www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 25-07-04

Uno stato laico come stato degno di decenza


di Tiziano Tussi


Uno stato laico come stato degno di decenza. Forse sarebbe meglio dire uno stato esistente, quale prima necessità da perseguire. La laicità dello stato ne consegue, se per laicità intendiamo il potere vivere secondo la propria personale coscienza. Ciò che mi pare importante sottolineare nell’analisi sulla questione è che si dovrebbe avere sempre in mente che il problema di fondo dello stato consiste appunto nel discrimine tra esistenza o non esistenza dello stesso.

Perché lo stato deve esistere? Perché altrimenti, dove lo stato non c’è – titolo fra l’altro di un bel libro-reportage di Tahar Ben Jelloun di qualche anno fa, reportage sul meridione d’Italia – vi è altro. Dato che da Aristotele in poi è impossibile sostenere l’esistenza del vuoto, dove c’è una assenza di pieno subito si crea un qualcosa che lo ricostituisce.

Ed i sostituti sono peggiori del sostituito. Bastino gli esempi del Kossovo, dell’Afghanistan attuali, e dell’Iraq. Non si discute sul livello di democrazia di ciò che c’era prima ma sulla situazione creatasi dopo la caduta di quei regimi. Il cambio non soddisfa la necessità di modernità, ma è sempre meglio dire, di esistenza dello stato.

Machiavelli pensava che questo fosse l’obiettivo fondamentale di ogni forma statale. Per lui era il principe, artefice della costituzione di una novella entità statale, che al di là di ogni moralità era spinto a fare tutto quanto in suo possesso per ottemperare a quell’esistenza, troppo spesso minacciata. Hobbes pensava che il contratto che gli uomini, bestioni smisurati, come li vedeva il Vico, sottoscrivevano fra loro era così cogente e perciò pesantissimo, ma permetteva loro almeno la sopravvivenza. E si sa che la prima regola per l’uomo è la vita.

Una volta che lo stato esiste deve presentarsi ai propri sudditi come una macchina vuota, da riempire con una struttura burocratica che inveri i suoi obiettivi. Lo stato hegeliano e l’analisi di Max Weber su questi crinali sono essenziali. La vuotezza, estrema forza dello stato, ci ricorda il dover essere  kantiano: “Dovere! Nome grande e sublime, che non comprendi in te nulla che piace e lusinga, ma reclami l’obbedienza”. Fin qui il Kant della Critica della Ragion Pratica. Se al termine dovere sostituiamo il termine stato, il resto rimane comunque in piedi.

La vuotezza della forza dello stato è condizione essenziale della sua esistenza. Una vuotezza che permette, proprio in virtù di essa, a tutti i cittadini di uno stato di vivere secondo le proprie inclinazioni ma in esso. All’opposto si ritornerebbe allo stato di natura che anche Hobbes riteneva il primo elemento di vita pseudosociale degli uomini, da superare.