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Agli albori della III Repubblica
 
Vincenzo De Robertis
 
Bari, aprile 2013
 
La crisi politica, apertasi dopo il risultato elettorale (febbraio 2013), si è manifestata inequivocabilmente nella difficoltà che i vari partiti borghesi hanno incontrato nel formare un nuovo Governo, prima, e nell'eleggere il nuovo Presidente della Repubblica, poi. E' crollato il "castello di bugie" dentro cui era custodita la stabilità di un sistema politico, basato sul bipolarismo, su di un sistema elettorale maggioritario con premio di maggioranza, con uno sbarramento idoneo ad impedire che in Parlamento andassero i "rompiscatole" di turno.
 
La crisi, però, ha riaperto discussioni e messo in atto comportamenti - vedi quelli del Presidente della Repubblica Napolitano - che preannunciano la volontà, già espressa da più parti, di cambiare in peggio l'assetto istituzionale dello Stato.
 
Si parla apertamente di III Repubblica, che avrebbe connotati sicuramente più autoritari e meno democratici della seconda e ancor più della prima, molto probabilmente sarebbe di tipo presidenziale e non più parlamentare, come lo è oggi; forse con una sola Camera legislativa, magari ridotta nel numero dei suoi componenti, eletta attraverso una nuova legge elettorale, più discriminatoria di quella già in uso.
 
Di queste tematiche devono occuparsi i comunisti, per denunciare l'involuzione liberticida ed antidemocratica che sta subendo lo Stato, ancorché borghese, in cui si trovano ad agire politicamente, oppure è secondario e fuorviante fare tutto ciò, perché fondamentale e sufficiente resta la denuncia della natura di classe dello Stato?
 
E dall'analisi di questi processi antidemocratici in atto i comunisti devono trarre motivo per elaborare un programma specifico, che consenta loro di operare per organizzare i lavoratori e sviluppare alleanze, anche con altre forze politiche borghesi, al fine di contrastare questi processi nefasti, oppure tutto ciò li condanna inesorabilmente a "perdere la bussola" ed a trasformarsi in un partito di tipo social-democratico o democratico-borghese ?
 
L'interessante a firma di Sergio Manes, apparso sul n. 449 di Resistenze, opportunamente sferza ed incita i comunisti a prendere iniziative:
"È necessario, allora, articolare una più risoluta e chiara controffensiva - scrive Manes - che, senza infingimenti, denunci con forza la gravità, la natura e la portata del problema; che individui a chiare lettere le responsabilità dirette e indirette; che prenda con decisione e senza mezzi termini le iniziative di lotta necessarie."
 
Su questa scia, gli argomenti esposti di seguito si propongono di essere un ulteriore contributo.
 

 
La concezione marxista dello stato
 
V.I.Lenin in molte opere ha illustrato la concezione marxista dello Stato. In particolare, nella lezione tenuta l'11 luglio 1919 all'Università Sverdlov, pubblicata in seguito come opuscolo, oggi reperibile sul web al seguente indirizzo:
http://www.bibliotecamarxista.org/lenin/volume%2029/SULLO%20STATO.htm - egli ha chiarito come lo stato non sia sempre esistito ma sia un prodotto storico, comparso con la comparsa delle classi sociali:
" La storia dimostra che lo stato, come apposito apparato di costrizione degli uomini, è sorto soltanto, dove e quando è apparsa la divisione della società in classi, vale a dire quando gli uomini vennero divisi in gruppi tali, che gli uni potessero appropriarsi continuamente del lavoro degli altri, che gli uni sfruttassero gli altri."
 
Le varie forme di società basate sullo sfruttamento del lavoro umano, che si sono storicamente succedute dopo la società primitiva, e cioè la società schiavistica, quella feudale della servitù della gleba ed infine quella capitalistica del lavoro salariato, hanno dovuto creare un apparato per garantire con la forza e la costrizione l'esercizio del potere delle classi dominanti e lo sfruttamento del lavoro umano:
 
