Tanto tuonò… Che piovve!
Scalate finanziarie, potere politico, l’instabilità del sistema capitalistico italiano ed il futuro della cooperazione.
di Marcello Graziosi
La “guerra delle Opa” dell’estate 2005 non solamente si è conclusa con la sconfitta degli “scalatori” sostenuti da Fazio, ma rischia di scatenare un terremoto sul piano politico in un momento particolarmente delicato, dato l’approssimarsi delle elezioni politiche del 9 di aprile.
Fazio è stato costretto a dimettersi dalla carica di Governatore della Banca d’Italia, Fiorani è stato arrestato, Consorte e Sacchetti si sono dimessi dai vertici di Unipol con un fiorire di conti esteri, Bankitalia ha bocciato l’Opa della società assicurativa bolognese su Bnl, sono stati ritrovati in un garage i bilanci veri delle società di Ricucci e Gnutti, dimessosi da Hopa ed Olimpia, sarà chiamato davanti alla giustizia. Un uragano vero e proprio, quello che si è abbattuto negli ultimi mesi sul sistema economico e finanziario italiano, anticipato, come vedremo, da un sordo rumore di tuoni e destinato con ogni probabilità a protrarsi ben oltre la singola contingenza politica.
Al di là delle inchieste giudiziarie relative al rapporto tra politica ed
affari e delle ormai quotidiane speculazioni giornalistiche, occorre
concentrare l’attenzione su alcuni nodi strutturali che caratterizzano
l’attuale fase di sviluppo del sistema capitalistico, dalla tendenza alla
concentrazione ed al monopolio, all’egemonia sempre più incontrastata del
capitale finanziario su quello produttivo, alla definizione dei possibili
rapporti di forza nel contesto bancario e finanziario europeo (fusioni ed
acquisizioni transfrontaliere, in una logica liberista e mercantile, o elementi
di protezionismo). Solo in apparenza questa analisi è destinata a rimanere su
un terreno astratto, avendo al contrario ricadute dirette sul lavoro, i
risparmiatori, il controllo pubblico dei settori strategici dell’economia, lo
stato sociale, il sistema previdenziale.
Tutti argomenti, questi, che dovrebbero essere cari alla sinistra. Emblematico,
da questo punto di vista, quanto potrebbe accadere alla General Motors, con il
raider Kerkorian disponibile a ricomprare le proprie quote dell’azienda
solamente a patto che tutti accettino un piano draconiano di taglio di costi:
50% per i dividendi e percentuali significative per gli stipendi dei
consiglieri di amministrazione e dei manager (poco male, al limite) e per tutti
i dipendenti, auspicando, bontà sua, che per questi ultimi le diminuzioni
rimangano al di sotto del 10%[i].
Contemporaneamente, sul piano più politico, il lavoro di analisi dovrebbe
partire da un bilancio serio, impietoso e rigoroso delle politiche liberiste
(temperate o meno che fossero) che hanno caratterizzato tutti gli anni ’90 del
secolo scorso (dalle tanto declamate privatizzazioni all’insieme delle riforme
istituzionali, a partire dall’introduzione del sistema elettorale maggioritario
e dell’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia e Regione), anche
in questo caso con pesanti conseguenze per i ceti meno abbienti.
La privatizzazione di Telecom
Dopo aver indagato sulle scalate congiunte dell’estate 2005 ad Antonveneta,
Banca Nazionale del Lavoro ed RCS Mediagroup, l’attenzione degli investigatori
pare concentrarsi sulla privatizzazione di Telecom, realizzata dai governi
Prodi e D’Alema tra il 1997 ed il 1999 (insieme a Ciampi, allora Ministro del
Tesoro, e Draghi, allora dirigente del ministero ed oggi successore di Fazio
alla guida di Bankitalia). Al di là dei possibili risvolti giudiziari, il
bilancio disastroso della privatizzazione dovrebbe far riflettere la sinistra
sulla necessità di riportare sotto il controllo pubblico, pur se all’interno
delle logiche di mercato, alcuni settori strategici (e redditizi)
dell’economia. Sono sempre di più, da questo punto di vista, le voci critiche
che si levano, ma siamo ancora lontani da una decisa ed inequivocabile presa di
distanza dalle politiche dei governi dell’Ulivo della seconda metà degli anni
’90. Evidentemente, la logica liberista e l’ideologia del mercato hanno inciso
in profondità i valori di una parte della sinistra sempre meno riformista.
