Uno stato laico come stato degno di decenza
di Tiziano Tussi
Uno stato laico come stato degno di decenza. Forse sarebbe meglio dire uno
stato esistente, quale prima necessità da perseguire. La laicità dello stato ne
consegue, se per laicità intendiamo il potere vivere secondo la propria
personale coscienza. Ciò che mi pare importante sottolineare nell’analisi sulla
questione è che si dovrebbe avere sempre in mente che il problema di fondo
dello stato consiste appunto nel discrimine tra esistenza o non esistenza dello
stesso.
Perché lo stato deve esistere? Perché altrimenti, dove lo stato non c’è –
titolo fra l’altro di un bel libro-reportage di Tahar Ben Jelloun di qualche
anno fa, reportage sul meridione d’Italia – vi è altro. Dato che da Aristotele
in poi è impossibile sostenere l’esistenza del vuoto, dove c’è una assenza di
pieno subito si crea un qualcosa che lo ricostituisce.
Ed i sostituti sono peggiori del sostituito. Bastino gli esempi del Kossovo,
dell’Afghanistan attuali, e dell’Iraq. Non si discute sul livello di democrazia
di ciò che c’era prima ma sulla situazione creatasi dopo la caduta di quei regimi. Il cambio non soddisfa la
necessità di modernità, ma è sempre meglio dire, di esistenza dello stato.
Machiavelli pensava che questo fosse l’obiettivo fondamentale di ogni forma
statale. Per lui era il principe,
artefice della costituzione di una novella entità statale, che al di là di ogni
moralità era spinto a fare tutto quanto in suo possesso per ottemperare a
quell’esistenza, troppo spesso minacciata. Hobbes pensava che il contratto che
gli uomini, bestioni smisurati, come li vedeva il Vico, sottoscrivevano fra
loro era così cogente e perciò pesantissimo, ma permetteva loro almeno la
sopravvivenza. E si sa che la prima regola per l’uomo è la vita.
Una volta che lo stato esiste deve presentarsi ai propri sudditi come una
macchina vuota, da riempire con una struttura burocratica che inveri i suoi
obiettivi. Lo stato hegeliano e l’analisi di Max Weber su questi crinali sono
essenziali. La vuotezza, estrema forza dello stato, ci ricorda il dover essere kantiano: “Dovere! Nome grande e sublime, che non comprendi in te
nulla che piace e lusinga, ma reclami l’obbedienza”. Fin qui il Kant della Critica della Ragion Pratica. Se al
termine dovere sostituiamo il termine stato, il resto rimane comunque in piedi.
La vuotezza della forza dello stato è condizione essenziale della sua
esistenza. Una vuotezza che permette, proprio in virtù di essa, a tutti i
cittadini di uno stato di vivere secondo le proprie inclinazioni ma in esso. All’opposto si ritornerebbe allo stato di natura che anche Hobbes riteneva
il primo elemento di vita pseudosociale degli uomini, da superare.