"Quest'apparato, questo gruppo di uomini che governano gli altri, prende sempre nelle proprie mani un certo apparato di costrizione, di forza fisica, di violenza sugli uomini, esercitata per mezzo del randello primitivo oppure, nell'epoca dello schiavismo, per mezzo di un tipo di arma più perfezionato, oppure per mezzo dell'arma da fuoco apparsa nel medioevo o, infine, dell'arma moderna che nel XX secolo è un miracolo tecnico basato interamente sull'ultima parola della tecnica contemporanea. I metodi di violenza sono cambiati; ma sempre, da quando esiste lo stato, c'è stato in ogni società un gruppo di persone che governavano, che comandavano, che dominavano, e che per mantenere il potere avevano nelle loro mani un apparato di costrizione fisica, un apparato di violenza, con un armamento corrispondente al livello tecnico di ogni epoca. Soltanto osservando questi fenomeni generali, chiedendoci perché non esisteva lo stato quando non vi erano classi, quando non vi erano sfruttatori e sfruttati, e perché esso sorge quando sorsero le classi, troviamo una risposta precisa alla questione concernente la natura dello stato e il suo significato. Lo stato è una macchina per mantenere il dominio di una classe sull'altra. ….
Lo stato è una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'altra, una macchina per tenere sottomesse ad una classe le altre classi soggette."
 
Le forme attraverso cui avviene questa sottomissione sono diverse a seconda che le analizziamo nella società schiavistica, feudale o capitalistica.
 
"In un paese capitalistico, in una repubblica democratica - specie del tipo della Svizzera o dell'America,- nelle più libere repubbliche democratiche, è lo stato l'espressione della volontà del popolo, il risultato di una decisione di tutto il popolo, l'espressione della volontà nazionale, ecc. oppure lo stato è una macchina per far sì che i capitalisti di quel dato paese possano conservare il loro potere sulla classe operaia e sui contadini? Questa è la questione fondamentale attorno alla quale vertono ora le discussioni politiche in tutto il mondo"…..
 
"La repubblica democratica e il suffragio universale in confronto al regime feudale hanno segnato un enorme progresso…. La repubblica borghese, il parlamento, il suffragio universale, tutto ciò, dal punto di vista dello sviluppo mondiale della società, rappresenta un enorme progresso. L'umanità ha marciato verso il capitalismo, e soltanto il capitalismo, grazie alla cultura urbana, ha dato la possibilità alla classe oppressa dei proletari di prendere coscienza di se stessa e di creare quel movimento operaio mondiale, quei milioni di operai che sono organizzati in tutto il mondo in partiti, in quei partiti socialisti i quali dirigono coscientemente la lotta delle masse. Senza il parlamentarismo, senza le elezioni questo sviluppo della classe operaia sarebbe stato impossibile.
 
Tuttavia, per quanto democratico possa essere uno stato borghese, la sua natura di classe non può essere cancellata:
"……ogni stato nel quale esista la proprietà privata sulla terra e sui mezzi di produzione, dove domini il capitale, per democratico che sia, è uno stato capitalistico, è una macchina nelle mani dei capitalisti per tenere in soggezione la classe operaia e i contadini poveri. E il suffragio universale, l'Assemblea costituente, il parlamento, sono soltanto una forma, una specie di cambiale, che non muta affatto le cose nella loro sostanza. Le forme di dominio dello stato possono essere diverse; il capitale manifesta la sua forza in un certo modo là dove esiste una certa forma di dominio e in un altro modo dove ne esiste un'altra; ma in fondo il potere resta nelle mani del capitale, esista il diritto di voto censuario o un altro diritto, esista o no la repubblica democratica; anzi, quanto più la repubblica è democratica, tanto più brutale, più cinico è il domino del capitalismo."
 
Antonio Gramsci, approfondendo il concetto di egemonia nelle sue riflessioni in carcere, contenute nei Quaderni, ha arricchito l'analisi marxista-leninista dello stato, analizzando il ruolo che la cultura e gli intellettuali svolgono nell'esercizio del dominio di classe. Il suo pensiero è di grande attualità se solo si considera lo sviluppo che negli ultimi sessanta anni hanno avuto i mezzi di comunicazione di massa, segnatamente la televisione, ed il ruolo svolto da questi strumenti per la formazione della cd. "opinione pubblica" e del cd. "senso comune". Tanto è grande questa importanza che alla tripartizione classica dei poteri di uno stato (legislativo, esecutivo e giudiziario), tipica del liberalismo, si affianca, già da molto tempo, l'esistenza di un "quarto potere", quello, appunto dei mezzi di comunicazione di massa.
 
Gramsci nei suoi scritti ha chiarito come dominio e direzione, conquista del consenso ed esercizio della forza, democrazia e dittatura sono termini antitetici, che, però, concorrono insieme a sostanziare il concetto di egemonia, con combinazioni diverse fra loro, a seconda che detto concetto debba essere applicato nell'ambito di un blocco sociale alleato o contro gli avversari di questo blocco, prima o dopo la conquista del potere.
 
