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Di seguito il documento approvato dal V Congresso del PdCI (18-20 luglio 2008)

 

Ricostruire la sinistra.

Comuniste e Comunisti, cominciamo da noi

 

Documento approvato dal comitato centrale del PdCI del 7 e 8 giugno 2008

 

La svolta reazionaria

 

La vittoria della destra alle recenti elezioni politiche apre scenari inquietanti. Berlusconi oggi dispone di una larga maggioranza parlamentare, del controllo di gran parte dei mezzi di comunicazione e di uno sterminato impero economico. Le peggiori subculture vengono alimentate per creare un senso comune reazionario. Oggi ci sono veramente tutte le condizioni perché si imponga un nuovo sistema politico istituzionale reazionario, a sanzione e garanzia di equilibri sociali fondati sulla stabile emarginazione del mondo del lavoro.

La disastrosa sconfitta elettorale ha comportato la scomparsa dal Parlamento italiano di tutte le forze politiche di sinistra. Per la prima volta dal 1945, nessun comunista siede in Parlamento e questo è un fatto veramente epocale.

La fase è, dunque, inedita e rischiosa. Essa pone al nostro partito, come a tutti i comunisti, problemi altrettanto inediti, rischiosi e complessi, cui vanno date risposte all’altezza delle difficoltà, senza fughe in avanti né superficialità né autoconsolazione, senza tentazioni autoconservative o estremistiche, senza pigrizia intellettuale. Di fronte a una svolta reazionaria, di portata tale da rendere “accettati ed accettabili” i pogrom ed i rastrellamenti contro gli zingari, ed ad una tendenza consociativa che, sotto l’ingannevole tematica delle “riforme condivise”, apre la strada allo scardinamento dei valori, dei principi e degli interessi che la Resistenza antifascista ha posti a fondamento della Costituzione, è indispensabile che i comunisti si ristrutturino come perno di una mobilitazione popolare e democratica la più vasta e unitaria possibile.

 

Il momento internazionale

 

Il quadro economico e politico sul piano internazionale è caratterizzato dal declino degli Usa che tendono a scaricare sull’intero pianeta la propria crisi strutturale. Nuove potenze regionali mettono in discussione l’assoluto dominio Usa sul mercato globale. L’emergere di solide valute (Euro, Yuan, Rublo) attorno alle macroaree economiche (Europa, Cina, Russia) minaccia strategicamente lo strumento fondamentale della supremazia statunitense e cioè il potere di signoraggio che il dollaro conserva in quanto unica moneta di scambio mondiale. Gli Usa però sono pronti a tutto pur di difendere il ruolo della loro moneta.

Tale competizione, prodotta dalla natura contraddittoria dello sviluppo capitalistico, sta trascinando l’intera economia mondiale verso un gravissimo squilibrio. L’ipertrofica dimensione del capitalismo finanziario e l’inedito manifestarsi contemporaneo di una crisi non solo economica ma anche energetica, alimentare ed ambientale apre le porte a scenari inquietanti. Cresce una evidente tendenza alla guerra ed al contempo si generano fenomeni inflattivi e recessivi che si scaricano sui lavoratori e sulle popolazioni di gran parte del pianeta. La gestione di una fase economica così difficile alimenta sul piano politico fenomeni reazionari che portano al restringimento dei margini democratici. Al contempo, sul piano globale, la crisi alimenta, per ragioni sia meramente economiche che geopolitiche, al corsa riarmo degli Usa e delle nuove potenze mondiali e regionali. La vicenda italiana non può essere slegata da questo contesto data la posizione geo-strategica dell’Italia e la sua struttura economica che, pur pienamente inserita nella Unione Europea, risulta fortemente frammentata, debole e contraddittoria e quindi particolarmente esposta alla competizione globale. La crisi mondiale ed i fenomeni conseguenti alimentano anche nel nostro paese una recrudescenza reazionaria.

 

Un lungo ciclo storico

 

La scomparsa dei comunisti – tutti – dal Parlamento repubblicano, insieme al profilarsi di accordi espliciti, tesi a superare l’attuale sistema parlamentare, tra Veltroni e Berlusconi, segnano emblematicamente il concludersi di un lungo ciclo storico. Il progetto di cancellazione della anomalia italiana è completato.

Quello che era il paese con il più forte partito comunista d’occidente, con i più alti tassi di sindacalizzazione, con una vasta egemonia culturale della sinistra si ritrova oggi nelle mani di forze reazionarie, senza la sinistra in Parlamento e, soprattutto, segnato da un senso comune di destra.

Le origini di questa deriva vanno certo ricercate nella ristrutturazione capitalistica che alla fine degli anni ’70 del secolo scorso ha piegato la forza del movimento operaio. Sino a quel momento avevamo assistito ad una fase di progressiva espansione del movimento dei lavoratori e delle sinistre, segnatamente del Pci, che aveva contribuito in misura determinante all’attuazione di alcuni punti decisivi della Costituzione repubblicana. Tale spinta profondamente e positivamente riformatrice fu bloccata sia da crescenti veti internazionali, sia da una conseguente azione interna, ad opera di poteri occulti e palesi. Il craxismo prima ed il berlusconismo poi sono riusciti ad affermare la loro idea di modernizzazione togliendo alla sinistra l’iniziativa del cambiamento. Il ciclo storico è stato segnato da una fase difensiva del movimento operaio che si è aggravata ulteriormente dopo la caduta dell’Urss e la dissoluzione del suo “campo” di alleanze. Da quel momento in poi il capitalismo europeo non ha avuto più bisogno di quel compromesso di classe che ha consentito, in questo continente, la nascita dello stato sociale e quindi la diffusione di diritti universali ed un ruolo forte dello stato nell’economia.

La parcellizzazione del processo produttivo ha prodotto una caduta della coscienza di classe ed indebolito strutturalmente la capacità di lotta del movimento operaio e dei lavoratori. La precarizzazione del rapporto di lavoro ha diviso il fronte cancellando per milioni di lavoratori il riferimento ai contratti collettivi, mentre le riforme pensionistiche spezzavano il nesso di solidarietà tra le generazioni aprendo, tra queste, una disperata competizione per le risorse. E’ arretrata nel contempo anche la coscienza di genere e cioè la consapevolezza delle donne delle proprie libertà e dei propri diritti violati da un doppio sistema di discriminazione e sfruttamento dentro e fuori la famiglia.

Le politiche neoliberiste hanno prodotto un progressivo arretramento e peggioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici e dei ceti deboli, l’aumento dello sfruttamento e la spaventosa crescita della povertà e dell’emarginazione dei più deboli.

Nel quadro di un colossale spreco di risorse pubbliche, da parte di una classe politica incapace e spesso corrotta che i comunisti hanno sempre denunciato e combattuto, si è originato un processo di deriva sociale, economica e civile, e produttiva del mezzogiorno che ha visto incrementare le distanze di quantità e qualità di questa parte del paese dal sistema produttivo ed infrastrutturale del nord Italia e dell’Europa. In questo quadro la criminalità organizzata ha fatto un salto di qualità non solo sul piano del controllo del territorio ma anche sul piano economico trasformandosi, per molti aspetti, in una impresa capitalistica internazionalizzata. Ciò ha alterato profondamente la condizione democratica del paese data la accentuata capacità delle mafie di penetrare le sedi della politica e delle amministrazioni pubbliche.

L’Unione Europea ha imposto parametri monetari e politiche di privatizzazione che hanno demolito gli strumenti di programmazione impedendo le forme di economia mista che in Italia avevano avuto un peso significativo. All’enorme peso del debito pubblico si è risposto con una lunga fase di “commissariamento” della politica da parte di “tecnici” che rispondevano direttamente al comando delle lobbies finanziarie.

La globalizzazione, subita da un capitalismo italiano di retroguardia, ha posizionato il Paese ad un più basso livello nella divisione internazionale del lavoro e dentro una competizione di prezzo e non di prodotto con la conseguenza di aprire una guerra tra poveri segnata da delocalizzazioni, immigrazione, dumping sociale.

Tutto ciò ha prodotto una estrema polarizzazione della ricchezza, a tutto vantaggio del profitto e della rendita, che ha colpito prima il mondo del lavoro salariato e poi anche le classi medie. I processi di trasformazione della produzione hanno eroso progressivamente l’insediamento sociale dei comunisti e della sinistra. I lavoratori si sono trovati esposti ad una competizione quotidiana sul mercato del lavoro interno ed internazionale. La debolezza della loro rappresentanza politica e sindacale ha consentito l’affermarsi dell’idea che la competitività andava difesa a discapito dei diritti, dei salari e delle garanzie sociali. La perdita progressiva di identità e di efficacia della sinistra politica insieme con la perdita di ruolo storico degli stati nazionali sta alla base di una ricerca di quella appartenenza legata al territorio su cui fanno presa la Lega al Nord e le spinte populiste di destra nel meridione.

Le forze localistiche, in particolare nel nord, hanno spostato il conflitto sul piano orizzontale nei confronti dello stato centrale e della burocrazia costruendo una specie di sindacalismo territoriale per il quale i lavoratori ed i ceti più deboli si sentono rappresentati politicamente sulla base di una appartenenza comunitaria piuttosto che sulla base delle loro reali condizioni di classe. Mescolando rivendicazioni locali ad egoismo sociale, producendo paura e razzismo.

E’ la sensazione di solitudine di fronte ad un futuro sempre più incerto che ha generato quella paura su cui è cresciuta l’egemonia politica della destra.

L’affermarsi di un mercato nelle mani delle grandi multinazionali monopolistiche ha prodotto una idea consumistica di benessere funzionale alle modalità di accumulazione. Il sistema dei media ha creato una alienazione di massa con una continua sollecitazione verso falsi bisogni e falsi valori.

Il sistema formativo ed educativo pubblico è stato oggetto di attacchi pesantissimi e di riduzioni di risorse senza precedenti che ne hanno compromesso progressivamente la qualità ed il ruolo.

L’identità collettiva si è spostata dal lavoratore-(ri)produttore al consumatore compulsivo. Ciò ha generato la disponibilità di massa verso politiche distruttive dell’ambiente ed imperialiste sul piano globale. La ricchezza, intesa come assoluto ed insensato accesso al consumo di merci e di persone, è divenuta l’unico parametro di valore. La guerra e la violenza, come strumenti efficaci di sopraffazione e di appropriazione delle risorse altrui, sono tornate ad essere generalmente accettate sia pur ancora oggi dietro il paravento ideologico dell’intervento umanitario o dell’autodifesa territoriale.

