www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 20-04-09 - n. 270

da La Nuova Alabarda - http://www.nuovaalabarda.org/leggi-articolo-in_memoria_di_giorgio_almirante..php
 
In memoria di Giorgio Almirante
 
L’anno scorso, nel ventesimo anniversario della morte di Giorgio Almirante, la federazione di AN di Milano aveva tappezzato i muri con un manifesto di ricordo: “Un grande italiano. Un esempio da seguire”, e un mese or sono, nel corso dell’ultimo congresso della federazione triestina di AN prima della fusione nel PDL, la consigliera comunale Angela Brandi aveva commemorato Almirante definendolo un “faro luminoso”.
Ma Giorgio Almirante, al quale si vogliono intitolare ulteriori vie e strade oltre a quelle che già portano il suo nome, non è stato solo il segretario dell’MSI che ha portato il partito post-fascista ad essere un partito di massa: e perciò vediamo di tracciarne una breve biografia critica.
Giorgio Almirante fu segretario di redazione della rivista “La difesa della razza” per tutti i cinque anni (dal 1938 al 1943) in cui essa uscì. “La difesa della razza” fu la pubblicazione che “legittimò” il razzismo italiano motivandolo con ragioni pseudoscientifiche e storico-culturali. Nel sito di Wikipedia (che cita brani dal testo di Valentina Pisanty “La difesa della razza”, edito da Bompiani) leggiamo che vi furono tre linee razziste all’interno della rivista: il “nazional-razzismo” di matrice cattolica; il “razzismo esoterico”, che introduceva considerazioni di ordine storico, culturale e spirituale ed infine il gruppo capeggiato da Guido Landra e Giorgio Almirante, che sosteneva il razzismo biologico “della carne e del sangue”, e definiva la razza in termini puramente fisici e fisiologici.
Citiamo ancora: per difendere l’italica stirpe dalle presunte “razze inferiori” e dagli individui “degenerati”, come venivano talora chiamati gli individui affetti da gravi malformazioni o da “malattie sociali” (pazzia, criminalità, prostituzione, vagabondaggio, ecc.), la rivista proponeva rimedi di tipo eugenetico; ma scartate misure drastiche come quella della sterilizzazione, erano state avanzate proposte come la prescrizione della castità all’interno del matrimonio o, meglio ancora, la rinuncia del matrimonio stesso da parte dei portatori delle tare ereditarie.
Dopo l’8 settembre 1943 Almirante aderì alla Repubblica Sociale e si arruolò nella neo costituita Guardia Nazionale Repubblicana con il grado di capomanipolo. Ricoprì anche il ruolo di Capo di Gabinetto del Ministro della Cultura Popolare e firmò il noto manifesto nel quale si ordinava la fucilazione alla schiena degli “sbandati ed appartenenti a bande” cioè dei partigiani e di coloro che non avessero accettato di entrare nelle formazioni collaborazioniste o direttamente naziste.
 