"[…]Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente»." [1]
 
L'egemonia trova, innanzitutto, il suo fondamento nella sfera dell'economia e della produzione: il carattere progressivo della borghesia e dell'industria capitalistica, ad esempio, si manifesta nel fatto che, man a mano che si afferma il modo di produzione capitalistico, esse fagocitano al proprio interno sfere sempre più ampie di attività economica, trasformando in borghesia strati sempre più ampi della antica società feudale.
 
"[…]Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare realmente l'intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività economico-produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato." [2]
 
Tuttavia, non l'economia, ma la politica è il luogo principe in cui si confrontano le istanze più o meno coscienti di varie classi e strati sociali; nello stato borghese moderno sono stati i partiti il luogo in cui si sono formati e organizzati il consenso e la partecipazione; è lo Stato il luogo in cui si esprime l'egemonia di una classe sulle altre:
 
"[…]L'esercizio «normale» dell'egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell'opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l'impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all'antagonista o agli antagonisti con l'accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste…." [3]
 
In conclusione, se il regime parlamentare rappresenta la forma "classica" di esercizio dell'egemonia della borghesia capitalistica sulle altre classi, osservati dal punto di vista dell'egemonia, la forma statale di ogni nazione moderna ed ogni singolo aspetto di questa forma, appaiono come l'espressione di un punto di equilibrio fra forza e consenso, raggiunto in relazione al livello di scontro fra le classi in conflitto, ed un periodo storico determinato di una nazione non è altro che il processo di combinazione ed alternanza di questi due aspetti:
 
"[…]In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano - sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) -, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall'uno o dall'altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell'interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d'esecuzione che annullano le prime o ne danno un'interpretazione restrittiva; l'impiego più o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile»." [4]
 
La formazione in Italia dello stato borghese moderno[5]
 
In Italia con la spedizione dei Mille si pervenne allo Stato Unitario, che con la "breccia di Porta Pia" inglobò il territorio residuo dello Stato Pontificio, spostando a Roma la capitale (1871).
 
Il modo attraverso cui si giunse al risultato dello Stato unitario italiano e, condizionato dal modo, la prima forma che esso assunse, dipesero, in maniera diretta, dal blocco storico protagonista del processo e dal rapporto di egemonia esercitato all'interno di questo blocco dall'aristocrazia terriera e dalla borghesia imprenditoriale del nord, principalmente piemontese.
 
E' necessario, pertanto, descrivere sommariamente, con riferimento alla classica tripartizione dei poteri di una democrazia parlamentare borghese (poteri legislativo, esecutivo e giudiziario) ed al rapporto fra loro, come si connotò lo Stato piemontese dopo l'approvazione dello Statuto albertino (1848) e come si modificò negli anni successivi, atteso che sotto il profilo formale tutto il processo unitario si ridusse alla conquista di nuovi territori della penisola da parte della monarchia sabauda e, quindi, all'esportazione-imposizione su tutto il territorio nazionale del modello piemontese di stato.
 
Con lo Statuto Carlo Alberto cedette al "popolo" una parte del suo potere, prima assoluto, cioè il potere Legislativo, anche se il potere Legislativo ceduto "valeva al 50 % ", nel senso che il sistema previsto sulla Carta fu bicamerale, con una Camera eletta dal "popolo" ed un Senato di nomina regia.
 
Se per la Camera dei Deputati si poté parlare di una qualche "rappresentanza popolare" (con i necessari chiarimenti, sia per il sostantivo, che per l'aggettivo, derivanti dall'esame del meccanismo elettorale), per il Senato il problema non si pose, perché questa Camera era formata direttamente dal Re, che con nomina vitalizia ne sceglieva i componenti selezionandoli fra ventuno categorie di "ottimati" (art.33 dello Statuto).
 
Il Senato, che con la prima Camera venne a costituire il sistema bicamerale, sul modello inglese. non ebbe mai, però, un vero significato ed alcun peso politico, almeno nel sentire comune; ma nessuno, nemmeno il fascismo, riuscirà nel tempo a sbarazzarsi di questo "cadavere eccellente", tenuto in vita sol perché rappresentava una garanzia del Re (potere Esecutivo) nei confronti del potere Legislativo.
 
Il potere legislativo concesso al 50% non fu, comunque, assoluto ed indipendente dallo stesso re, che si riservava, comunque, la prerogativa di sciogliere le Camere ed indire nuove elezioni (art.9 dello Statuto).
 