 

La “trincea” del centro sinistra

 

Dopo che si è interrotta, alla fine degli anni ’70, la fase offensiva che aveva portato i comunisti ad un passo dal riconquistare un ruolo di direzione politica nazionale nel quadro dell’unità delle forze democratiche, questa lunga fase di arretramento è stata necessariamente affrontata dai comunisti con scelte politiche che cercavano di organizzare linee di difesa dietro le quali tentare di riorganizzare forze. Dalla scelta dell’alternativa democratica compiuta da Berlinguer nel 1980, all’accordo di desistenza del 1996 sino all’ingresso dei due partiti comunisti nell’Unione nel 2006 c’è un nesso storico che ha tenuto insieme responsabilità nazionale, costituzionalismo e lotta contro il nemico principale.

La fine del PCI ha dato vita a tre formazioni politiche che in modo diverso hanno dato la loro risposta a questa lunga fase. Da un lato chi si è arreso ed ha scelto di accompagnare questo processo sino al punto da farsene interprete e propagandista; dall’altro chi ha cercato di frenarne le dinamiche e tenere aperta una sfida di sistema.

L’esperienza di Rifondazione, soprattutto dopo il 1998, è segnata dall’investire sul “movimento dei movimenti” che doveva tenere assieme i conflitti, le reazioni, le contraddizioni che una società sempre più complessa, e corporativizzata, proponeva. Il PdCI ha invece investito principalmente su un quadro politico di centro sinistra che, facendo riferimento alla cultura costituzionale italiana, potesse fungere da argine democratico ed al contempo tenere aperti spazi di agibilità per il conflitto di classe.

Dopo una lunga fase di conflitto aperto tra PdCI e PRC, la comune opposizione al Governo Berlusconi dal 2001 al 2006 ha reso possibile ritrovarci assieme nell’esperienza dell’Unione e nel sostegno al Governo Prodi dove abbiamo misurato l’insufficienza di entrambe le risposte che allora furono date. Il movimento non ha affatto attraversato il Governo Prodi mentre il PD di Veltroni nasceva proprio per far cadere la diga dell’anti-berlusconismo e per espungere dal contesto di ogni governo, presente o futuro, le ragioni e gli interessi rappresentati dai comunisti.

Il centrosinistra come lo abbiamo conosciuto non esiste più.

Il giudizio su questa lunga fase deve però essere articolato.

Il centrosinistra è stato il tentativo di far fronte all’avanzare di una destra eversiva con un compromesso dinamico, fatto sugli interessi e sui valori nell’ambito di un quadro costituzionale, tra un pezzo del mondo democratico, anche di origine conservatrice, e la sinistra. Progressivamente però sono cresciuti il peso dei poteri forti e la loro capacità di incidere in maniera trasversale sulla destra e sul centro, mentre la sinistra ha perso spazi e capacità di iniziativa. Nonostante noi avanzassimo proposte che avrebbero anche consentito al centro sinistra stesso di entrare in sintonia con il proprio popolo di riferimento (pensioni, lotta alla precarietà, salari, etc.), l’agenda politica veniva viceversa determinata da parte delle forze moderate della coalizione. Le sinistre, allora, hanno cercato di aprire le contraddizioni interne al centrosinistra contrapponendo rifiuti netti sostenuti, molto spesso, dalle dinamiche di conflitto presenti nella società, nei movimenti e nel mondo del lavoro. Dal tentativo di ottenere risultati positivi anche i comunisti sono passati ad una posizione quasi esclusivamente difensiva, tentando di frenare politiche che colpivano le sue classi di riferimento ed il suo sistema di valori. Progressivamente la politica del “no” ha segnato di sé l’identità della sinistra, dei comunisti e delle forze d’alternativa. Ciò, però, ha consunto nel senso comune di larghe masse popolari, la credibilità di una prospettiva di trasformazione della società. Anche in una fase difensiva una proposta politica che voglia parlare al Paese, a tutto il mondo del lavoro, non può essere percepita come mera sommatoria di “no”, ancorché derivanti da giustissime rivendicazioni.

 

L’ultimo governo

 

L’ultimo governo Prodi è stato il paradigma di questo fallimento. Nato sulla spinta delle grandi manifestazioni a difesa dei diritti dei lavoratori, della pace, della democrazia ha deluso le speranze sino ad umiliare la sinistra con la paradigmatica fiducia posta contro la sua stessa maggioranza sulla riforma del welfare. La manifestazione del 20 ottobre 2007 ha rappresentato l’estremo investimento di un popolo su una formula politica che non poteva più giustificarsi solo con l’antiberlusconismo. La scelta della CGIL di tornare, dopo la feconda stagione di ripresa del conflitto sia pur difensivo, ad una politica di concertazione con un governo “amico” non ha affatto rafforzato Prodi ed ha privato la sinistra di una sponda indispensabile. Grave è stata la scelta del sindacato che, pur di non registrare quelle che venivano considerate indebite intromissioni delle forze politiche nel proprio ambito di rappresentanza, non solo non ha sostenuto ma ha persino contrastato l’azione della sinistra in Parlamento tesa a raggiungere risultati più avanzati in favore dei lavoratori.

L’agguato parlamentare che ha abbattuto il Governo Prodi è stato possibile perché prima si era persa la connessione sentimentale con il nostro popolo. Questa volta la politica dei due tempi, risanamento e poi ridistribuzione, è stata giustamente sentita come un tradimento da parte dei ceti popolari che aspettavano un risarcimento sociale.

Sarebbe però sbagliato non ricordare, anche oggi, quanto abbia pesato, in negativo, sulla azione del centro sinistra la mancanza di una chiara maggioranza parlamentare. Nonostante tutte le aspettative alle elezioni, quelle del 2006, la destra riuscì a raggiungere un sostanziale pareggio. Nemmeno il plateale fallimento del governo Berlusconi produsse infatti una chiara affermazione delle forze democratiche e ciò ad ennesima riprova della natura conservatrice della società italiana e delle profonde pulsioni reazionarie che ciclicamente la attraversano.

Inoltre l’ultimo governo Prodi ha avuto nemici potenti : dalla Confindustria, al Vaticano, all’amministrazione Usa. Questi poteri hanno chiarito, anche alle forze interne al centrosinistra, che non era più per loro tollerabile la presenza di due partiti comunisti e di una larga sinistra all’interno dell’area di governo in un paese che resta tra i più economicamente sviluppati.

La discontinuità in politica estera e la permanente resistenza della sinistra sulle scelte economiche hanno reso Prodi comunque inaffidabile per i poteri forti. Il PD di Veltroni è stato lo strumento con cui l’establishment ha fatto saltare l’accordo tra le forze eredi della tradizione costituzionale italiana per trovare un compromesso con la destra ed il suo sistema politico-economico. L’americanizzazione della politica in salsa italiana ha preso il volto della rottura del PD con la sinistra e dell’accordo con Berlusconi sulla nuova Costituzione. Il bipolarismo prodiano si muoveva ancora nell’ambito della democrazia rappresentativa e costituzionale. Il bipartitismo veltroniano travolge invece la dialettica parlamentare, concedendo al “cesarismo” berlusconiano la sua più importante vittoria strategica.

Grande deve essere l’autocritica della sinistra per come ha interpretato questa occasione di presenza nel Governo del paese: ancorché vi siano stati risultati parziali (come ad esempio il ritiro delle truppe dall’Iraq, la lotta all’evasione fiscale o la stabilizzazione dei precari nella pubblica amministrazione strappata proprio dal PdCI), essi non sono stati percepiti come rappresentativi di una utilità reale delle forze della sinistra – e segnatamente di quelle comuniste – al governo.

La nostra stessa scelta di parteciparvi con degli indipendenti non ha prodotto gli effetti sperati. Da un lato, infatti, questa scelta, pur garantendo margini di azione più ampli al partito, ha comunque riversato sullo stesso l’intera responsabilità dell’azione del governo senza peraltro poter contare sul ruolo che avrebbero potuto svolgere in quelle importantissime postazioni dirigenti del partito. Dall’altro la scelta di indipendenti, anche per evidenti limiti soggettivi, non ha raggiunto affatto gli obiettivi di efficacia e di rappresentanza della sinistra che ci eravamo posti.

Gravi sono stati anche i ritardi politici ed i deficit del partito a livello nazionale, locale e delle istituzioni. Tardiva la consapevolezza dei reali rapporti di forza, dei limiti oggettivi e del graduale esaurimento di una esperienza ed insufficienti gli strumenti individuati per reagire all’iniziativa dei poteri forti.

Alla luce dei fatti è stato un errore perseguire l’idea di un accordo programmatico globale con le altre forze della coalizione. Il vincolo di lealtà programmatica, rispettato solo dalla sinistra, ci ha impedito di puntare a raggiungere, o a valorizzare, risultati parziali ma strategici ed ha scaricato su di noi la responsabilità complessiva del fallimento nella realizzazione degli impegni presi con gli elettori. Siamo quindi stati percepiti o come inefficaci a realizzare le auspicate riforme a favore dei ceti più deboli o, simmetricamente, come coloro che ostacolavano, sostenendo con forza – anche se vanamente – tali richieste, il lavoro del governo.

Per senso di responsabilità democratico ed istituzionale abbiamo difeso sino alla fine il centrosinistra. Nonostante gli esiti elettorali restiamo convinti che questa è stata una scelta obbligata ed insieme giusta. Non sono certamente i comunisti a portare, oggi come domani, la responsabilità storica di aver aperto la strada al ritorno delle destre.

 

Dalla Confederazione all’Arcobaleno

 

Per anni noi del PdCI abbiamo insistito sulla proposta di Confederazione delle forze della sinistra. Se agita per tempo essa avrebbe consentito di affrontare in modo unitario le sfide del governo. Al contrario invece la competizione tra le singole forze ed i personalismi hanno ritardato i processi unitari delle forze e successivamente minato l’efficacia dell’azione comune. Le divisioni ed i rancori del passato hanno così reso cieca la sinistra di fronte al pericolo mortale che stava sorgendo al suo fianco. Mentre il PD ha supplito al deficit di identità accreditandosi come forza della rottura e dell’innovazione politica, tra le forze della sinistra si apriva un conflitto sulla natura e sugli esiti del processo unitario.

Non è stato affatto un errore la scelta del PdCI di dare voce alla richiesta, anche questa fortemente rappresentata nella manifestazione del 20 ottobre, di fornire, anche nella scelta del simbolo, al progetto unitario quel chiaro profilo identitario necessario a renderlo riconoscibile come realmente alternativo al PD. Dopo gli stati generali dell’Arcobaleno di dicembre, invece di una strutturazione confederale, ha prevalso un asse tra PRC e SD, a cui poi hanno acceduto anche i Verdi, costruito su una ipotesi liquidatoria delle identità e delle organizzazioni. Invece di proporre una alternativa nei contenuti, nel profilo identitario e nella prospettiva, la sinistra ha inseguito in modo subalterno una idea di innovazione che ricordava, fuori tempo massimo, la scelta di Occhetto alla Bolognina.