La prima fase della privatizzazione di Telecom, uno dei pochi “gioielli” di
stato, termina il 24 ottobre 1997, con il Tesoro che incassa 11,2 miliardi di
euro (azioni vendute a 5,63 euro l’una) ma con un fallimento sul piano
politico: gli azionisti di punta sono in grado di controllare il 6,6% del
capitale ed il maggiore di questi, Umberto Agnelli (0,6%), nomina un
amministratore delegato (Rossignolo) che si sarebbe rivelato un disastro.
Cacciato Rossignolo con le azioni Telecom al minimo storico di 4,33 euro, viene
chiamato Bernabè. Quasi in contemporanea emerge la figura di Colaninno che,
insieme al finanziere bresciano Gnutti, si impadronisce della Olivetti
attraverso la finanziaria lussemburghese Bell, controllata dalla ormai famosa
Hopa, con Unipol che entra nel giro acquistando il 6% della Bell in data 7
gennaio 1999. Il 20 febbraio parte l’Opa lanciata dagli ormai noti “capitani
coraggiosi”, Gnutti e Colaninno, con l’evidente sostegno del governo D’Alema.
Il 10 aprile 1999 Bernabè convoca un’assemblea straordinaria dei soci Telecom
per combattere l’Opa ostile, ma non viene raggiunta la quota sufficiente di
capitale rappresentato per poter deliberare (28% del capitale presente sul
minimo richiesto del 30%): determinanti risultano le assenze del Tesoro (3,46%
del capitale) e del Fondo pensioni di Bankitalia. Con Draghi che chiede ed ottiene una lettera scritta del
Presidente del Consiglio per disertare la riunione. Nel maggio 1999, grazie
anche agli ex azionisti di punta, “Olivetti diventa padrona di Telecom –
osserva giustamente Carlo Cortesi – facendo oltre 30 miliardi di euro di
debiti, un fardello che ancora oggi pesa sui telefoni italiani –allora
sanissimi – e ne costituisce il problema principale”[ii].
Conclusione: il risultato della privatizzazione Telecom si rivela un disastro
sul piano strategico ed una tavola imbandita per ogni sorta di speculatori. E’
in questo contesto che si consolida l’alleanza bipolare che avrebbe costituito
l’asse portante delle scalate ad Antonveneta e Bnl dell’estate 2005. Il 28
luglio 2001 Pirelli e Benetton acquistano, attraverso la controllata Olimpia,
il 23% di azioni Olivetti-Telecom da Bell per un totale di 7 miliardi di euro
(4,17 euro ad azione), salvando l’azienda da un probabile disastro ma prestando
il fianco ad un vorticoso giro di speculazioni intorno alle azioni Olivetti.
Secondo una recente inchiesta de “Il Sole 24 Ore”, “Gnutti guadagna 21,7
milioni di euro di plusvalenze e le tre società a lui riconducibili 4 milioni
di euro; Colaninno, da parte sua, almeno 89 milioni di euro”, cifre che
corrispondono a mancate plusvalenze per la Bell. Unipol, da parte sua, si
“limita” a cedere alla società lussemburghese 36,5 milioni di azioni Olivetti
(31 luglio 2001) al prezzo unitario di 3,01 euro (contro la quotazione
ufficiale in borsa di 1,89 euro) e ad Hopa altri 12 milioni di azioni a
condizioni simili[iii].