Se il potere Legislativo venne ceduto ad un Parlamento parzialmente eletto, con lo Statuto il potere Esecutivo rimase, però, saldamente nelle mani del re e questo fece del Governo un'emanazione esclusivamente regale, senza una vera e propria legittimazione parlamentare.
 
Il Parlamento bicamerale, secondo lo Statuto, aveva la prerogativa esclusiva del potere Legislativo e solo secondariamente una funzione di controllo sull'attività del governo in materie determinate (trattati internazionali, bilancio e imposte); un'attività di controllo sempre osteggiata dalla Corona. In più di un'occasione il Parlamento finì per essere di fatto espropriato anche del potere Legislativo, attraverso l'abuso della legislazione delegata e dei decreti legge, emanati dal Governo, mentre quella funzione secondaria di controllo venne debolmente esercitata con commissioni di inchiesta e di vigilanza sul Governo.
 
Lo Statuto italiano, modellato con un riferimento vago alla monarchia costituzionale inglese, lasciando il potere esecutivo al re, che a sua volta lo delegava a ministri da lui scelti, che davanti a lui giuravano ed a lui rispondevano, fece del re il vero dominus della vita politica, anche perché alla corona restava sempre il diritto di sanzionare le leggi attraverso la loro promulgazione.
 
"…Nomina dei ministri (art.65); "dissoluzione" della Camera [dei Deputati] (art.9); sanzione regia delle leggi (artt.3 e 56) sono i tre atti nei quali, nella forma di governo statutaria, non si esprime nessun principio democratico…
Almeno fino alla quarta legislatura (Governo D'Azeglio) è del tutto fuori luogo parlare per il Regno di Sardegna di governo parlamentare" [6]
 
Cavour fu il primo a svolgere nei fatti un ruolo autonomo, che sottraeva al re il potere di nomina dei ministeri e rivendicava al Primo ministero la piena responsabilità dell'azione politica. Ma egli non tentò mai di formalizzare legislativamente la differenziazione dei ruoli (Governo-Corona), che avrebbe dato una spinta nella direzione di un'istituzione-Governo più condizionata dalla fiducia parlamentare, con una Monarchia solo in funzione di garante del gioco politico e del rapporto fra Esecutivo e Legislativo.
 
Non venne mai meno, da Cavour in poi, la pratica di attribuirsi ad interim importanti ministeri, secondo le esigenze politiche del momento. I più gettonati erano il Ministero dell'interno, per il controllo che esercita sull'ordine pubblico tramite le Prefetture, il Ministero degli Esteri e delle Finanze. Mussolini non a caso raggiunse il record, assommando nelle sue mani sette ministeri.
 
La riforma Zanardelli (1901) rafforzò il potere del Governo, e con Giolitti si ebbe un consolidamento dei principi contenuti nel decreto Zanardelli e della forma di governo parlamentare, che collegialmente dava conto più al Parlamento che al Re del suo operato. Ma anche questo avvenne solo sul piano della pratica politica, perchè le norme contenute nello Statuto, che facevano ancora del Re il dominus del potere esecutivo, non si ebbe mai la forza di abrogarle, imboccando anche formalmente la strada del governo parlamentare.
 
La mancata stabilizzazione del governo parlamentare apparirà ancor più chiaramente sette anni più tardi, dopo la Marcia su Roma (1922), con il conferimento dell'incarico da parte del re a Mussolini, formalmente rappresentante della minoranza parlamentare.
 
"[…] In realtà la formazione di un governo che emanava dal Parlamento, si costituiva in Gabinetto con un proprio Presidente ecc., è pratica che s'inizia fin dai primi tempi dell'era costituzionale, è il modo «autentico» di interpretare lo Statuto. Solo più tardi, per dare una soddisfazione ai democratici, fu data a questa interpretazione una tendenziosità di sinistra (forse le discussioni politiche al tempo del proclama di Moncalieri possono servire per provare la giustezza di questa analisi). …
 
 Si può dire che a mano a mano che illanguidisce la tendenza per domandare una Costituente democratica, una revisione dello Statuto in senso radicale, si rafforza la tendenza «costituentesca» alla rovescia, che dando un'interpretazione restrittiva dello Statuto minaccia un colpo di Stato reazionario." [7]
 
Il rapporto di subordinazione del governo al re, nell'ambito di un'autonomia/ supremazia del potere esecutivo sul legislativo, si manifestava con chiarezza soprattutto nei periodi guerra, quali furono quelli, quasi continuativi, dal 1848 al 1866 e, in maniera saltuaria, dal 1870 al 1915, prima del conflitto mondiale, quando si svolsero le guerre coloniali. Inoltre, nel rapporto Parlamento-Governo(Re) quest'ultimo dichiarava la guerra (art.5 dello Statuto), mentre il primo la deliberava, intendendosi con questo verbo che ne approvava le spese (legge di bilancio).
 