La risposta dell’Arcobaleno è stata infine strumentalizzata e ridotta ad espediente per imporre l’idea dell’approdo in un nuovo ed indistinto partito. Una campagna elettorale disastrosa, dove non si è contrastata l’idea perversa di voto utile e non si è spiegata la necessità di una forte opposizione politica al consociativismo crescente tra PD e PDL, ha completato il disastro.

Questi errori, tuttavia, facevano comunque leva su una giusta richiesta di unità a sinistra, largamente sentita in larghi strati popolari. La nostra partecipazione all’Arcobaleno – che il Pdci ha sempre inteso non come embrione di un futuro partito unico – ha evitato quindi che il partito apparisse quale ostacolo per l’unità delle forze della sinistra. Con questa scelta necessitata il Pdci ha così evitato di uscire annientato, esso stesso, insieme all’Arcobaleno, impedendo la tenaglia del “doppio voto utile” verso il PD e verso la medesima lista della Sinistra l’Arcobaleno.

Il che, come ovvio, non ci esime da una drastica riflessione autocritica, che riguarda l’intero gruppo dirigente del partito, e che deve offrire un terreno di confronto interno sul “che fare” successivo al disastro elettorale.

 

Il rischio reazionario

 

L’esito delle elezioni, conseguenza di un ciclo storico e di gravi errori tattici, ci consegna un disastro che non ammette reticenze. Di fronte alla destra al potere, all’arrendismo del PD ed alla extraparlamentarizzazione della sinistra serve la consapevolezza del cambio di fase. Nessuno può infatti sottovalutare il significato storico del ritorno di Berlusconi al governo. Alla vittoria della destra, con straordinario margine di vantaggio, si è aggiunto il fatto che per la prima volta la capitale d’Italia è governata da un sindaco di notoria e rivendicata estrazione fascista. Siamo di fronte ad una società profondamente attraversata dal berlusconismo, dal post fascismo, dal leghismo. Si sta affermando una cultura della violenza, della sopraffazione, dell’intolleranza. La caccia all’immigrato ne rappresenta il fenomeno più allarmante.

La destra al governo è tutt’altro che sprovveduta. Siamo di fronte ad una offensiva populista e demagogica che risulta persuasiva perché parte, strumentalizzandoli, da bisogni reali delle famiglie. Le prime misure del Governo tanto “popolari” in realtà nascondono scelte che colpiscono proprio le parti più deboli del paese. Il taglio dell’ICI, che per buona parte andrà a favore di famiglie benestanti, è stato ad esempio finanziato con le risorse destinate alla Sicilia ed alla Calabria. Sulla tolleranza verso l’evasione fiscale e sul federalismo fiscale si è cementato un patto esplicito tra la destra ed i ceti privilegiati. Si sta costituendo un blocco sociale regressivo ed interclassista realizzato in nome dell’egoismo individualistico e territoriale che punta alla rottura di ogni solidarietà.

Senza una efficace opposizione politica e sociale la quarta vittoria elettorale di questa destra può dare vita ad un inedito “regime reazionario di massa”. Il mutamento del senso comune nella società rende infatti egemoni i valori delle destre e, dunque, possibile l’attuazione di provvedimenti che ne incarnano l’essenza e al tempo stesso ne rafforzano i paradigmi. La paura, l’individualismo, l’edonismo, l’appartenenza territoriale, il rifiuto dell’esercizio della critica sfociano nel pensiero unico che implica la messa al bando del conflitto per mezzo della logica del neocorporativismo ed il ripudio di ogni forma di alterità.

La ricostruzione della sinistra a partire dai comunisti non può quindi che muovere da un’inedita e difficilissima battaglia delle idee

 

Un nuovo inizio

 

Le ragioni storiche che giustificarono la nascita del PdCI restano di grande attualità. Queste sorgevano dalla consapevolezza della natura difensiva della fase per il movimento dei lavoratori, da un giudizio sulla natura reazionaria ed eversiva delle destre italiane che impediva ogni equiparazione tra centrosinistra e centrodestra, dal rifiuto del massimalismo e dell’estremismo che aveva preso la forma della teoria delle “due sinistre”, da una idea di partito nazionale dove gli interessi del Paese prevalgono su quelli di parte.

Per queste stesse ragioni però, anche dopo questa esperienza comune al Governo e dopo la sconfitta alle ultime elezioni subita insieme ai compagni del PRC, oggi riteniamo necessario ed urgente superare la divisione organizzativa e politica tra i comunisti. L’appello alle comuniste ed ai comunisti uscito immediatamente dopo il disastro elettorale, a cui il PdCI ha aderito, indica un percorso che condividiamo : “Proponiamo invece una prospettiva di unità e autonomia delle forze comuniste in Italia, in un processo di aggregazione che, a partire dalle forze maggiori (PRC e PdCI), vada oltre coinvolgendo altre soggettività politiche e sociali, senza settarismi o logiche autoreferenziali.”

 

L’unità tra i comunisti

 

E’ dunque sulla base di questa analisi e di tali considerazioni di fondo, che il PdCI si mette a disposizione di questo processo di unificazione. Non stiamo proponendo lo scioglimento del nostro partito in una generica fase costituente. L’idea di una palingenesi dove i comunisti come singoli possano dare vita, senza tenere conto delle profonde differenze di cultura politica che tra di essi permangono, ad un nuovo partito sarebbe la negazione del nostro percorso storico.

Di fronte alla sconfitta, accanto al rischio di assorbimento nel PD, dobbiamo contrastare infatti sia il pericolo di subalterne tendenze “fusioniste” in un’indistinta sinistra, sia ogni deriva minoritaria ed estremista. L’identità a cui facciamo appello non è un feticcio meramente – e vanamente – identitario (peraltro oggi assai difficilmente configurabile), ma la consapevolezza profonda ed orgogliosa di un percorso storico che, da Gramsci a Berlinguer, ha portato i comunisti italiani ad agire sempre nella società determinando per il proprio partito una cultura politica di massa. L’unità dei comunisti a cui lavoriamo ha, in premessa, precisi connotati politici e programmatici. Non basta infatti richiamarsi alla tradizione storico culturale rappresentata anche plasticamente dal simbolo della falce e martello, ma l’unità deve corrispondere ad un progetto politico serio e strutturato che sappia uscire dai foschi contorni dell’autorappresentatività e del settarismo.

Seguire l’illusione semplicistica di un arroccamento identitario – magari in perfetta buona fede, ma costitutente un rischio sempre presente dopo una così drammatica sconfitta – rappresenterebbe il ribaltamento di una lunga lotta a difesa della specifica identità politica dei comunisti italiani e risulterebbe oggettivamente funzionale all’obiettivo che si è posto il PD: il nostro definitivo annientamento.

Serve invece un percorso in cui i Comunisti Italiani, con la loro cultura politica, con il loro profilo programmatico e con la loro organizzazione possano contribuire a costruire assieme un nuovo e più grande partito comunista meglio attrezzato alla sfida che abbiamo di fronte a noi. Potrà essere un processo complicato, ma l’urgenza è assoluta. Pensiamo ad un processo di unificazione, prima di tutto tra noi ed i compagni del PRC, ma contemporaneamente proposto all’intero arcipelago dei comunisti senza partito e della sinistra, percorso con responsabilità, capacità di ascolto, rispetto delle diversità, in cui tutte e tutti abbiano pari dignità.

Il partito comunista di cui abbiamo bisogno non sarà solo il partito dei comunisti ma uno strumento in cui si possa riconoscere, come sempre è stato, larga parte della sinistra ed a cui si possa aderire e militare prima di tutto sulla base della condivisione degli obiettivi politici e programmatici.

Nessuna battaglia di retroguardia quindi ma, al contrario, una sfida politica che possa produrre un grande slancio di entusiasmo e passione, che sia in grado di coinvolgere lungo il cammino anche tantissimi giovani. A loro ci rivolgiamo, attraverso il processo che vivremo, affinché possano essere nuova linfa per le nostre arterie, nuove teste, nuove gambe e nuove braccia, attraverso le quali la gloriosa tradizione comunista italiana possa esprimersi vividamente e positivamente nelle sfide che il nuovo millennio ci pone di fronte.

Ripartiamo quindi da ciò che è rimasto in piedi dopo il disastro elettorale. La prospettiva dell’Arcobaleno è stata cancellata dagli elettori e con essa l’idea di una sinistra che non propone un chiaro progetto di trasformazione. Chi si attarda, come sembrano fare una parte del PRC e di SD, a vagheggiare una costituente dal basso che porti alla nascita di un partito della sinistra non più comunista indebolisce nell’immediato la capacità di reazione all’offensiva della destra e si muove, oggettivamente ma anche soggettivamente, in una prospettiva di accordo subalterno con il PD. I comunisti non erano e non sono disponibili ad una tale prospettiva. Una sinistra non può infatti che ripartire da una moderna interpretazione di quella fondamentale contraddizione tra capitale e lavoro che continua a generare la lotta di classe. Senza la consapevolezza che la lotta tra le classi non è un capriccio di qualche invasato o un retaggio arcaico ma il meccanismo fondamentale di funzionamento dell’economia capitalistica moderna si perde la bussola fondamentale per interpretare la realtà e quindi per provare a cambiarla. Nel rispetto e nella necessaria ricerca di unità con ogni progetto che si muove a sinistra noi dichiariamo la nostra indisponibilità ad ogni forma di confluenza in soggetti che non rilanciano “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” e quindi la prospettiva di superamento del capitalismo.

 

Parlare alla sinistra

 

Riunificare i due partiti comunisti è oggi la risposta realistica ed immediatamente operativa per parlare all’intera sinistra e può sprigionare anche nuove energie, entusiasmo, passione in tanti che continuano a sentirsi comunisti, ma non sono (o non sono più) parte dei due partiti comunisti organizzati e strutturati. Di fronte allo smarrimento, al disorientamento ed anche alla paura generata dal risultato elettorale la sinistra non cerca nuove dissoluzioni o rese dei conti, ma si aspetta dai comunisti una risposta immediata, funzionale alla ripresa della iniziativa nella nuova condizione di opposizione sociale. Per ricostruire una sinistra in Italia i comunisti hanno il dovere di ripartire da loro stessi. Questo il modo del PdCI di declinare, nelle nuova fase, la propria vocazione unitaria e la propria cultura politica.

Ai milioni di italiani che questa volta hanno scelto l’astensione o si sono piegati al voto utile ed anche a coloro che hanno perso fiducia nella sinistra al punto da regalare il loro consenso a formazioni della destra deve giungere un messaggio chiaro.

I comunisti hanno capito la lezione, fanno tesoro della consapevolezza degli errori commessi, e si preparano a percorrere una strada nuova.

La proposta di unificazione non è una proposta organizzativa ma politica. L’obiettivo non è solo mettere assieme le forze che sono in campo ma dotarle di una nuova dimensione e prospettiva politica adeguata alle diverse ed inedite condizioni in cui i comunisti sono chiamati ad operare.