Una degna conclusione per la madre di tutte le privatizzazioni, assai più
simile ai modelli in auge nell’Argentina di Menem o nella Russia “compradora”
di Eltsin che in un moderno paese a capitalismo avanzato. “Le privatizzazioni,
che avrebbero dovuto stimolare la concorrenza e lo spirito d’impresa, piuttosto
che rendere più pluralistico il sistema economico lo hanno impoverito,
trasferendo le rendite monopolistiche dal pubblico al privato”[iv]
Grande finanza europea e sistema bancario italiano
Negli anni della sua lunga permanenza ai vertici del sistema bancario italiano,
Fazio ha perseguito un lucido disegno politico, volto da una parte alla
conservazione degli equilibri di potere (anche in chiave bipolare) ed alla
stabilità del sistema bancario, tenuto al riparo dalla concorrenza della grande
finanza europea, e, dall’altra, al tentativo di costruzione di un polo
finanziario nazionale legato direttamente alla Conferenza Episcopale Italiana
ed al Vaticano. Con elementi di forte clientelismo, assai più consoni ad una
corte rinascimentale che al mondo economico, e con il paravento della difesa
della “italianità” delle banche, una sorta di conservatorismo antieuropeo,
sempre più in voga in questa fase di forte crisi politica dell’Unione Europea.
Non desta scalpore ed inquietudine, in questo disgraziato paese, che a difesa
di Fazio sia sceso in campo l’intero mondo cattolico, dal portavoce della
potente e conservatrice Opus Dei ai Legionari di Cristo (tanto lautamente
finanziati da Fiorani), a tre alti porporati (il Segretario di Stato Sodano, il
Presidente della CEI Ruini ed il veneziano Re); dal quotidiano della Santa Sede
a diversi esponenti politici del centro-destra e del centro-sinistra. La
memoria corre, ineluttabile, a Giuffrè ed al tragico trio Calvi, Marcinkus e
Sindona ed alle tristi vicende del Banco Ambrosiano[v]. Se è
giusto interrogarsi e, al limite, scandalizzarsi a sinistra per quanto è
accaduto e continua ad accadere in queste settimane, il silenzio dei grandi
mezzi di comunicazione sull’intreccio perverso tra potere economico e
finanziario e gerarchie ecclesiastiche diviene assordante.
Fazio ha avuto il torto, tra l’altro, di aver volgarizzato e banalizzato a
copertura di un brutale gioco di potere un argomento sul quale sarebbe invece
opportuno aprire una riflessione seria e rigorosa, vale a dire la prospettiva
del sistema bancario italiano nel contesto europeo, partendo dalla nomina del
nuovo governatore di Bankitalia, Draghi, uomo della Banca Mondiale e della
grande finanza europea ed internazionale[vi].
Alcuni elementi conoscitivi contenuti nell’ultimo libro di Oddo e Pons aiutano
a comprendere l’esatta dimensione del problema.
Pur se in un momento critico per il sistema economico ed industriale, “il
potere dei grandi istituti è cresciuto anche grazie ad una riforma che ne ha
liberalizzato le attività in tutti i comparti del credito”, a partire dai
minori vincoli nella partecipazione al capitale delle imprese, con Bankitalia
che ha sempre taciuto persino di fronte al sospetto (certezza, per la verità)
di cartello ai danni dei cittadini (forbice tra tassi attivi e passivi che non
trova rispondenza sul piano europeo, aumento ingiustificato e sottotraccia
delle spese di mantenimento dei conti correnti), rifiutando nel contempo ogni
ipotesi di coinvolgimento dell’Antitrust. Sul piano dei bilanci, poi, considerando
le dodici maggiori banche italiane, il valore netto contabile dei crediti dubbi
(inesigibili) ammonta ad una percentuale media del 4,9% nel 2002 e del 4,5 nel
2004, contro una media europea dell’1,1% (particolarmente critica la situazione
di Capitalia, già oggetto di un duro braccio di ferro tra Fazio e Tremonti nel
2003). Se fosse applicato questo parametro al sistema bancario italiano,
diversi istituti si troverebbero sull’orlo del collasso, raggiungendo
coefficienti di salvaguardia inferiori all’8%, percentuale minima prevista
negli accordi interbancari di Basilea 1 e 2.