Nella politica estera si verificava lo stesso rapporto di sostanziale subordinazione del Legislativo all'Esecutivo, essendo quest'ultimo in grado di decidere la politica estera in modo autonomo dal primo e potendo il primo non ratificare i trattati internazionali firmati dal secondo solo per quanto riguardava le questioni attinenti il territorio e le finanze.
 
Questo portò, ad esempio, nel 1915 ad una battaglia, rivelatasi poi inutile, quando la maggioranza parlamentare, convinta dell'utilità per lo stato italiano di una posizione neutralista nel conflitto mondiale, venne by-passata dalla decisione, già assunta da Governo & Corona, di sottoscrivere il trattato che impegnava il nostro paese ad entrare nel conflitto a fianco dell'Intesa contro gli Imperi Centrali.
 
"In una forma di governo di tipo parlamentare [borghese], il re non avrebbe dovuto appoggiare nessuna delle possibili opzioni (guerra o neutralità); ma avrebbe dovuto, anzi, garantire il libero affermarsi della volontà della maggioranza parlamentare tenendo un comportamento opposto a quello tenuto da V. Emanuele III durante le "radiose giornate" del maggio 1915" [8]
 
Per fornire un ulteriore elemento di comprensione sulla mancanza di autonomia fra i tre poteri e sulla supremazia del potere Esecutivo sugli altri due, occorre dire che, per quanto riguarda il Potere Giudiziario, i Magistrati requirenti (Procuratori di ogni ordine e grado) erano di nomina regia, mentre la Magistratura giudicante (Giudici di Tribunali e Corti) dipendeva dalle decisioni del Ministero della Giustizia per questioni riguardanti la carriera e la disciplina, non essendo previsto un organo di autocontrollo, come è oggi il Consiglio Superiore della Magistratura.
 
Infine, per completare la descrizione della fisionomia ed avere un quadro meno vago delle "tare originarie" in materia di democrazia e consenso, assunte dal nuovo Stato borghese dopo l'unificazione, occorre dire due parole sul sistema elettorale che portava all'elezione della sola Camera dei Deputati, essendo il senato di nomina regia, e sull'evoluzione legislativa che si realizzò sul tema fino all'avvento del fascismo.
 
Lo Statuto albertino non conteneva al suo interno, come si è detto sopra, una legge elettorale, ma solo il principio elettivo del potere legislativo, come lo contenevano, peraltro, le altre costituzioni promulgate sotto la spinta dei moti del 1848 (Regno di Napoli, Granducato e Stato Pontificio); mentre le repubbliche costituitesi in quello stesso anno (Milano a maggio, Venezia a giugno e Roma a dicembre) già alzavano il vessillo dei sistemi elettorali a suffragio universale.
 
La legge elettorale venne varata poco dopo, il 18 marzo 1848, e prevedeva il diritto di voto per "censo" e titolo di studio: potevano votare, infatti, gli ultra-25enni, forniti di titolo di studio adeguato o che contribuivano al fisco per un importo di £.40 annue. Esclusi gli analfabeti, che nel 1871 erano il 72.96 % della popolazione.
 
"Di conseguenza non più di 530mila cittadini avevano diritto di voto[nel 1871] su una popolazione di 27milioni, e cioè l'1,98 % " [9]
 
Il sistema elettorale dello Stato piemontese venne esteso, con leggere modifiche, alle altre province man a mano che i plebisciti, praticati con il voto a suffragio universale, ratificano le annessioni: esso prevedeva un sistema maggioritario a doppio turno a cui partecipavano i candidati che nel primo avessero ottenuto i maggiori consensi.
 
I collegi elettorali, formati con il criterio elastico di 50mila elettori ciascuno, furono fissati in numero di 443 dopo il 1860.
 