L’unificazione è quindi prima di tutto funzionale a rilanciare la lotta. Senza la ripresa di un vasto ed articolato conflitto nella società italiana la ricostruzione di un vero insediamento politico ed elettorale della sinistra italiana è un obiettivo impossibile.

L’unificazione non è un ritorno al passato, ma un investimento sul futuro.

Riunificati in un nuovo e più grande partito comunista, Pdci e Prc dovranno poi cercare di lavorare per ritessere i necessari rapporti unitari con le altre forze della sinistra e democratiche. Il ritorno in campo di un più forte partito comunista è infatti condizione indispensabile per rilanciare le lotte e le alleanze necessarie a restituire all’Italia una dimensione pienamente democratica.

Per superare la divisione occorre avviare immediatamente un patto d’unità d’azione tra i due partiti comunisti sul terreno dell’opposizione a Berlusconi. Bisogna realizzare l’unità su un piano di massa definendo strumenti che difendano i lavoratori dalla crisi economica e praticando il primo obiettivo che i comunisti devono perseguire che è l’unità dei lavoratori.

Pensiamo inoltre che le prossime elezioni europee potrebbero già rappresentare un primo momento di verifica elettorale del percorso unitario che proponiamo ai compagni ed alle compagne del PRC attraverso la presentazione di una lista unica. PdCI e PRC potrebbero così dare, agli occhi della intera sinistra, un chiaro segnale di speranza ed unità per rilanciare anche sul piano elettorale, in Italia ed in Europa, la lotta per i diritti, la pace, le libertà e contro tutte le destre e gli oscurantismi.

 

La politica delle alleanze

 

A questo scopo serve un giudizio articolato sulla natura del PD, a partire dalla premessa che anche la critica più feroce al disegno politico del PD non può mai comportare un’equiparazione di questo partito con la destra di Berlusconi. Questa destra resta evidentemente il nostro nemico mortale. Il PD rappresenta un avversario il cui destino definitivo non è ancora scritto. La sconfitta elettorale non ha infatti colpito solo la sinistra, ma prima di tutto il medesimo PD, che si presentava come forza “a vocazione maggioritaria”. Nonostante il profilo estremamente moderato – quando non apertamente conservatore – con cui questo partito si è presentato alle elezioni, impersonificato nelle scelte economiche, istituzionali e nelle stesse candidature, il PD non ha affatto raccolto i voti del centro e questo rappresenta un insuccesso strategico del disegno veltroniano. La stessa ansia con cui Veltroni ha chiesto a Berlusconi di istituzionalizzare il ruolo del PD, del suo presunto governo ombra, a scapito delle altre opposizioni, parlamentari e non, è sintomo di grande fragilità e debolezza. La dinamica politica e sociale italiana presenta ancora forti resistenze ad essere rinchiusa in un sistema bipartitico-cesaristico. All’interno stesso del PD si manifestano peraltro resistenze ad una completa deriva leaderistica ed ad una identità che ha espulso anche formalmente ogni riferimento alla sinistra. Non si può sottovalutare che larghi strati dell’opinione pubblica progressista e di sinistra guardano oggi al PD, interpretando in modo del tutto travisato la proposta politica e il suo atteggiamento rispetto al governo di destra. Gran parte di coloro che nel passato hanno costituito il nostro stesso elettorato ha scelto alle ultime elezioni di votare questa formazione. Per recuperare questi elettori ad una prospettiva autenticamente di sinistra ed ad un voto comunista non serve certo una mera criminalizzazione del PD e l’autoisolamento in un recinto settario. Al contrario, per ragioni di consenso e per strategia politica, nostro scopo è sfidare il PD disvelandone in questo modo la linea conservatrice. Dobbiamo agire per aprire contraddizioni all’interno di questo partito e nel suo insediamento sociale perché un suo definitivo approdo conservatore e consociativo rappresenterebbe un ulteriore colpo alla stessa democrazia italiana.

In questa visione è necessario riaffermare un obiettivo centrale dei comunisti: quello di proporsi come motore propulsivo dell’unità della sinistra, dell’unità di azione e dell’alleanza di tutte le forze di opposizione democratiche e di sinistra contro una destra che punta a sovvertire le basi costituzionali della Repubblica. Ammonendo il PD che ogni collaborazione con la destra in questa fase significa esserne oggettivamente complice. Senza tale unità ed alleanza la destra non potrà che rafforzarsi sempre più. Una unità ed una alleanza indispensabili e dunque da perseguire.

Il disastro elettorale dell’Arcobaleno ha tra l’altro reso evidentissima la natura di opinione del voto alle forze della sinistra. Abbiamo perso consensi verso l’astensione, verso il cosiddetto voto utile e persino verso la falsa protesta interpretata da alcune formazioni della destra come la Lega. Serve dunque un lavoro di lunga lena per ricostruire il nostro insediamento profondo. Servono altresì scelte immediate che consentano agli elettori di ridarci consenso e fiducia.

Se il sistema di alleanze come lo abbiamo conosciuto dal 1996 ad oggi è finito, ciò non comporta che si debbano escludere a priori momenti di convergenza anche elettorale. E’però chiaro che sia chi ci ha puniti con l’astensione, sia chi ha scelto il PD ha bocciato categoricamente il modo in cui sino ad ora abbiamo interpretato il nostro ruolo al governo e nelle coalizioni.

 

Il ruolo dei comunisti

 

Occorre ribaltare la logica della nostra azione politica uscendo dalla tenaglia tra subalternità e conflittualità continua.

Per farlo serve spiegare nuovamente quale sia il ruolo dei comunisti dentro la dimensione politicoistituzionale.

Dobbiamo urgentemente rielaborare una proposta di società ed offrire una visione tangibile e realizzabile della trasformazione nelle condizioni date dall’attuale fase difensiva. In questa visione organica prende forma la nostra strategica alternatività al PD che, al contrario di noi, considera il mercato capitalista come l’orizzonte insuperabile della politica mondiale pur proponendone una versione “compassionevole”.

Fondamentale nel fare questo è definire obiettivi politico-strategici intermedi verso il socialismo nel nuovo millennio che declinino la nostra azione. In questo senso il nostro obiettivo intermedio, che traccia un orizzonte programmatico di medio e lungo periodo indicando concretamente una transizione verso una trasformazione generale della società, non può che essere l’applicazione integrale della Costituzione nata dalla Resistenza. Questa parola d’ordine disegna un orizzonte strategico fatto da un nucleo di proposte forti in base alle quali verificare la possibilità di stringere alleanze.

Per uscire dalla gabbia degli accordi programmatici a tutto tondo, che si è tradotta o nella conflittualità continua o nella completa subalternità alle piattaforme dei moderati, i comunisti, a tutti i livelli, devono verificare la possibilità di praticare alleanze fondate su specifiche proposte fortemente caratterizzanti e funzionali all’obiettivo di riunificare il nostro soggetto sociale di riferimento. Il lavoro di individuazione delle priorità politico-programmatiche diviene oggi assolutamente vitale per conservare una reale autonomia per i comunisti ed una cultura politica di governo.

Sia dall’opposizione che da eventuali collocazioni di maggioranza l’obiettivo strategico che si pongono i comunisti è quello di portare al governo le istanze del lavoro.

Dobbiamo rendere evidenti le proposte positive capaci di modificare concretamente la realtà a beneficio di coloro che intendiamo rappresentare. Obiettivi chiari e molto riconoscibili perseguiti con pratiche coerenti rendono possibile una percezione di efficacia della funzione dei comunisti. Solo un forte legame di fiducia tra partito e proprio elettorato rende inefficace il richiamo del voto utile e consegna al partito la forza di realizzare il necessario compromesso. In questo schema non saremo più noi ma il PD a dover decidere se rompere con la sinistra e condannarsi alla sconfitta.

Di fronte alle spinte localistiche e disgregatrici è necessario riverticalizzare il conflitto ma senza trascurare l’importanza che in una società complessa hanno assunto i sentimenti di appartenenza territoriale e le dimensioni locali che altrimenti regaleremmo alla egemonia delle destre. Dobbiamo ripartire dalla nostra capacità di declinare localmente uno sviluppo sostenibile socialmente ed ambientalmente, come parte di un progetto complessivo di alternativa alle logiche liberiste. Pensando globalmente e agendo localmente potremo cogliere una grande opportunità di radicamento territoriale, di opposizione sociale dentro e fuori dai luoghi di lavoro.

Decisiva è la difesa della democrazia costituzionale. Rotto l’equilibrio democratico con l’introduzione del maggioritario ogni ulteriore scivolamento istituzionale che si allontani dal patto costituzionale deve essere letto come sempre una lesione alla democrazia repubblicana. Il proporzionale e la centralità del Parlamento come espressioni dell’universalità della richiesta di una testa un voto devono essere la barra su cui misurare ogni azione di modifica del quadro istituzionale.

Alle altre forze della sinistra va lanciata la sfida di un fronte unico delle opposizioni contro Berlusconi. All’idea deleteria di autosufficienza del PD contenuta nella decisione di dare vita al governo ombra, ci si deve contrapporre con la sfida ad individuare temi e terreni di iniziativa dove far convergere tutte le forze dell’opposizione parlamentare e non. Alla proposta di una generica costituente della sinistra, prodromo della costruzione di un contenitore-partito della sinistra arcobaleno, artificiale e liquidazionista, bisogna rispondere con la riaggregazione politica dei partiti comunisti, ma contmporaneamente con la disponibilità alla più ampia unità nella mobilitazione con tutti i soggetti, politici, partitici, di movimento ed associativi che compongono l’arcipelago della sinistra italiana. Essi rappresentano i nostri alleati naturali e contemporaneamente il nostro potenziale bacino di voto. E’ con questa sinistra che sono state possibili le grandi manifestazioni per la pace, per la difesa dei diritti dei lavoratori e dei diritti civili.

 

Il nostro posto nel mondo

 

Non partiamo da zero. I comunisti italiani vogliono portare il loro contributo al processo unitario e, sino a quando questo non andrà a compimento, intendono continuare a sviluppare la loro azione di forza viva ed attiva sul piano interno ed internazionale. Portiamo all’incontro unitario un patrimonio di elaborazione e di pratiche di cui andiamo fieri. Tra queste una chiara consapevolezza della assoluta necessità di mettere in campo un nuovo internazionalismo. La critica dell’eurocentrismo, praticata da un partito europeista, ci ha consentito di entrare in sintonia con tante esperienze che dal “sud del mondo” stanno cambiando la storia. La lotta per la pace, contro l’imperialismo ed il neocolonialismo, non può più essere un fatto accessorio ma deve pervadere ogni momento della politica di un partito comunista. In questo la rottura nel movimento socialista che si produsse durante la prima guerra mondiale ha ancora una grande attualità. La guerra globale scatenata dagli Usa in nome della presunta lotta al terrorismo ha natura costituente di un nuovo ordine mondiale imperialista. Di fronte a ciò bisogna impedire che anche pezzi importanti delle classi lavoratrici possano dare il loro consenso a politiche neocolonialiste. Non è affatto un caso che, proprio nel momento in cui, anche il recente drammatico fallimento del vertice della FAO sulla fame, dimostra universalmente l’impossibilità, nel quadro delle compatibilità capitaliste, di affrontare i grandi drammi che affliggono l’umanità l’imperialismo spinga con ancora più determinazione per acuire la crisi infiammando il medio oriente al punto di immaginare, dopo il disastro quotidiano ma ormai quasi dimenticato dell’Iraq, una guerra di aggressione all’Iran.