Nonostante questa situazione, sono diversi gli istituti che continuano a
finanziare, di fatto a fondo perduto, imprenditori “amici” o “soci”, scaricando
poi verso il basso eventuali perdite. Il quadro si completa considerando un
ultimo dato: secondo quanto dichiarato dai vertici Consob nel maggio 2003, alle
prime avvisaglie del disastro Parmalat, il 50% del mercato dei bond senza
rating (grado di affidabilità dell’investimento) in Europa è costituito da
obbligazioni di società italiane (anche se emessi, per eludere vincoli e
controlli, da società finanziarie non italiane)[vii].
In Italia, poi, solo Unicredit, grazie alla recente fusione con la bavarese
HypoVereinsbank (Hvb, 12 giugno 2005), può vantare una dimensione realmente
europea (nono gruppo per capitalizzazione di Borsa)[viii].
Un sistema bancario, quello italiano, debole con i forti e forte con i deboli, con seri rischi di minoritarismo nel contesto europeo e solo apparentemente in grado di far fronte alle reali esigenze del sistema economico e produttivo più largamente inteso (a partire dalle piccole e medie imprese).
Gli attuali e precari assetti del sistema capitalistico italiano
Le “vecchie famiglie” del capitalismo italiano vivono oggi una crisi forse
irreversibile, mentre si affacciano sulla scena i “nuovi ricchi”, eroi del
mordi e fuggi e delle grandi speculazioni, che ben si inseriscono nelle attuali
dinamiche del sistema. “Non si può fare di ogni erba un fascio – ha recentemente
dichiarato il diessino D’Alema. Da una parte un capitalismo buono, produttivo.
Dall’altra quello degli speculatori legati al mondo politico. E’ una
rappresentazione deviante, falsa”[ix].
Quest’affermazione coglie senza dubbio una parte della verità, dal momento che
i confini tra capitalismo produttivo e speculativo sono sempre più labili, ma
non può essere utilizzata per giustificare quanto verificatosi con l’Opa
Telecom o con le scalate incrociate dell’estate 2005.
La storia delle vecchie famiglie del capitalismo italiano è nota, dal sostegno
alla svolta reazionaria democristiana ai disegni eversivi, alla repressione
operaia, ma non deve sfuggire nemmeno l’origine dei “nuovi ricchi”, che non
rispondono solamente ai nomi di Gnutti e Ricucci ma anche al più ingombrante
Berlusconi. Nessuna demonizzazione di nessuno, ma era proprio necessario che
Unipol riempisse di soldi gli scalatori berlusconiani del “Corriere” e che
qualcuno facesse il tifo? Era proprio necessario costruire un asse di potere
con Fazio che si è protratto per diversi anni?
Per tentare di perseguire il proprio disegno di potere, l’ex governatore di
Bankitalia deve tenere a debita distanza l’Unione Europea ed impedire qualsiasi
operazione che potesse “scoprire” il sistema bancario italiano di fronte ai
grandi e più potenti istituti europei. A qualsiasi costo, tanto da impedire nel
2004 la fusione tra Capitalia[x] ed
Antonveneta, sostenuta dagli olandesi dell’Abn-Amro (rompendo un asse fino ad
allora strategico costruito con Geronzi), ed in precedenza l’accordo tra
Unicredit e gli spagnoli del Banco di Bilbao (Bbva). Così come, nel marzo 1999,
Fazio si allea con Cuccia (Mediobanca) per far fallire, grazie anche
all’appoggio ottenuto dal governo D’Alema, due Ops di Unicredit e San Paolo-Imi
per il controllo rispettivamente di Comit[xi] e
Banco di Roma.