Almirante non fu soltanto un vecchio arnese del fascismo e della RSI: nel dopoguerra, quando era parlamentare della Repubblica italiana alla quale avrebbe dovuto (si suppone l’abbia fatto) giurare fedeltà, fu coinvolto in una vicenda a nostro parere molto più grave dei suoi trascorsi giovanili. Riportiamo quanto segue dal sito di Gennaro Carotenuto, “Giornalismo partecipativo”.
Giorgio Almirante, il grande statista al quale Gianfranco Fini rende omaggio e Gianni Alemanno vuol dedicare una strada romana, per la legge italiana è dunque un terrorista complice dell’assassinio di tre carabinieri. Ecco tutta la storia
Il 31 maggio 1972, in Peteano di Sagrado, in provincia di Gorizia, mentre in televisione trasmettevano Inter-Ajax, morirono dilaniati in un attentato il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Bongiovanni di 33 e 23 anni. Rimasero gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere Giuseppe Zazzaro.
Nonostante i morti fossero tre poveri carabinieri, immediatamente una cortina di depistaggi fu elevata per coprire i responsabili. Come per Piazza Fontana si diede per anni la colpa ai rossi; la strategia della tensione serviva per quello e funzionava così. Tra i principali depistatori vi fu il generale Dino Mingarelli, condanna confermata in Cassazione nel 1992 per falso materiale ed ideologico e per soppressione di prove, e il generale piduista Giovanbattista Palumbo, che all’epoca era comandante della divisione Pastrengo di Milano e che aveva competenza su tutto il Norditalia, che inventò la pista rossa di sana pianta. Per difendere gli assassini di tre carabinieri, due dei maggiori in grado dell’arma delle vittime, per anni ne fecero di tutti i colori, manomettendo e facendo sparire le prove, come si legge nelle sentenze e come racconta benissimo il giudice Felice Casson in un libro intervista che uscirà in futuro.
La strage avvenne a 15 giorni dall’omicidio Calabresi e tre settimane dopo le elezioni politiche del 7 maggio nelle quali l’MSI era cresciuto fino all’8.67%, massimo storico e ad un passo dal PSI. I colpevoli materiali della strage, condannati all’ergastolo con sentenza definitiva, erano gli iscritti all’MSI friulano Carlo Cicuttini e Vincenzo Vinciguerra insieme ad Ivano Boccaccio, ucciso pochi mesi dopo i fatti in uno strano tentativo di dirottamento aereo all’aeroporto di Ronchi dei Legionari. Con Peteano c’entrano tutti, i vertici dei carabinieri, l’MSI (al quale erano iscritti tutti i terroristi) la P2, Gladio, i servizi italiani e la CIA nel pieno della strategia della tensione. Destabilizzare per stabilizzare.
Per trappolare la 500 di Peteano furono usati materiali di Gladio conservati ad Aurisina e tecniche che venivano insegnate alla Folgore a Pisa. Risoltosi il problema di Boccaccio, restavano Cicuttini e Vinciguerra. Abbiamo già detto che la strategia della tensione serviva a destabilizzare per stabilizzare e proprio l’MSI la stava capitalizzando, come il voto del 7 maggio aveva appena dimostrato. E quindi i camerati andavano salvati. E qui interviene il nostro. Dopo la morte di Boccaccio a Ronchi, Vinciguerra e Cicuttini, segretario dell’MSI a San Giovanni a Natisone, in provincia di Udine, che faceva i comizi con Giorgio Almirante, nonostante non fossero ancora stati inquisiti per Peteano (le piste fasulle staranno in piedi per anni), si erano comunque resi latitanti. Latitanza dorata nella Spagna di Francisco Franco, dove il loro punto di riferimento era Stefano delle Chiaie e dove con questo si dedicavano al traffico d’armi. Cicuttini sposò perfino la figlia di un generale. C’era un solo punto debole del piano: la voce di Cicuttini registrata sia nei comizi dell’MSI sia nella telefonata con la quale Cicuttini attirò i carabinieri nella trappola a Peteano.
E fu proprio Giorgio Almirante, il fascista in doppio petto, quello rispettabile, quello con il senso dello Stato, a proteggere l’autore della strage di Peteano fino a mandargli 34.650 dollari statunitensi in Spagna proprio per operarsi alle corde vocali. Ciò è processualmente provato. Almirante consegnò personalmente i soldi all’avvocato goriziano Eno Pascoli che li fece avere a Cicuttini a Madrid, via Svizzera. Almirante e Pascoli, incriminati per favoreggiamento dell’autore della strage di Peteano furono rinviati a giudizio insieme. Ma mentre Pascoli sarà condannato, la condanna di Almirante seguirà un corso diverso. Il capo dell’MSI godeva infatti dell’immunità parlamentare dietro la quale si trincerò perfino per evitare di essere interrogato. La tirò avanti per anni di battaglie nelle quali non fu mai in dubbio la sua colpevolezza, finché non intervenne un’amnistia praticamente ad personam, della quale beneficiava solo in quanto ultrasettantenne. Giorgio Almirante, l’uomo d’ordine, dovette chiedere per sé l’amnistia perché il dibattimento lo avrebbe condannato e ne beneficiò (mentre il suo complice fu condannato) per il reato di favoreggiamento aggravato degli autori (militanti e dirigenti del suo partito) di un attentato terroristico nel quale vennero uccisi tre carabinieri. Non si parla di violenza politica o di strada, di giovani di destra e sinistra che si fronteggiavano e a volte si ammazzavano; stiamo parlando del peggiore stragismo. Dedichiamogli una strada, lo merita: Via Giorgio Almirante, terrorista.
È da tenere da conto anche il fatto che Almirante, negli stessi anni in cui favoreggiò Cicuttini, si esprimeva per la pena di morte da comminare ai “terroristi” (quelli “rossi”, ovviamente) che si fossero macchiati di reati di omicidio.
 