Pesa ancora su di noi, come una ferita, l’errore compiuto in occasione dei bombardamenti della Nato contro la Jugoslavia quando non uscimmo dal governo e non riuscimmo a fermare la guerra. Su questo abbiamo già fatto in passato una severa autocritica. La conquista di una piena sovranità del nostro Paese potrà realizzarsi solo fuori dalla alleanza militare della Nato e rompendo il rapporto subalterno con gli Usa. L’applicazione letterale dell’art.11 della Costituzione non è solo un dovere politico e morale ma il solo modo per ridare all’Italia un ruolo positivo nel mondo.

La lotta per la pace costituisce non solo dovere etico ed obbligo politico ma parte fondamentale di una strategia di trasformazione della società.

E’ quindi oggi tanto più necessario “valicare”, come già tante volte abbiamo fatto dando “scandalo”, i presunti confini definiti dallo scontro di civiltà. Compito di una forza comunista ed antimperialista è infatti quello di verificare, anche oltre le formali barriere politiche, quali sono oggi i soggetti in campo nella resistenza al disegno di dominio capitalista. Per questo noi del PdCI abbiamo sviluppato relazioni internazionali a tutto campo che sono anch’esse a disposizione del percorso unitario. I nostri interlocutori spaziano dalle forze tradizionalmente comuniste, prima fra tutti il Partito Comunista Cubano, ai movimenti di resistenza in Libano ed in Palestina, ai partiti comunisti e di ispirazione antiimperialista nel mondo arabo, ad iniziare dalla Siria, da forze socialiste di sinistra come il PT del Brasile e il PSUV del Venezuela o i partiti della sinistra scandinava, sino ai nostri fecondi rapporti con i partiti comunisti al potere in Stati importantissimi nel mondo quali il Viet-Nam e la Cina. Bisogna quindi sviluppare tutte le forme di dialogo, dibattito e coordinamento di azioni comuni. Certo è che senza una rete diffusa e solida di relazioni internazionali non è possibile pensare a reinsediare strutturalemente nel nostro paese una forza utile alla lotta antiimperialista.

Particolare attenzione andrà dedicata, ovviamente, al piano europeo dove è in corso un tentativo di ristrutturazione politica che renda il quadro istituzionale del tutto impermeabile al conflitto di classe. Questo processo ha prodotto l’attuale marginalizzazione della sinistra politica in Francia, in Spagna ed ora in Italia. Resistono significativi insediamenti in Grecia, Portogallo e Repubblica Ceka, mentre in Germania l’esperienza della Linke, fatta dall’innesto tra un fortissimo insediamento territoriale della PDS ad est ed una forza strettamente legata al mondo sindacale della WASG ad ovest, risulta difficilmente riproducibile. Spicca positivamente, purtroppo isolato, il “caso Cipro” mentre ad est, tranne il caso della Repubblica Ceka e della Federazione Russa, le forze della sinistra sono pressoché del tutto marginali, quando non inesistenti. Anche nei paesi scandinavi la sinistra di alternativa, fortemente antieuropea, ha subito forti arretramenti. L’esperienza sino ad ora fortemente deludente del Partito della Sinistra europea indica che anche a livello continentale le forzature organizzativiste ed i “nuovismi” ideologici non portano lontano. Crediamo occorra lavorare per ricomporre un fronte unico continentale nel rispetto delle diversità e delle diverse tradizioni politiche. A partire dalle prossime elezioni europee è necessario un nuovo patto tra tutte le sinistre di alternativa europee che tolga di mezzo ogni tentativo egemonico e ricostruisca le basi di una reciproca solidarietà politica. Oggi lo scontro di classe avviene prevalentemente a livello di macroaree continentali. E’ quindi indispensabile che la sinistra ed i comunisti si diano una dimensione politica europea e che diventino, anche a questo livello, organizzatori e promotori di lotte e di rivendicazioni.

 

L’opposizione sociale

 

L’attuale condizione extraparlamentare non rappresenta affatto un vantaggio od un approdo auspicabile ma può assumere una funzione rigeneratrice se i comunisti sapranno essere forza motrice e “guida” di una efficace opposizione sociale su di una linea di massa. Dobbiamo avere ben presenti i rischi di minoritarismo ed estremismo a cui può indurci un tale contesto.

La situazione ci impone quindi di accelerare sia sul piano dell’analisi che su quello della prassi. L’obiettivo primario non può che essere quello della ricomposizione politica e sociale del mondo del lavoro. Senza la ripresa del protagonismo diretto dei lavoratori non può darsi trasformazione sociale. Ovviamente sarebbe antistorico riproporre formule e moduli di azione politica che la ristrutturazione della produzione capitalistica ha reso obsoleti. Nello stesso tempo l’appello a “ritornare davanti alle fabbriche” significa anche non dimenticare, come spesso si è fatto, che esiste ancora una larga dimensione del lavoro operaio che deve essere conosciuta, interpretata, organizzata e rappresentata dai comunisti.

Occorre creare le condizioni per costruire il partito nei luoghi di lavoro: parola d’ordine ed obiettivo già sancito nei nostri precedenti documenti congressuali, ma largamente disatteso e, comunque, drammaticamente al di sotto delle necessità.

La lotta alla precarietà ed alla frammentazione del mondo del lavoro, dentro e fuori la fabbrica, rappresenta oggi uno degli snodi fondamentali da cui ripartire. Non è affatto semplice perchè proprio la precarietà rende difficilissima l’organizzazione e la pratica del conflitto. Serve una profonda innovazione che combini a concreti strumenti di intervento, anche normativo, volto a ripristinare per lo meno il principio “ad uguale lavoro, uguale salario ed uguali diritti”, una battaglia delle idee che faccia emergere la dimensione collettiva dello sfruttamento che affligge oggi il mondo del lavoro. In una società della comunicazione anche i comunisti devono saper condurre campagne di promozione, di propaganda, di diffusione non solo della loro piattaforma di rivendicazione immediata ma anche di un radicalmente diverso modo di intendere il ruolo del lavoro nel processo produttivo. Ridare dignità al lavoro significa saper affrontare in modo moderno il tema dell’alienazione.

 

Il sindacato

 

Abbiamo individuato da tempo nella contraddizione capitale–lavoro e nella sua centralità il terreno fondamentale di battaglia politica dei comunisti in Italia.

La difficile crisi politica in seguito all’esito elettorale affonda molte delle sue radici nella involuzione prodotta dalla rottura della coesione sociale. Quando criticammo duramente la legge 30 intravedemmo nella nuova legislazione sul lavoro il principale strumento di una strategia eversiva tesa a cancellare la rappresentanza collettiva nel mondo del lavoro (eliminando in un sol colpo sia il sindacato che il contratto nazionale) per imporre la subalternità del lavoratore all’impresa.

In questo scenario di grande difficoltà, occorre sviluppare un lavoro politico e sociale verso il mondo del lavoro economicamente dipendente.

La politica deve rientrare nei luoghi di lavoro senza per questo riprodurre schematicamente modelli del passato ma cercando un rinnovato radicamento in grado di portare, nel luogo primario dello scontro tra capitale e lavoro, la lotta sia per la difesa delle condizioni materiali quotidiane che per innestare una dinamica di trasformazione della società.

Un altro terreno ineludibile per una ripresa del conflitto sociale, pur nel rispetto dei ruoli, è quello del rapporto con le organizzazioni sindacali ed in particolare con la CGIL. Per i comunisti, infatti, le grandi organizzazioni sindacali di massa rappresentano uno dei luoghi essenziali per la battaglia politica. La frantumazione sociale prodotta dalle politiche degli ultimi venti anni, particolarmente cruente durante il precedente Governo Berlusconi, rischia di indirizzare il conflitto verso connotati neocorporativi con derive localistiche.

La CGIL rappresenta oggi l’ultimo grande insediamento di massa della sinistra in Italia e dunque nessun progetto che abbia l’ambizione di coinvolgere larghi strati di lavoratrici e lavoratori può prescindere dal rapporto con essa. Le sue forme di dinamica interna, sia pur criticabili, rappresentano, infatti, una pratica democratica per milioni di lavoratori italiani. E’ in atto una forte pressione che mira alla trasformazione del ruolo del sindacato verso una deriva moderata (attraverso l’accettazione delle compatibilità imposte dal neoliberismo e la negazione dell’esistenza stessa del conflitto di classe) e verso il suo snaturamento in fornitore di servizi. Proprio in questo momento è necessario che i comunisti si adoperino contro qualsiasi tentativo di delegittimazione e di indebolimento della CGIL teso alla concretizzazione dell’ipotesi di sindacato unico.

Per queste ragioni è necessario che i comunisti agiscano per stimolare un dibattito vero e profondo, con l’obiettivo di aiutare la CGIL a tenere vivi gli anticorpi che le hanno consentito di essere, nel corso dei decenni, motore del conflitto sociale e fortemente rappresentativa ed autonoma.

Ai comunisti spetta anche il compito di favorire un percorso di rafforzamento della sinistra sindacale in CGIL, riaggregandola per impedire che si chiuda in Italia l’orizzonte di un forte sindacalismo di classe.

Sempre nell’ottica di mantenere il rapporto con i tutti i soggetti presenti nel mondo del lavoro italiano, è opportuno interloquire con il sindacalismo di base guardando con attenzione alla sua lotta per la piena democrazia sindacale ed alla sua capacità di incidere concretamente nelle rivendicazioni in alcuni settori produttivi.

 

Composizione di classe e blocco sociale.

 

I lavoratori salariati in Italia sono oltre 17 milioni a cui si affiancano circa 5 milioni di lavoratori autonomi di cui dovremmo essere in grado di leggere il grado di subordinazione per avere una stima esatta dei lavoratori economicamente dipendenti nel nostro Paese. L’aumento occupazionale di 201000 unità di lavoratori immigrati, solo tra il 2006 e il 2007, dà il segno del peso che questi hanno tra le fila della classe lavoratrice. Vastissima resta l’area del lavoro nero mentre la precarietà è divenuta norma e generazioni intere di lavoratori sono espunte dalle garanzie contrattuali. Gli indicatori economici e le dinamiche del mercato del lavoro indicano che la crisi colpisce pesantemente sia i lavoratori salariati che quei lavoratori autonomi che un tempo si consideravano parte del ceto medio.