La morte di Cuccia segna, di fatto, la fine di un’epoca, caratterizzata
dall’egemonia quasi assoluta di Mediobanca nelle relazioni con il sistema
industriale italiano, in particolare con le “vecchie famiglie”. I grandi
istituti bancari, azionisti di Mediobanca, non sono disponibili a concedere al
successore di Cuccia, Maranghi, poteri assoluti, tanto che a gestire la crisi
Fiat della primavera 2002, nonostante i tentativi di quest’ultimo, sono le
banche creditrici (Intesa, Capitalia, San Paolo-Imi ed Unicredit) con un
prestito obbligazionario “convertendo” con buona possibilità di controllare la
più grande azienda italiana.
Nonostante diversi tentativi di alleanze (ingresso dei francesi in Mediobanca e
relativo asse Tarak ben Ammar-Berlusconi), Maranghi è costretto alle dimissioni
nell’aprile 2003 (asse francesi, Capitalia ed Unicredit). Una fragile pace
viene ristabilita solamente grazie alla mediazione di Tronchetti Provera e
Ligresti, costruttore ed assicuratore siciliano vicino a Berlusconi, già
coinvolto in Tangentopoli, con un’evidente modifica degli equilibri di potere.
Nel frattempo, Unicredit guida il primo assalto a Generali, una delle
casseforti del sistema capitalistico italiano.
Nel corso della primavera 2003, infine, esplode lo scontro per il controllo di
RCS Mediagroup (il “Corriere della Sera” e Rizzoli), con Ligresti e Della Valle
che chiedono l’ingresso nel patto di sindacato per riequilibrare una presunta
egemonia del centro-sinistra, approfittando della crisi di Romiti. Saltate
tutte le mediazioni tentate, Gemina cede il proprio pacchetto dell’8,6%,
elemento che scatena lo scontro sulla ridistribuzione delle quote. L’asse
Mediobanca-Intesa-Pirelli esce sconfitta dall’alleanza tra Geronzi, Montezemolo,
Generali, Ligresti ed i francesi. Gli azionisti passano da 11 a 15 e la
governabilità del gruppo diviene più complessa, finendo per favorire il
tentativo di scalata di Ricucci che, sostenuto da Livolsi (l’advsior
dell’intera operazione, uomo Fininvest), arriva a minacciare un’Opa ostile in
grado di frantumare il patto di sindacato e rimettere così in discussione gli
equilibri in Mediobanca. Con Fininvest intenta a rastrellare azioni Generali,
per limitare Banca Intesa.
Una sorta di risiko finanziario, questo, che rischia di avere pesanti e dirette
ripercussioni anche sul piano politico, accentuando le tendenze generali del
sistema capitalistico alla concentrazione e finanziarizzazione e ponendo con
forza all’ordine del giorno la necessità di unire i ceti anti-monopolisti.
Il Movimento Cooperativo
Il coinvolgimento di Unipol nelle scalate incrociate dell’estate 2005,
conclusosi con le dimissioni dei vertici (Consorte e Sacchetti) e con il
diniego finale di Bankitalia dell’Opa su Bnl, ha diviso in profondità non
solamente il movimento cooperativo nel suo complesso (cooperazione “rossa” e
“bianca”, Confcooperative), ma la stessa Legacoop, acuendo i contrasti tra il
movimento emiliano e quello toscano.
Anche in questo caso non sarebbe inutile soffermarsi a riflettere e tracciare
un bilancio rigoroso dei processi che hanno coinvolto la cooperazione negli
anni ’80 e ’90 dello scorso secolo, determinando un forte snaturamento di
quelle che erano (ed in parte sono) alcune caratteristiche peculiari di questo
movimento, a partire dalle finalità mutualistiche e sociali. L’ondata liberista
ha sospinto l’intero movimento nella direzione della subalternità al mercato ed
alle compatibilità del sistema, anche se non con la medesima dirompenza ed
intensità: paradossalmente, è stata la cooperazione “rossa” ad essere
maggiormente coinvolta, a partire dalle grandi cooperative di consumo (che
hanno in Emilia-Romagna il peso e la concentrazione maggiore), che controllano
Unipol ed il 17% del mercato nazionale della grande distribuzione.