"Nel 1880 gli elettori erano 620mila, cioè il 2,18 % della popolazione. Tutti i braccianti agricoli, quasi tutti i piccoli proprietari, quasi tutti gli artigiani e operai di città, buona parte della stessa piccola borghesia cittadina erano esclusi dal corpo elettorale" [10]
 
Nonostante la caratteristica oligarchica di tutto il sistema, l'astensionismo fu sempre elevato: la percentuale dei votanti dal 1860 alla fine del secolo si mantenne fra il 50 ed il 60 % degli aventi diritto, contribuendo a questo risultato anche l'astensionismo propagandato non solo dalla Chiesa ( dal non expedit = non conviene, al divieto esplicito di partecipare alla vita del nuovo Stato), ma anche, se pure in misura molto meno influente, dai repubblicani e dagli anarchici.
 
In realtà, in Italia l'agone politico non fu caratterizzato da un vero e proprio scontro fra correnti radicalmente contrapposte, anche per effetto del trasformismo, né si avvertì l'esigenza di modificare il sistema elettivo maggioritario in senso proporzionale, per dare maggior rappresentanza ai diversi gruppi politici.
 
Anzi, paradossalmente la proposta di introdurre il sistema proporzionale venne avanzata dai gruppi più conservatori, con la finalità di tutelare le minoranze "più colte e possidenti" del Paese, allorquando, verso la fine del secolo, cominciò a prendere piede l'idea di estendere il diritto di voto in direzione del suffragio universale.
 
Una prima riforma, che allargò la platea elettorale, sostituendo il criterio basato sul censo con quello del livello di istruzione si attuò nel 1882 e fece passare gli elettori da poco più di 600mila ad oltre 2 milioni, non senza preoccupazioni (anche da parte dei promotori della riforma) di incrinare quel meccanismo di rappresentanza, che si basava, tutto sommato, sul ruolo dei notabili, che fino a quel momento aveva retto l'apparato politico più complessivo, costituendo il sistema di consenso attraverso cui il nuovo Stato aveva tenuto legate a sé le masse popolari, specialmente meridionali.
 
"In Italia la riforma elettorale del 1882 estese il diritto di voto ai maschi ultraventenni, che sapessero leggere e scrivere, anche se non pagassero le imposte dirette. Allora, il 62,80 % della popolazione, cioè quasi tutti i contadini e la grande maggioranza degli artigiani e degli operai, erano analfabeti. Solo nelle più progredite città dell'Italia settentrionale gli operai avevano cominciato a mandare i figli a scuola. Ne conseguì che nel 1882 non più che 2 milioni di uomini vennero iscritti nelle liste. Ad ogni modo l'elettorato salì dal 2,18 al 6,97 % della popolazione. Le città avevano più elettori delle campagne, perché coloro che sapevano leggere e scrivere erano concentrati specialmente nelle città. L'influenza politica delle classi industriali, commerciali ed intellettuali soverchiò quella dei proprietari di terra. Nelle città stesse la riforma diede un'influenza prevalente alle classi piccolo borghesi.
 
Dal 1882 al 1894….il corpo elettorale divenne ancor più cittadino e piccolo borghese" [11]
 
La visione della rappresentanza politica, basata sull'idea del mandato ricevuto dagli elettori di una determinata zona, a prescindere da un interesse e da un obbiettivo politico più generale, mise subito in evidenza due rischi: da un lato il localismo, e dall'altro la possibilità di fare in Parlamento "cordata" con personalità capaci, in base al posto occupato nella compagine governativa, di garantire (nel migliore dei casi !) per gli elettori rappresentati quei vantaggi che potessero giustificare e gratificare il voto ricevuto.
 
Ad essa si contrappose una concezione della rappresentanza politica che si basava sul concetto, più astratto ed ideologico ma non per questo più democratico, di "interesse nazionale e/o generale", spesse volte inteso come interesse super partes, altre volte come espressione di una singola classe; concezione che aveva come retroterra e presupposto la fondazione e l'esistenza dei primi partiti "di massa" come il Partito repubblicano in Romagna, il Partito Socialista, costituito agli inizi del Novecento o il successivo Partito Popolare.
 
Questi partiti, che cominciavano a dare rappresentanza politica complessiva e nazionale a classi sociali e settori della società, secondo un modello piramidale, si ponevano anche come raccoglitori del consenso ed organizzatori ed artefici del protagonismo, che strati sempre più ampi di popolazione manifestavano già prima del conflitto mondiale e che, dopo, diventò impetuoso.
 