L’approfondimento della condizione operaia e del lavoro dipendente in generale è essenziale per lavorare all’obiettivo di ricomposizione politica e di unità che è premessa necessaria per affrontare la sfida del cambiamento.

Accanto a questo è necessario prestare attenzione ad una peculiarità italiana e cioè l’ampia presenza di settori di piccola e media borghesia che, in una situazione di polarizzazione sociale quale quella a cui stiamo assistendo, rischia di essere definitivamente saldata ad un blocco sociale reazionario. Le liberalizzazioni di Bersani, in parte, hanno alimentato tale spinta ampliando il consenso di Berlusconi e della destra.

Riconsiderare la questione delle alleanze sociali e del blocco sociale quale un elemento decisivo per la costruzione di un alternativa è fondamentale. La lettura della società italiana in questi termini può ridare ai lavoratori e ai comunisti quella funzione generale di cui sono potenzialmente espressione.

 

Immigrazione questione globale e di classe

 

Nella condizione dell’immigrato vivono due delle grandi contraddizioni del presente: quella tra capitale e lavoro e quella tra nord e sud del mondo. Non è quindi possibile alcuna concessione all’uso ideologico della questione sicurezza. Tale tema ha visto grandi balbettii anche a sinistra che hanno oscillato dal giustificazionismo verso l’ondata xenofoba e reazionaria ad una visione più vicina al solidarismo cattolico. E’ necessario, viceversa, lavorare per offrire un lettura alternativa del problema che è tradotto nel senso comune nella paura dei migranti. E’ fondamentale determinare obiettivi di lotta che possano far riconoscere nei lavoratori immigrati una parte sempre più rilevante della classe lavoratrice. Quanti più immigrati usciranno dalla condizione di sottoproletari o di proletari iper sfruttati tanta più forza avranno i lavoratori in Italia e nei paesi di emigrazione.

Solo una reale politica d’integrazione può dare risposte reali ai problemi, altrettanto reali, che i fenomeni migratori comportano. Per politica d’integrazione s’intende casa, scuola e lavoro ma anche diritti e doveri legati ad una cittadinanza che deve essere riconosciuta a tutti coloro che vivono nel nostro paese. La sicurezza viene dai diritti e quindi dalla fine della clandestinità. La mancata cancellazione della legge Bossi-Fini è stato un errore strategico data la natura criminogena delle politiche sicuritarie della destra. Le politiche repressive dello stato di clandestinità sono funzionali al perpeturarsi dello sfruttamento ed al dominio sugli immigrati da parte dei padroni autoctoni e delle organizzazioni criminali che organizzano il traffico degli esseri umani. Bisogna avere il coraggio politico di ribaltare la logica della destra assicurando la possibilità ai migranti di poter entrare alla luce del sole - con il proprio nome e quindi con i propri diritti e doveri - nel nostro paese per cercare un lavoro ed un futuro. La sicurezza viene dalla fine della guerra tra poveri e dal riconoscersi compagni e compagne nella comune lotta per l’emancipazione.

 

La differenza di genere

 

Partire dal conflitto di classe per rilanciare l’opposizione sociale non significa in alcun modo arretrare dall’analisi che ci ha portato a maturare la consapevolezza che di questa dimensione fa parte integrante la questione di genere. Negli stessi scritti di Marx ed Engels si trovano le basi della lotta contro il maschilismo patriarcale. La lotta per la laicità dello stato e per la piena libertà nella sfera sessuale è connessa con la nascita stessa del movimento socialista.

Anche in questo caso l’urgenza non è solo quella di far emergere le forme, nuove ed antichissime, di discriminazione che colpiscono le donne ma, altresì, la consapevolezza che la differenza di genere, per quanto attiene a quella femminile, essendo sostanziata dalla peculiare capacità procreativa, necessita di uno statuto di diritti socio-economici non meramente identici a quelli del genere maschile.

Il lavoro teorico che si è sviluppato nel movimento femminista a partire dagli anni ’70 va ripreso, aggiornato e tradotto in concrete proposte per farne base di lotta culturale e politica. Lotta che i comunisti e le comuniste devono costruire, al fianco dei movimenti esistenti, affinché alla differenza dei generi corrisponda una eguaglianza “sostanziale” tra uomini e donne nella ripartizione del lavoro di cura e del lavoro in generale, nel godimento dei diritti di cittadinanza, nella signoria sul proprio corpo e sulla propria sessualità, a prescindere dal suo orientamento.

La violenza contro le donne non accenna a diminuire. Anzi l’aggressività maschile è la prima causa di morte e di invalidità delle giovani donne in tutto il mondo ed anche in Europa e nel nostro Paese. Questa violenza coinvolge, purtroppo, ogni cultura ed ogni classe. L’accanimento contro i corpi delle donne, contro la sessualità e la libera scelta appartengono ai fondamenti stessi dell’economia, della politica, dei poteri e dei saperi istituzionali su cui sono costruite le società umane sotto qualunque cielo.

 

Nuove domande

 

Alla corporativizzazione della società la sinistra deve rispondere con la capacità di una proposta politica che renda universali i diritti e connetta i diritti sociali e quelli civili. Ai comunisti il compito di far emergere il dato di sfida sistemica che emerge da ognuna di queste contraddizioni. Non esiste alcuna possibile classifica di priorità tra le domande di libertà ed uguaglianza. Tutte attraversano contemporaneamente le persone in carne ed ossa.

Per noi non esiste distinzione né contraddizione tra i diritti sociali e quelli civili perché questi si possono e si devono leggere nell’ottica delle differenze di classe. I diritti civili devono essere garantiti a tutte le donne e gli uomini e non solo a chi può permetterseli grazie al proprio status economico o sociale privilegiato.

L’idea che l’orientamento sessuale e l’identità di genere siano questioni pertinenti solamente alla sfera privata o, peggio, afferenti alla libertà individuale, è retaggio patriarcale. Così si nega la relazione con le condizioni socio-economiche delle persone ed a maggior ragione si nega il riconoscimento dei diritti.

Lo sfruttamento di una classe sull’altra, dell’uomo sulla donna e della specie umana sul pianeta pongono una domanda radicale di trasformazione, di rivoluzione dell’economia, dei rapporti sociali, delle relazioni umane e delle sovrastrutture ideologiche. Tutte devono essere parte integrante del nostro corpo teorico ed integrarsi tra loro nella nostra pratica politica pena la sconfitta.

 

Cambiamenti climatici e beni comuni

 

La recessione economica sta consumando i salari già alle prese con l’enorme aumento dei prezzi dei generi alimentari. Le produzioni locali sono state distrutte dalla frenesia del mercato globale. I capitali in fuga dai mutui “subprime” si sono riversati in maniera speculativa sui “future” di riso, grano, mais e soja, esattamente come per il petrolio; gli stessi capitali hanno letteralmente fatto lievitare i prezzi ben prima dell’azzardo dei biocombustibili. Le tematiche ambientali esigono una lettura prettamente anticapitalistica: dall’ambiente/salute sui luoghi di lavoro alle guerre per le materie prime, per l’acqua e, ora, per il cibo. Su tutto campeggia il riscaldamento globale e la conseguente gestione del territorio, delle sue risorse, del loro uso, del loro commercio e della loro proprietà.

Le tematiche ecologiste devono improrogabilmente e indiscutibilmente essere riprese saldamente in mano dalla sinistra, liberandole sia da regressioni puramente conservatrici che da forzature sviluppiste. Dobbiamo diventare interlocutori del fare e del fare bene, accettando la sfida dei cambiamenti climatici che potrebbe diventare una grande opportunità di riqualificazione della politica, di ridiscussione del modello di sviluppo oltre ad una grande sfida per l’innovazione tecnologica.

L’acqua in primis (su cui il mercato vuole mettere le mani trasformandola in un servizio a domanda individuale) è un bene comune ed un diritto umano che deve essere del tutto sottratto a logiche speculative e di profitto e quindi saldamente mantenuto in mano pubblica . L’accesso all’acqua è un diritto universale ed inalienabile per l’intera umanità. La democrazia stessa presuppone l’esistenza di beni comuni senza i quali esiste solo la contrattazione privata dei consumi. Tra i beni comuni includiamo i beni culturali, grande ricchezza ideale e materiale di ogni nostra città e paese come la conoscenza e gli strumenti di divulgazione della stessa.

Dobbiamo puntare ad uno sviluppo sostenibile che ponga l’attenzione sull’eguaglianza tra le persone. Devono essere garantite a tutti le stesse opportunità e risorse. L’ecologismo deve prevedere la razionalizzazione e la redistribuzione delle ricchezze esistenti che si basi, inoltre, sui limiti delle risorse planetarie, mettendo così in discussione anche standard di vita quotidiani incomprensibili come aveva anticipato lucidamente Enrico Berlinguer nel suo discorso sull’austerità.

Ci troviamo di fronte ad un nuovo colonialismo connotato dall’esportazione di un modello di sviluppo esausto, dal riarmo e dall’uso dissennato delle risorse del pianeta. Dobbiamo quindi ripensare il modello di sviluppo, con il confronto più ampio possibile, verso una nuova politica della sobrietà etica ed energetica contro il mito bugiardo e guerrafondaio della crescita infinita.

 

Laicità

 

L’ingerenza crescente delle gerarchie eclesiastiche negli affari interni e nella politica italiana ha ormai rotto ogni argine. Questa tendenza all’invadenza del sacro sul politico ha carattere globale è corrisponde ad una regressione della dimensione laica e pubblica. In Italia la stessa fragilità delle forze politiche che fanno riferimento diretto alla chiesa cattolica rendono la gran parte della politica disponibile a farsi direttamente condizionare dal Vaticano. Se la chiesa diventa attore politico però ne deve accettare tutte le conseguenze a partire dalla fine dei patti reciproci stabiliti nel Concordato. La società italiana, anche quella cattolica, ha sempre dimostrato di essere più avanti delle gerarchie cattoliche nel voler riconoscere diritti e libertà. La lotta per la difesa e l’ampliamento dei diritti civili, a partire dalla fine di ogni discriminazione connessa agli orientamenti sessuali e dalla difesa dell’autodeterminazione delle donne nella procreazione, sono assi portanti di una idea di libertà ed emancipazione dove, tra la dimensione economica, sociale e privata, non esiste un prima ed un dopo.

 

Stato sociale

 

Sulla difesa dello stato sociale, delle conquiste del lavoro, dell’intero sistema di garanzie sociali a difesa della dignità, libertà e uguaglianza dei cittadini, lo scontro che si prepara è quanto mai duro e complesso. Con due problemi fondamentali.

Il primo, più semplice, riguarda la tendenza, in atto da anni, alla privatizzazione dei servizi pubblici, favorita dal modo in cui la destra alimenta una deriva sociale e culturale dove la famiglia, abbandonata nel ruolo di unica fonte di “protezione sociale”, sostituisce uno stato che abdica, man mano, ai suoi compiti fondamentali, cioè la tutela universale dei diritti dei cittadini.