I numeri sono davvero da capogiro: Legacoop conta su 15.000 imprese, 7 milioni
di soci, 402.000 dipendenti e 45 miliardi di fatturato, con un peso
preponderante della cooperazione emiliano-romagnola rispetto agli altri
(rapporto 35,8 addetti ogni mille abitanti, fatturato venti miliardi di euro
contro i 5 della Toscana). Dall’altra parte, Confcooperative conta 18.900
aziende, concentrate soprattutto tra Lombardia, Trentino e Romagna, 3 milioni
di soci, 450.000 addetti e 43 miliardi di fatturato.
Al contrario della cooperazione rossa, i bianchi possono contare non sulla
grande finanza, ma su una rete di Banche di Credito Cooperativo che controllano
il 4,5% del mercato del credito (4 milioni di clienti, 3.500 sportelli, 750.000
soci e 100 miliardi di raccolta diretta). Modello, questo, ben diverso
dall’ipotesi di “bankassurance” perseguito da Unipol e dai giganti emiliani[xii].
Il fallimento della grande scalata a Bnl e dei giochi nell’alta finanza ha
senza dubbio finito per indebolire l’insieme della cooperazione emiliana e del
relativo modello “manageriale”, tanto che, nonostante l’elezione di Stefanini
(presidente di Coop Adriatica e già presidente di Holmo, azionista di
maggioranza in Finsoe) ai vertici di Unipol, i toscani hanno guadagnato terreno
collocando ai vertici di Finsoe, azionista di maggioranza di Unipol, Campaini
(ai vertici di Unicoop Firenze e strenuo oppositore della scalata a Bnl). Tanto
che, ancora, la cooperazione bianca passa all’attacco promuovendo una sorta di
patto di unità d’azione da una posizione di relativa forza.
Difficile, al di là delle dinamiche che prevarranno nei prossimi mesi, non
chiedersi quale sponda del fiume sceglierà il movimento cooperativo nel suo
complesso, oggi in mezzo al guado: se la sponda del recupero di elementi di
mutualismo e socialità, collocandosi così su un terreno antimonopolista e di
discontinuità con il modello economico dominante, o se, al contrario, la linea
della graduale ma continua integrazione all’interno delle compatibilità del sistema.
Per quanto ci riguarda, preferiremmo un movimento cooperativo collocato su
posizioni decisamente antimonopoliste ed in grado di continuare ad aiutare
migliaia di persone che potrebbero trovarsi in forte difficoltà all’interno di
un contesto generale assai difficile. Un movimento, insomma, che non rinunci ad
inserirsi nel contesto economico ma con proprie e peculiari caratteristiche,
marcando elementi di forte discontinuità con il modello prevalente[xiii].
Una nuova Tangentopoli?
Come notato giustamente da Barbacetto, il rapporto tra politica (partiti) ed
economia sembra essersi capovolto rispetto ai primi anni ’90, all’epoca di
Tangentopoli, dei soldi nelle valigette, dei partiti pigliatutto. “I veri
intrecci di potere – ha scritto di recente - sono quelli che oggi la finanza e
le banche hanno costruito proprio sulla base della debolezza di imprese e
partiti usciti sfiancati da Tangentopoli (…) nel sistema, in primo piano sono
gli uomini degli affari; i politici ci sono, ma al servizio dei primi. Un tempo
era la politica a decidere la strategia. Sceglieva gli affari e le imprese, poi
passava a riscuotere. Oggi è l’economia a mettere al suo servizio (e a volte a
libro-paga) la politica”[xiv].
