www.resistenze.org - osservatorio - europa - politica e società - 09-12-04

da il manifesto dell'8 dicembre 2004

Caso Ucraina - Bush e Putin, destini incrociati


Usa-Ue L'imbarazzo europeo su Kiev, fra Mosca e Washington

RITA DI LEO
Due uomini, due destini, molte somiglianze. Intanto sono nati tutti e due con la camicia. Bush, si sa, è il figlio di un potente businessman il quale in politica ha ricoperto la carica di capo della Cia e di presidente degli Stati uniti. Bush junior, persosi per qualche anno nell'alcool, è rinato grazie ai cristiani evangelici e soprattutto ai repubblicani alla Karl Rove che hanno puntato su di lui come il politico su misura dell'americano medio. Vinto alla grande il secondo mandato, Bush sta ora imponendo l'immagine dell'America che più allarma l'altra metà dell'America, l'Europa e il resto del mondo. Ha cambiato alcuni ministri rafforzando la destra fondamentalista. Sui pochi mass media indipendenti si leggono proteste per «il suo potere assoluto», per le restrizioni alla libertà di stampa, ai diritti civili, per la delega alle istituzione religiose delle politiche sociali che in Europa spettano ai ministeri del lavoro e della sanità e ai governi locali. In politica estera ha reso senso comune che gli Stati uniti possono impicciarsi di tutto quello che succede al mondo.

Sempre in nome della difesa dal terrorismo islamico e per il bene della democrazia globale. Il destino di Bush appare luminoso con accanto Cheney, Rice e Rumsfeld. In seconda fila gli intellettuali neocons maturano vendette per chi li aveva gia dati per emarginati. Tutt'altro appare il destino di Putin, almeno al momento. Anche lui è nato con la camicia, figlio di un operaio comunista in una Unione sovietica orgogliosa della parità strategico-militare con gli Usa. Suo padre ebbe dalla fabbrica un appartamento unifamiliare e vinse persino un'automobile subito regalata al figlio unico: agi e privilegi insoliti nella società sovietica. Lui, il figlio, fu salvato dal teppismo adolescenziale dall'insegnante di tedesco, un'intellettuale ebrea che lo prese in cura sino all'università. Entrò nel Kgb non certo per diventarne il capo come Bush padre con la Cia ma per avere una vita più movimentata di quella da ingegnere che gli spettava come figlio di operai. In realtà passò sette anni a Dresda dove entrò in contatto con un bel pezzo di Europa. Dopo il 1989 ebbe una rapida carriera politica, da aiuto del sindaco di Leningrado a presidente della Russia per volontà di Yeltsin. Ma dal primo momento da presidente non si comportò da uomo di Yeltsin e gli occhi del mondo si appuntarono diffidenti su di lui.


Innanzitutto non si accetta la sua ambizione di voler restituire alla Russia la dignità di grande stato sovrano, di puntare al risanamento dell'economia contro il degrado sociale del paese. Le sue mosse sono bollate come un ritorno al passato sovietico. Nemmeno abolire la festività del 7 novembre gli è servito. In politica interna i suoi sforzi per un riequilibrio del potere centrale sono una prova manifesta di disprezzo per la democrazia e il federalismo. In politica estera è universalmente criticato il suo tentativo di non mollare altri pezzi del territorio che per secoli appartenne agli zar e per 74 anni all'Unione sovietica. La fase più critica per Putin risale alla sollecita telefonata a Bush l'11 settembre 2001. Bush fu commosso dall'immediata offerta d'aiuto nella comune battaglia contro il terrorismo islamico, afgano, ceceno e accettò il contributo dei servizi segreti e dei generali esperti di Afganistan. Tre anni dopo, però, la Russia si è trovata accerchiata ai suoi confini «asiatici» da basi americane, bastioni contro il terrorismo.

Negli stessi anni la contrapposizione tra la Casa Bianca di Bush e l'Europa sulla guerra all'Iraq ha avuto conseguenze per la Russia, schieratasi a fianco di Francia e Germania. La politica Usa del divide et impera tra «l'asse franco-tedesco» e i paesi dell'Europa centro-orientale ha indebolito l'Unione europea proprio nel momento dell'allargamento e dell'integrazione nella Nato. I paesi europei appena entrati hanno pestato i piedi contro l'alterigia di Parigi e Berlino, e si sono messi a completa disposizione di Washington. In cambio hanno auspicato l'isolamento della Russia, il loro vecchio dominus da mettere alle corde. E in più di un'occasione soddisfazioni ne hanno avute. L'ultima è la nomina dei nuovi commissari europei di Barroso, i quali come titolo di merito hanno la provenienza da paesi ostili alla Russia e all'asse Parigi-Berlino-Madrid.

Il caso Ucraina nasce e si gonfia in questo quadro. Nello sfondo c'è una desolante élite post sovietica, incapace di gestire la transizione economica e politica. E' un'incapacità che si ritrova ovunque negli eventi degli ultimi quindici anni nell'Europa centro-orientale. A Kiev la decisione del presidente Leonid Kuchma di lasciare libera la sua carica apre un'importante partita geopolitica nel cuore dell'Europa. Putin e gli uomini di Bush si dispongono a giocarla con accanimento. Altro che le battaglie comuni contro il terrorismo iracheno e ceceno. Qui si tratta di un territorio di 50 milioni di abitanti che contiene una parte cospicua dell'industria pesante e militare dell'ex Unione sovietica. Se si tagliassero i legami economici tra Kiev e Mosca per la Russia sarebbe un colpo formidabile alle sue aspirazioni di ripresa e di ritorno alla pari sulla scena internazionale. Per la Casa Bianca di Bush sarebbe il successo completo della sua strategia divide et impera, la marginalizzazione dell'asse Parigi-Berlino-Madrid.

La prima mossa della partita Bush-Putin è stata di appoggiare ciascuno un candidato, scelti forse buttando una moneta in aria. Infatti i contendenti alle elezioni presidenziali sono l'uno la copia dell'altro, due politici e uomini d'affari con trascorsi ambigui nel business delle privatizzazioni postsovietiche. Subito dopo essere stati scelti, però. sono divenuti uno il campione della democrazia e l'altro il rappresentante dei minatori a rischio di licenziamento. Sul campione della democrazia si sono riversati l'attenzione e gli interessi più vari, dai giovani entusiasti alle forze politiche e al business che cavalcano la prospettiva di una rottura con Mosca. E per questo non hanno badato a spese elettorali. Lode al genio della comunicazione politica che si è inventata «la rivoluzione arancione». Biasimo per chi ha invece puntato sui poveri minatori. Chi può credere di vincere oggi una competizione elettorale mostrando facce annerite di operai stanchi? Per di più nel mondo ex sovietico dove i minatori erano l'emblema mal tollerato del privilegio operaio. Essi avevano paghe più alte e un welfare migliore e pur avendo ormai perso tutto, riproporre una tale icona significa meritare di perdere. Al di là dei brogli elettorali per i quali nei paesi ex sovietici vale la parola di Cristo: chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Il fatto è che a perdere non è solo il candidato dei minatori ma sono Putin e l'Europa. A vincere è la Casa Bianca di Bush. La Commissione di Barroso è stata felice di fare il sollecito portavoce della strategia americana di contenimento delle pretese russe. Il resto dell'Europa è rimasta a guardare, imbarazzata dalle tante mosse sbagliate di Putin. Ma conviene agli europei isolare Putin? E' nell'interesse dell'Europa l'umiliazione della Russia? Indebolire la Mosca di Putin significa rafforzare la Washington di Bush, Cheney, Rice e Rumsfeld.