Privilegi per pochi, carità per tutti gli altri.

L’attacco al lavoro pubblico, i cardini del cosiddetto federalismo egoistico, l’affermarsi di pratiche e di modelli privatistici nelle strutture sanitarie, assistenziali e formative, rappresentano le leve con le quali la destra intende aggredire le conquiste di civiltà della società italiana, per deviare dalla spesa sociale ingenti risorse pubbliche da destinare a quei processi di ristrutturazione economica e finanziaria richiesti dalla Confindustria.

Il secondo, più complesso, riguarda la tendenza, evidente soprattutto nella sanità in alcuni settori più lucrosi dell’assistenza e degli appalti pubblici ad utilizzare il denaro pubblico per la costruzione di imperi economici e di vere e proprie carriere politiche: su modelli che sono, in un numero crescente di regioni, quelli proposti dalla criminalità organizzata. Con conseguenze drammatiche sulla qualità di troppi amministratori e di troppe iniziative pubbliche. Ma con la conseguenza, soprattutto, di una deviazione sempre più consistente della spesa pubblica verso settori parassitari o francamente corrotti.

Fondamentale risulta quindi la necessità di battersi a tutti i livelli a difesa di uno stato sociale forte, in grado di attuare politiche sociali complessive, di mantenere ed stendere su tutto il territorio nazionale la rete pubblica di servizi alle persone. Servono nuove risposte adeguate e rispondenti alle crescenti domande di fasce sempre più ampie di popolazione che sono, di volta in volta, i minori, gli anziani, le persone con disabilità, le donne, gli espulsi dalla nuova scuola di classe, gli extracomunitari, i pensionati, le vecchie e nuove povertà.

Serve una sinistra che operi per garantire a tutti pari opportunità di realizzazione, crescita, sviluppo, in una società solidale, accogliente, capace di farsi carico dei problemi del vivere quotidiano e che si occupi concretamente di quanti vivono situazioni di disagio e di chi è a rischio di disagio, con politiche capaci, non solo di affrontare le emergenze ma di sostenere i cittadini anche nelle quotidiane esigenze legate alle fasi della vita, alla malattia, alle condizioni economiche e sociali.

I comunisti italiani, nel corso dell’intera storia repubblicana, hanno lottato per l’attuazione di questi principi di universalità dei diritti fondamentali alla salute, all’istruzione, alla casa, ad un salario dignitoso, a partire dalla loro lotta coerente ed ininterrotta per l’attuazione dei principi e degli impegni programmatici di emancipazione sociale e di uguaglianza sostanziale, sanciti nella nostra Costituzione, a partire dall’articolo 3.

Per questo la nostra scelta di fondo per la difesa e l’attuazione piena della nostra Costituzione è battaglia per la difesa e la tenuta dello stato sociale e del suo carattere pubblico, a sostegno delle condizioni di vita dei cittadini e dei loro diritti inalienabili.

I diritti non possono essere negoziati, vanno riconosciuti e praticati nella loro estrema radicalità.

Occorre ricostruire un nuovo patto sociale che, a partire da chi vive fuori o ai margini della società, ricomponga reti, costruisca relazioni di aiuto, ridefinisca ambiti di solidarietà. E’ da qui che bisogna ripartire per una redistribuzione delle risorse che risponda ad una idea di giustizia sociale praticata.

 

Diritto al sapere

 

L’altra grande tematica prioritaria per i comunisti è quella del diritto al sapere. A maggior ragione oggi, in presenza dell’attuale quadro politico e nel contesto di quella che viene definita la società della conoscenza dove l’accesso per tutti al sapere diviene condizione fondante della democrazia, in diritto al sapere è presupposto necessario per ogni processo di trasformazione, di emancipazione e progresso della società.

Ben ha capito la nuova destra la centralità del sapere. Proprio attraverso l’incontrastato monopolio dell’informazione ed a politiche finalizzate ad escludere dall’accesso all’istruzione e al sapere strati vastissimi di popolazione, la destra è riuscita a far avanzare, nell’ultimo quindicennio, processi di egemonia e di consenso che hanno generato anche i suoi ripetuti successi elettorali.

Oggi come ieri, l’obiettivo di queste forze è la destrutturazione del sistema pubblico dell’istruzione. Per esse è infatti strategico arrivare al più presto alla privatizzazione del sapere ed alla trasformazione della scuola e dell’università da luoghi della crescita collettiva e dello sviluppo del pensiero critico in strumenti di pre-selezione nella corsa individualistica verso il “successo”.

Sull’affermazione o meno del sapere come diritto universale si gioca dunque il futuro della società dell’uguaglianza, di una società democratica dei cittadini o di una società ademocratica dei sudditi.

La prima battaglia necessaria è quella per il recupero dei grandi mezzi di comunicazione di massa al loro ruolo democratico, di informazione e formazione dei cittadini. Il presupposto è quello di sottrarli al monopolio incontrastato che li controlla finalizzandoli alle logiche del massimo profitto, della creazione del consenso, per determinare modelli di vita, l’incultura della subalternità, la distruzione del pensiero critico e della consapevolezza dei diritti, per condizionare le tendenze politiche.

La seconda grande battaglia è quella per la scuola e l’università pubbliche quali luoghi fondamentali della formazione del pensiero critico, della trasmissione del sapere, delle conoscenze e delle competenze, per consentire ad ognuno di vivere consapevolmente la propria cittadinanza sociale.

Un progetto di scuola della Costituzione che dovrà realizzarsi in una scuola pubblica e laica che sola può ambire a garantire pari opportunità per tutti, democrazia e pluralismo del sapere. Bisogna quindi investire ingenti risorse sulla scuola pubblica, escludendo invece ogni finanziamento a quella privata, e garantire realmente il diritto allo studio rendendo l’istruzione realmente gratuita.

Vogliamo che il sapere sia considerato un bene comune e non una merce; che la libertà di ricerca e di insegnamento costituiscano la premessa irrinunciabile per la trasmissione dei nuovi saperi attraverso uno studio critico che sappia mettere il giovane in grado di “sapere” e “saper fare”; che le risorse per il diritto allo studio tornino ad essere un investimento prioritario a garanzia della possibilità per tutti di accedere e permanere nell’università.

Su queste basi si potrà iniziare a realizzare la società della conoscenza, il sapere come diritto universale.

 

La battaglia delle idee

 

Nel momento in cui, mai così da secoli, le idee dominanti rischiano di essere solo quelle delle classi dominanti, è vitale concentrarsi nella battaglia culturale ed ideale.

L’esperienza stessa dei neo-conservatori Usa dimostra che la destra ha capito meglio di noi cosa intendeva Marx quando diceva “ben scavato vecchia talpa”. Sono state le straordinarie capacità di analisi ed interpretazione della società italiana di Gramsci e di Togliatti a dare ai comunisti gli strumenti nella lotta per l’egemonia e per fondare quel partito nuovo che ha plasmato l’Italia intera. Non possiamo ritrarci dal compito di ricerca, anche teorica. Uno dei segni più forti di degrado, del PCI prima e della sinistra tutta poi, è stata la progressiva sparizione di ogni discussione teorica, di ogni analisi strutturale, di ogni disegno di medio e lungo periodo. La politica schiacciata solo su un terreno tattico rischia di mutarsi in politicismo. Tra deriva politicista ed astratto ideologismo c’è lo spazio in cui ricostruire un partito che tenga insieme, in modo moderno, utopia e prassi.

Lanciamo l’idea di costituire una fondazione di ricerca dove intellettuali e militanti possano insieme dibattere e formarsi. Non un corpo separato ma una struttura direttamente politica che fornisca al partito ed alla sinistra tutta idee, analisi, memoria. Essere un intellettuale collettivo significa alimentare e tenere assieme, anche all’interno dell’organizzazione, spirito critico e disciplina, teoria e prassi.

Il lavoro politico e culturale del partito nella scuola, nelle università, nei centri di ricerca, presso le case editrici, nelle riviste, assume oggi una connotazione essenziale della battaglia dei comunisti, anche e soprattutto in vista dell’auspicata unità delle forze comuniste in Italia.

 

La nostra diversità

 

Così, noi comunisti italiani, intendiamo rilanciare una idea alta della politica.

Per farlo però dobbiamo cambiare noi stessi. Per chi opera nella società non è data l’immunità dalle sue degenerazioni. Il più grande dei pericoli viene dall’omologazione ad un sistema che ha fatto della politica l’arte dell’arrangiarsi, della clientela, del privilegio immotivato ed odioso. Nella separazione che queste pratiche comuni provocano tra il popolo e la politica si inseriscono il qualunquismo, la destra, la reazione. Senza una radicale diversità nelle forme e nei comportamenti i comunisti non potranno mai riconquistare la fiducia profonda di chi vive del proprio duro lavoro. La questione morale, come insegna Berlinguer, non è moralismo ma questione politica. Per dare sostanza alla democrazia questa deve essere sentita dal popolo come lo strumento attraverso cui portare le proprie istanze, i propri interessi, le proprie lotte dentro il quadro istituzionale. Per cambiare in questo campo servono esempi, comportanti conseguenti, modi di essere e di praticare la politica, regole ferree che nessuno possa transigere ed una diversa pratica del ruolo dei comunisti nelle istituzioni.

La politica come militanza ha la sua premessa nella scelta di una appartenenza ad un progetto collettivo di trasformazione che prende la forma del partito. Si può, si deve, è necessario fare politica prima di tutto fuori dalle istituzioni. Nella società vive quel partito a cui deve essere restituita la supremazia sugli eletti, sui propri rappresentanti. Diversità nei comportamenti, verifica negli obiettivi, rotazione degli incarichi sono essenziali per combattere il leaderismo e l’autoconservazione dei gruppi dirigenti.

Una profonda riforma del partito e del suo modo di operare è quindi parte dell’essenza stessa della nostra lotta alla destra ed al suo dominio.

 

Il Partito

 

E’ necessario rilanciare l’idea di partito e quindi lavorare alla riorganizzazione della parte più combattiva dei lavoratori, degli studenti, degli intellettuali per riproporre in maniera organizzata un opzione strategica di trasformazione della società. Bisogna ricostruire radici profonde nella società superando l’oggettiva attuale condizione di partito di opinione e restituendo un ruolo centrale al lavoro di massa.

Occorre rinnovare profondamente il partito, la sua struttura, il suo modo di operare.

Occorre un partito nuovo.

Un partito unito, coeso, coerente ma al tempo stesso aperto ed inclusivo risulta di per sé una questione di battaglia politica. Di fronte ai partiti personali, alla degenerazione leaderistica, al frazionismo, al personalismo, serve la presenza di un partito comunista che nelle sue pratiche, oltre che nelle sue idee, dimostri la propria intrinseca diversità. Per questo motivo ribadiamo la scelta del metodo del centralismo democratico come sfida ad una vera e piena partecipazione, ascolto e rispetto reciproco, ricerca di una sintesi ed anche disciplina e solidarietà reciproca.