Questa affermazione, che descrive con sufficiente esattezza l’attuale contesto,
imporrebbe una serie di riflessioni, tanto impietose quanto necessarie, a
partire da una critica serrata del liberismo, che ha ispirato tutti gli anni
’90 del secolo scorso e continua a permeare in profondità la sinistra moderata,
pronta a riabilitare Craxi senza però riprendere i pochi aspetti positivi di
quell’esperienza complessivamente funesta (l’autonomia dagli USA, pur nel
contesto della Guerra Fredda)[xv].
La reazione del mondo politico si è limitata, invece, nella migliore delle
ipotesi, a ragionare di codici etici e dei limiti accettabili del connubio
politica-affari, ancora una volta rimuovendo una discussione tanto sugli
elementi strutturali quanto sulle ragioni reali alla base di un intreccio che
appare sempre più perverso[xvi].
Difficile, da questo punto di vista, non chiamare in causa parti consistenti
delle riforme istituzionali approvate dopo il 1990 a suon di referendum,
riforme ispirate ad un modello liberista oggi in profonda crisi.
L’introduzione del sistema elettorale maggioritario ed uninominale (pur se con
sempre più risicati recuperi proporzionali) e l’elezione diretta di Sindaci e
Presidenti di Province e Regioni, unita ad una totale egemonia dei livelli
esecutivi su quelli elettivi, hanno finito per produrre fenomeni degenerativi
non meno dirompenti rispetto alla Prima Repubblica. Qualcuno ha riflettuto
seriamente sul costo delle campagna elettorali in un paese che non dovrebbe
somigliare agli Stati Uniti? Non solo per le singole forze politiche, ma anche
per i singoli candidati nei collegi uninominali o nelle competizioni elettorali
che prevedono preferenze nominali? Sarebbe uno studio interessante, dal quale
forse emergerebbe l’assoluta necessità di poter contare su “sponsor” di rilievo
(ai quali poi ricambiare cortesie) o su partiti bene attrezzati.
Con le debite e numerose eccezioni, ovviamente, e senza voler fare di ogni erba
un fascio, ma prendendo semplicemente atto delle dinamiche in atto. Senza
dimenticare che la conquista di un sistema elettorale proporzionale è stata una
delle prime, grandi conquiste del movimento operaio in espansione, grazie
all’azione decisa del Partito Socialista e di parte della nascente borghesia
nazionale (1913-1914). Anche per queste ragioni, forse, a sinistra sarebbe
opportuno riflettere prima di riproporre il delirio maggioritario (ed il
relativo partito democratico) quale alternativa alla pasticciata legge
elettorale del governo Berlusconi e quale panacea per tutti i mali del paese.
L’intreccio perverso politica-affari si può sconfiggere anche evitando di
personalizzare eccessivamente il sistema politico e costruendo nodelli di
rappresentanza in grado di dare conto della complessità sociale e del peso
reale di ciascuna forza nel panorama politico. Recuperando, insomma, almeno in
parte, quella sobrietà ed essenzialità nella concezione della politica che
hanno consentito al movimento operaio di crescere e, in parte, affermarsi nel
nostro paese.
[i] A. Malan, “Kerkorian pronto a salire in Gm”, in “Il Sole 24 Ore”, 11 gennaio 2006.
[ii] C. Cortesi, “Scalata Telecom, la prima volta di Consorte”, in “Diario della settimana”, Anno XI, n. 1-2, 13 gennaio 2006. All’interno di questo articolo si segnala la scheda a cura di G. Barbacetto (“D’Alema. Davvero neutrale?”). Oltre a questo, G. Oddo e G. Pons, L’Affare Telecom, Sperling & Kupfer 2002 e, degli stessi autori, L’Intrigo. Banche e risparmiatori nell’era Fazio, Feltrinelli, Milano 2005.
[iii] M Longo, R. Miraglia e A. Olivieri, “Telecom, le azioni «sconosciute» passate ai blocchi”, in “Il Sole 24 Ore”, 14 gennaio 2006.
[iv] Oddo e Pons, L’intrigo, cit., p. 11.