Però, ancora negli ultimi due decenni dell'800 dominava la visione elitaria che aveva caratterizzato tutto il secolo XIX e che vedeva il partito come un'aggregazione politico-filosofica, dove l'azione di collante veniva svolta dalla singola personalità di spicco e dalla sua influenza personale, esercitata, oltre che con il rapporto personale diretto, anche con i mezzi "moderni" del giornale.
 
Questa visione, più conciliante con il sistema di rappresentanza del notabile, entrò in crisi, non solo per la nascita dei partiti massa, ma anche per la degenerazione del parlamentarismo, sempre più caratterizzato da fenomeni di corruzione sfrenata.
 
La parola "trasformismo" finì per diventare il sinonimo della degenerazione del sistema politico della rappresentanza e per fornire argomenti preziosi a quei reazionari che, in nome dell'antiparlamentarismo, sostituiranno più tardi la pallida immagine di una democrazia parlamentare asfittica con la cupa realtà del fascismo.
 
Gramsci, invece, dette alla parola "trasformismo" un significato più profondo e più ampio, perché la ricollegò alla debolezza ideologica e politica dei partiti protagonisti del processo unitario, segnatamente dei democratici-repubblicani di Mazzini e Garibaldi, e dei primi anni di vita dello stato che dal quel processo scaturisce.
 
"[…] La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal risorgimento in poi (eccettuato in parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l'agitazione e la propaganda, e che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia ecc.
 
La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa «omissione» è appunto questa agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire.
 
Lo Stato-Governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato-governo non era un fattore nazionale): il governo ha infatti operato come un «partito», si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l'attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere «una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico-cesareo»: così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo.
 
Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l'attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell'alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale. La burocrazia così si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale-bonapartistico." [12]
 
"[…]Il trasformismo come una delle forme storiche di ciò che è stato già notato sulla «rivoluzione-restaurazione» o «rivoluzione passiva» a proposito del processo di formazione dello Stato moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico reale» della reale natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell'azione militante (Partito d'Azione). Due periodi di trasformismo: 1) dal 60 al 900 trasformismo «molecolare», cioè le singole personalità politiche elaborate dai partiti democratici d'opposizione si incorporano singolarmente nella «classe politica» conservatrice-moderata (caratterizzata dall'avversione a ogni intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che sostituisse un'«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale); 2) dal 900 in poi trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il primo avvenimento è la formazione del Partito nazionalista coi gruppi ex-sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica in un primo tempo e nell'interventismo in un secondo tempo). Tra i due periodi è da porre il periodo intermedio - ‘90/900 - in cui una massa di intellettuali passa nei partiti di sinistra, così detti socialistici, ma in realtà puramente democratici.
 
Lo Stato italiano dal fascismo alla Resistenza
 
L'avvento del fascismo trovò terreno fertile nel carattere oligarchico ed autoritario che lo Stato italiano aveva assunto sin dalla sua formazione; carattere determinato in tal senso dalla totale assenza dal processo rivoluzionario risorgimentale di un ruolo attivo delle masse popolari, segnatamente contadine.
 
Ad un'analisi ed un confronto sommari delle due forme statuali succedutesi, quella post-unitaria e quella fascista, prevalgono gli elementi di continuità fra le due, più che gli elementi di differenziazione.
 
Intanto occorre evidenziare che Mussolini, come si è detto sopra, ricevette l'incarico di formare il nuovo Governo direttamente dal re Vittorio Emanuele III dopo la "marcia su Roma". Il primo governo Mussolini, al quale parteciparono anche ministri liberali, ottenne il voto di fiducia da un ampio fronte parlamentare che andava dalla maggioranza dei liberali al partito popolare (306 voti favorevoli e 116 contrari).
 
Non che qui si voglia sostenere che un diverso assetto istituzionale avrebbe impedito l'avvento del fascismo, ma si vuole ribadire, innanzi tutto, che il fascismo non rappresentò quella "cesura" con lo stato unitario, uscito dal Risorgimento, come la pubblicistica liberale ha sostenuto e che il suo avvento al potere fu certamente favorito dall'assetto statuale esistente, che il fascismo con violenza modificò nella direzione di un'aperta dittatura di classe, nonostante la sua caratteristica già autoritaria e verticistica.
 
A ben vedere l'avvento del fascismo fu essenzialmente determinato dall'incapacità di dare uno sbocco rivoluzionario, oppure solo democratico-progressista, alle agitazioni popolari del cd "biennio rosso" (1920-1921) da parte dei partiti che in quel momento rappresentavano il proletariato e le masse contadine.
 
