocina, il Giappone rivede la sua politica estera ed il primo ministro Tanaka firma a Pechino nel 1972 un trattato economico-commerciale con reciproco vantaggio.
 
Rilancia così il ruolo del Giappone in Asia e nel mondo ed in seguito alla costruzione delle centrali nucleari, dell’automazione, dell’informatizzazione e della nuova organizzazione del lavoro nei processi produttivi, il cosiddetto toyotismo al posto del fordismo (avviando cioè la mobilità e la flessibilità per affermare il precariato e sfruttare la forza lavoro per ricavare un maggior pluslavoro relativo e nello stesso tempo per alimentare una certa aristocrazia operaia, detto paese diventa la seconda potenza economica mondiale, la cui ascesa viene intaccata dalla crisi delle tigri asiatiche nell’estate del 1998. Successivamente con le ultime due crisi finanziarie inizia la fase di declino, tant’è che oggi è la Cina la seconda potenza economica del mondo e la prima per quanto concerne la produzione manifatturiera.
 
Il Giappone, pertanto, è diventato un grande mostro economico e finanziario con una elevata popolazione in una superficie territoriale limitata in seguito al distorto rapporto città-campagna che ha visto crescere enormemente le grandi megalopoli. In questa condizione il disastro nucleare odierno, oltre a danneggiare le popolazioni che vivono a ridosso delle centrali nelle grandi megalopoli, innesca un processo di implosione le cui conseguenze economiche non interesseranno solo il suo territorio ma tutto il mondo capitalistico. E’ questo motivo di ulteriori riflessioni ed approfondimenti.
 

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