[v] “Cent’anni di crac italiani” (a cura di M. Portanova), in “Diario del mese”, Anno V, n. 4, 7 ottobre 2005.
[vi] R. Giovannini, “Fazio avverte Draghi «Le banche italiane ora sono in pericolo»”, in “La Stampa”, 2 gennaio 2006. Su Draghi, S. Bocconi, “Il Ciampi boy che privatizzò l’Italia. Il manager lontano dalla politica con una missione: portare le banche in Europa”, in “Corriere della Sera”, 30 dicembre 2005.
[vii] Oddo e Pons, L’intrigo, cit., p. 11 (citazione), 19-21 (crediti dubbi) e 39 (dati Consob maggio 2003).
[viii] Su questo, Oddo e Pons, L’intrigo, cit., pp. 15-17 e 68-69. A. Geroni, “Faro della Ue sullo «stop» ad Hvb in Polonia”, in “Il Sole 24 Ore”, 14 gernaio 2006.
[ix] Intervista a “Il Sole 24 Ore”, 5 agosto 2005.
[x] Capitalia nasce nel 2002 dalla fusione tra Banco di Roma e Bipop Carire. A sua volta, Banco di Roma ha assorbito alla fine degli anni ’80 del secolo scorso il Banco di Santo Spirito e la Cassa di Risparmio di Roma, una delle banche dell’aristocrazia nera vaticana. Tra i protagonisti dell’operazione Capaldo, uomo dell’Istituto Opere Religiose (IOR) e, dal 1999, Geronzi.
[xi] Prima banca laica, legata alla massoneria risorgimentale, fondata in Italia nel 1894 per volontà di Giolitti. Parte degli equilibri in Mediobanca nel corso degli anni ’80, la Comit viene privatizzata da Prodi, allora presidente dell’IRI, nel 1994 (insieme a Credit), ma la banca rimane di fatto nell’orbita di Cuccia e Mediobanca. Dopo aver tentato la scalata all’Ambroveneto di Bazoli ed essere uscita sconfitta, la Comit è stata assorbita nel 1999 da Banca Intesa (Bazoli-Passera), oggi vicina a Prodi.
[xii] I dati sono tratti da diverse inchieste pubblicate in queste settimane. P. Baroni, “Bianchi contro rossi. Le coop, due eserciti da un milione di posti”, in “La Stampa”, 6 gennaio 2006. M. Sodano, “L’avance dei cattolici «Coop tutte insieme»”, in “La Stampa”, 7 gennaio 2006 e, lo stesso giorno, P. Baroni, “Bianchi e rossi, due maniere di fare business”. G. Meletti, “Consorte e la vendetta degli Invisibili”, in “Corriere Economia”, 9 gennaio 2006 e, lo stesso giorno, R. Scagliarini, “Il tesoro (legale) delle coop ammonta a 6 miliardi”.
Sulle contraddizioni all’interno del movimento cooperativo “rosso” P. Baroni, “La Linea Gotica che divide in due l’universo coop”, in “La Stampa”, 4 gennaio 2006.
[xiii] Su questo, M. Zani, “Attenti, questo non è un incidente di percorso”, in “La Repubblica Bologna”, 31 dicembre 2005 (intervista a cura di J. Meletti).
[xiv] G. Barbacetto, “Benvenuti a Furbettopoli”, in “Diario della settimana”, Anno X, n. 49-50, 23 dicembre 2005.
[xv] Interessante, su questo, quanto osserva Paolo Flores intervistato da “La Stampa” del 7 gennaio 2006 (“Flores: nei dirigenti Ds vedo tratti di craxismo”, intervista a cura di J. Jacobini), anche relativamente al libro di Fassino nel quale si riabilita Craxi.
[xvi] Tra i tanti, R. Prodi, “Affari e politica, fissare i confini”, in “La Stampa”, 4 gennaio 2006. Articolo, questo, che ha fatto infuriare buona parte dei vertici Ds.