L’organizzazione del partito non può che partire dalla presenza diffusa nei territori, nei luoghi di lavoro e di studio. Bisogna insieme rilanciare ed innovare le forme del nostro insediamento e, in primo luogo nelle grandi metropoli, è necessario dare alle strutture territoriali quella capacità di apertura in grado di cogliere e rispondere alle esigenze che emergono nelle grandi periferie urbane e proletarie del Paese.

Un largo decentramento di strumenti e risorse ed un ruolo pieno di direzione e responsabilità politica dei territori, deve combinarsi con organi centrali che siano funzionali a mettere in pratica la natura nazionale ed unitaria della linea politica.

E’ dai territori, dalla pratica politica che in essi si sviluppa, dal radicamento di massa, che si costruiscono il partito ed i suoi gruppi dirigenti.

Bisogna sperimentare nuove ed inedite forme di iniziativa e di lotta che restituiscano al partito la sua funzione di mobilitazione tra le masse. Dobbiamo portare avanti un progetto politico che possa essere interpretato e vissuto come presente ed utile alle battaglie per il cambiamento, la difesa dei diritti, lo stato sociale, il lavoro e la lotta alla precarietà ed a tutte le forme di insicurezza sociale. Il partito deve riuscire a rafforzare gli elementi attraverso cui possa ritrovare un efficace e saldo radicamento tra la gente in carne ed ossa, uscendo dai labirinti tattici e rincontrando più direttamente e concretamente il suo popolo.

E’ necessario rilanciare il ruolo formativo del partito che per questo deve dotarsi di strutture adatte alla crescita ed alla selezione di quadri intermedi e di massa. Altresì risulta fondamentale il lavoro verso le nuove generazioni a partire dal rafforzamento della FGCI. La strutturazione organizzativa dei gruppi dirigenti deve pienamente riflettere gli obiettivi strategici, tattici e programmatici che il partito si dà.

Il rilancio di questa idea di partito deve essere aperta alla riflessione che si darà nel processo di riunificazione e si dovrà misurare dialetticamente nel rapporto con la realtà concreta.

 

Il novecento

 

Vogliamo agire per l’affermazione dei principi universali posti a fondamento del pensiero moderno, di quella grande cultura della ragione che, dall’illuminismo al socialismo, nella peculiarità della storia europea, ha realizzato alcune tra le più alte acquisizioni dell’intera civiltà umana: la tensione costante nella lotta contro lo sfruttamento ed allo sviluppo della democrazia, i principi di libertà e di eguaglianza, il principio di laicità, lo stato di diritto.

Perfino dai momenti più bui del nostro recente passato, nella catastrofe della guerra e dello sterminio generate dal fascismo e dal nazismo, tali acquisizioni, negate e spesso stravolte, sempre sono riemerse per essere riaffermate, contro ogni forma di oscurantismo e contro ogni aberrante pretesa superiorità di razza e di casta.

La novità storica che ha segnato tutta la seconda metà del ‘900 - e che oggi la destra al servizio del neoliberismo vorrebbe cancellare - è che in difesa dei grandi principi di libertà e di uguaglianza, contro la barbarie si levassero, non già vecchie e ristrette avanguardie, o le classi liberali decadute perché responsabili della disfatta democratica dell’Italia e dell’Europa, ma le grandi masse popolari e dei lavoratori, gli spiriti più alti dell’intellettualità - che nella sua maggioranza tacque o si rese connivente - e quanto, sopravvissuto alla morte ed alle persecuzioni, restava dei partiti antifascisti europei: partiti comunisti, partiti socialisti, partiti cattolici democratici.

E’ questa la cifra del ‘900, secolo che noi ci rifiutiamo di assegnare alla sola categoria dei crimini e dei misfatti, perché esso resta il secolo in cui, a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre, irrompe nella storia la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne, e poi la lotta dei popoli contro il dominio coloniale ed, infine, la lotta delle donne per la loro liberazione. Ognuno di questi grandi soggetti, nel corso del ‘900, ha usato, interpretato, arricchito, trasformato quelle parole: libertà e uguaglianza, per inventare la democrazia e per darle sostanza, per liberarsi dall’oppressione patriarcale, per dare strumenti allo stato di diritto, per conquistare garanzie sociali ai più deboli.

Per tutto questo noi rivendichiamo il dovere storico di continuare, nel nuovo secolo, la lotta per l’affermazione dei principi e delle idealità che stanno alla base dell’intera storia delle forze progressiste, democratiche, e del movimento operaio italiano ed europeo.

 

Un appello al paese

 

I comunisti non possono, tuttavia, parlare solo a sé stessi o alla sinistra. In questo momento così drammatico per il paese sarebbe grave ed irresponsabile rinunciare alla vocazione nazionale e di massa della nostra proposta politica. Noi dobbiamo lanciare un appello a tutto il Paese, a tutti i cittadini, all’intera società. La destra non può farlo perché, per sua natura, tende a separare, a rompere i legami sociali, politici e culturali che tengono insieme l’Italia. La destra vive nella contrapposizione tra false ideologie: nazionalismo contro localismo, razzismo contro globalismo, protezionismo contro liberismo. La destra parla di patria e famiglia ma pratica la sudditanza agli Usa e l’individualismo. La destra invoca legalità contro i poveri ma è collusa con la criminalità mafiosa e debole verso i reati finanziari E’ in atto una dinamica disgregatrice che rischia di travolgere persino la formale unità della nazione.

Per reagire, per fare appello con fiducia a tutto il nostro popolo, serve un nuova idea di Italia come paese moderno, laico, positivo. Ciò che vogliamo non è affatto rilanciare la retorica dell’inno o della bandiera a cui si è accodato Veltroni alla ricerca dell’unica simbologia disponibile a buon mercato.

La sinistra ed i comunisti però devono avere una propria autonoma visione del Paese contro l’idea di una Italia come “società liquida”, composta da corporazioni ed egoismi contrapposti, da individui soli e da culture aggressive e per questo deboli. L’Italia non è affatto un paese allo sbando e la sinistra, da Garibaldi alla Resistenza, ha sempre avuto ed ha tutt’ora le carte in regola per parlare al cuore del paese.

Abbiamo una idea dell’unità nazionale non come feticcio ma come strumento per dare al nostro popolo una prospettiva storica. Per questo mettiamo al centro la questione meridionale. Il meridione non è un pezzo sfortunato della nazione ma il paradigma del fallimento di una classe dirigente. Assistenzialismo, clientelismo e mafie strangolano l’Italia intera, controllano territori e città, si affiancano come parassiti allo Stato minando la sua stessa legittimità. La questione meridionale è questione nazionale ed europea. Combattere le mafie, ricostruire un vincolo di solidarietà tra le diverse risorse territoriali, valorizzare le esperienze di emancipazione e di riscatto presenti nel meridione è un compito storico a cui chiamare tutti i democratici. Senza una idea coerente di sviluppo dell’intero paese, senza una chiara collocazione mediterranea della nostra politica e senza una piena affermazione di legalità, l’Italia si sbriciola.

Il nostro è dunque un “patriottismo” antinazionalista che si declina, in modo moderno e nel contesto europeo, in una idea di sovranità senza la quale prevale la subalternità della destra e del PD ai diktat degli Usa. Anche per questo abbiamo sfilato a Vicenza portando assieme la bandiere rosse e quelle italiane. Riconquistare sovranità significa anche riacquisire responsabilità e ruolo nel mondo. Consapevoli che l’Unione Europea è nata dalla centralizzazione del capitale europeo e dall’obiettivo dei poteri forti del vecchio continente di sostituirsi all’imperialismo Usa nel mondo o raggiungere con esso compromessi nella spartizione delle aree d’influenza, dobbiamo oggi rilanciare l’idea di una Europa dei popoli e dei lavoratori.

Per respingere le tentazioni di subalternità agli Usa, tanto care alla destra italiana ed alle forze economiche più reazionarie espressione di settori economici in difficoltà, bisogna riprendere nelle nostre mani la responsabilità del futuro. Vogliamo quella piena indipendenza e sovranità che ci viene negata dall’influenza politica e dalla tutela militare che gli Usa esercitano sui paesi europei. Dobbiamo liberarci delle basi militari Usa e Nato ed impedire progetti guerrafondai come quello dello scudo stellare. Nessun paese però può raggiungere questo obiettivo da solo. Per questo è per noi fondamentale rilanciare l’unità politica, economica e sociale dell’Europa, obiettivo che, da Spinelli in poi, ha sempre caratterizzato i comunisti e la sinistra italiana.

Nel solco dell’idea berlingueriana di governo del mondo, sosteniamo un nuovo equilibrio mondiale basato sul multipolarismo, dove le Nazioni Unite siano strumento di pace e non paravento delle guerre.

Rilanciamo l’idea della piena applicazione della Costituzione, come missione dell’intera nazione. La Costituzione va vissuta come patto civile che unisce la nazione, come strumento politico di affermazione dei diritti universali ed universalmente esigibili, come patto di cittadinanza e di solidarietà esteso a tutti coloro che vivono nel territorio della Repubblica. La Costituzione come strumento a garanzia della natura democratica delle istituzioni, del loro carattere aperto alle istanze popolari, della missione di pace e di progresso che alla Repubblica ed alle sue articolazione è stata affidata dal popolo italiano.

Siamo antifascisti perché l’Italia e risorta nella Resistenza contro quel regime che aveva aperto le porte alla dominazione nazista. Perché l’antifascismo torni ad essere la religione civile di tutti gli italiani dobbiamo farlo vivere in forme nuove. L’antifascismo moderno vive in una memoria nazionale non amputata degli immensi crimini commessi dal nazionalismo e dal razzismo colonialista italiano. L’antifascismo significa non rimuovere la tragica scia di sangue e la strategia della tensione con cui si è contrastato l’ingresso delle sinistra nell’area di governo. L’antifascismo è militanza attiva contro i gruppi neofascisti e xenofobi che, spesso anche con la complicità delle istituzioni, praticano la violenza e l’intimidazione contro tutto ciò che considerano “diverso”. Antifascismo è non piegare la testa di fronte al dilagare delle idee della destra e non rassegnarsi ad una deriva autoritaria delle nostre istituzioni.

Libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia sociale, diritti, differenza di genere, ambiente, pace: i grandi valori per i quali i comunisti si sono sempre battuti in Italia rischiano di essere espunti completamente dal Parlamento nazionale nel corso di questa legislatura. Un più grande e forte partito comunista li potrà far vivere con le lotte nella società, riconquistando, con un rinnovato consenso popolare lo spazio che spetta alla sinistra nelle istituzioni della Repubblica democratica nata dalla Resistenza antifascista.