Ma vediamo anche cosa ha dichiarato, in più riprese, l’ex deputato missino Giulio Caradonna, iscritto alla Loggia P2, “classe 1927, volontario a 16 anni nella RSI e più volte deputato del Msi” (Gerardo Picardo su “Libero” dell’11/3/08). Nell’intervista rilasciata a Picardo, Caradonna parla degli scontri di Valle Giulia a Roma del 16/3/68, quando Almirante fu fotografato assieme ad alcuni picchiatori pronti per l’assalto.
Vedete le foto: Almirante, che era in seconda fila, per dimostrare la propria fedeltà a Michelini (l’allora segretario dell’MSI, n.d.r.) - che lo guardava sempre con sospetto nonostante fosse uno dei suoi collaboratori - chiese di essere lui a guidare l’assalto. In genere era contrario agli scontri, era più bravo a fare il martire. Ma quel giorno fu l’esecutore materiale dell’ordine di Michelini.
I primi scontri all’Università di Valle Giulia erano avvenuti il 1° marzo ed avevano visto studenti sia di destra che di sinistra opporsi alle cariche della polizia. Ma questo “accordo interforze” non piacque ai dirigenti dell’MSI, che decisero di interromperlo e si dice fosse stato questo il motivo dell’invio delle squadracce il 16 marzo contro i “rossi” che avevano occupato la facoltà di Giurisprudenza.
 
Torniamo a Caradonna che, avendo fatto parte della P2, può essere considerato una fonte attendibile sulle vicende riguardanti la Loggia di Gelli. Caradonna ha rilasciato un’intervista al “Corriere della Sera”, pubblicata il 18/3/09, asserendo che il “venerabile maestro” della P2 Licio Gelli avrebbe iniziato a finanziare l’MSI proprio su sollecitazione di Almirante. Ecco le dichiarazioni di Caradonna:
Gelli è una bravissima persona. (…) Da lui mi aveva mandato Almirante: "vedi un po’ di parlare con questo signore, perché senza il suo assenso i soldi ai partiti non arrivano". La missione ebbe successo, e Gelli aiutò Almirante. (…) Giorgio mi espresse la sua eterna gratitudine.
(http://www.agenziaradicale.com/index.php?option=com_content&task=view&id=3813&Itemid=72)
 
Concludiamo con una nota ironica. Questa Canzone del Canzoniere delle Lame nacque in seguito ad un episodio del giugno 1971, quando Almirante si fermò per pranzare in un ristorante dell’autostrada fra Firenze e Bologna e il personale spontaneamente si rifiutò di servirlo.
 
Era giugno e faceva un gran caldo
Almirante affamato sbuffava
A Bologna di mangiare sperava
E al suo autista ordinò di frenar
Fermo al Motta di Cantagallo
Per pranzare e per fare benzina
Ma il gran caldo di quella mattina
Per un pezzo dovrà ricordar
 
Con i suo bravi sedette era stanco
Poi si alzò per andare nel bagno
Ma lo vide un barista compagno
E la lotta improvvisa scattò
E la lotta improvvisa scattò.
 
È Almirante si sparge la voce
È arrivato con i suoi camerati
Essi aspettan di essere serviti
Oggi in bianco dovranno restar
Basta un cenno e tutti i compagni
Dal self service ai distributori
Per i fascisti e i fucilatori
Gli gridavan qui posto non c'è
Marzabotto è ancor troppo vicina
Faccia presto ad alzare le suole
Nelle fogne può dir ciò che vuole
Ma a Bologna non deve parlar.
Ma a Bologna non deve parlar.
 
Fu così che schiumante di rabbia
Se ne andò la squadraccia missina
Pancia vuota e senza benzina
Cantagallo dovette lascià
Era giugno e sull'autostrada
Ma che caldo che caldo faceva
Almirante affamato spingeva
Nelle fogne a piedi tornò
Ed adesso come naturale
Il Carlino offeso si lagna
"Poc da fèr mo' què a Bulagna
pr'i fasesta an'gn'è gnanc
un panein."
 
aprile 2009