La I Guerra Mondiale aveva immesso nel tritacarne del conflitto milioni di operai e contadini in tutta Europa, costringendoli ad accettare una disciplina di morte in nome di interessi estranei ai loro reali bisogni, ma rispondenti a quelli di una nascente borghesia imperialista. Nella Russia zarista tutto ciò aveva determinato la caduta del regime dei Romanov e la nascita dello Stato dei Soviet operai e contadini con la prima rivoluzione, borghese, del febbraio 1917 e, poco dopo, l'affermazione della dittatura del proletariato, con la seconda rivoluzione, proletaria, diretta dai bolscevichi, dell'ottobre(novembre) 1917.
 
In Italia, dove i Governi avevano ugualmente mandato al macello la gente, promettendo la terra ai contadini ed il suffragio universale, la fine della guerra mise in movimento milioni di operai e contadini, che occuparono fabbriche e campagne, arrivando spontaneamente a rivendicare, anche per l'Italia, uno stato simile a quello dei Soviet russi.
 
Il Partito Socialista Italiano, diretto allora dai riformisti di Turati, pur non avendo appoggiato apertamente la guerra imperialista, come invece avevano fatto gli altri partiti socialdemocratici europei, che nei Parlamenti avevano votato a favore dei crediti di guerra, si era limitato sin dall'inizio a mantenere un atteggiamento neutrale sul conflitto (non sostenere, né sabotare). Finita la guerra, il PSI si mostrò del tutto impreparato a mettersi alla testa del movimento rivoluzionario, che si sviluppò spontaneamente negli anni successivi, finendo per favorire indirettamente, con la propria incapacità, l'avvento del fascismo.
 
Il Partito Comunista, costituitosi a gennaio del 1921, non ebbe il tempo di intervenire e porsi alla testa del movimento del biennio rosso. E così, l'esito di "una rivoluzione proletaria mancata" fu l'avvento della reazione fascista, la quale andò al potere "con la legalità" di un incarico che Mussolini ricevette direttamente dal re.
 
Tra il 1922 e il 1925, Mussolini svolse un sistematico ed accellerato processo di fascistizzazione dello Stato, delle sue strutture e del suo ordinamento, gettando le basi della dittatura attraverso il rafforzamento del potere esecutivo, l'ulteriore indebolimento delle prerogative del Parlamento, l'eliminazione di libertà fondamentali come quelle di stampa, di associazione e di sciopero e l'integrazione delle strutture militari e politiche fasciste nell'apparato statale.
 
Il 16 novembre 1922, dopo aver ricevuto l'incarico, Mussolini nel suo discorso alla Camera avanzò la richiesta dei pieni poteri, giustificando la richiesta con lo scopo di dover riordinare il sistema tributario per semplificarlo, di adeguarlo alle necessità del bilancio e di meglio distribuire il carico delle imposte, di dover ridurre le funzioni dello Stato, di dover riorganizzare i pubblici uffici e istituti, renderne più agili le funzioni e diminuire le spese. Per attuare i "pieni poteri" il Governo Mussolini ebbe la facoltà, fino al 31 dicembre 1923, di emanare disposizioni aventi vigore di legge, senza l'approvazione del Parlamento.
 
Nel 1923 venne approvata una nuova legge elettorale, la legge Acerbo, che eliminò, di fatto, il sistema proporzionale a suffragio universale maschile, che una legge approvata nel 1919 aveva istituito, e fissò un premio di maggioranza pari ai 2/3 dei seggi per la lista che otteneva più del 25 % .
 
Dopo la crisi politica seguita all'assassinio del deputato Giacomo Matteotti, una nuova sterzata in direzione della aperta dittatura si ebbe con le leggi del 1925-'26, dette "fascistissime", ispirate dal giurista Alfredo Rocco. Il Parlamento veniva definitivamente privato della facoltà di discutere alcuna legge, senza il preventivo consenso del Governo. La progressiva fascistizzazione dello Stato ebbe termine nel 1939, quando la Camera dei Deputati venne sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
 
Le "leggi fascistissime" furono:
 
- legge 26 novembre 1925 n. 2029: che predispose una mappatura dell'associazionismo politico e sindacale operante nel regno. Tutti i corpi collettivi operanti in Italia (associazioni, istituti, enti) su richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza avevano l'obbligo di consegnare statuti, atti costitutivi, regolamenti interni, elenchi di soci e di dirigenti. In caso di infedele (o omessa) dichiarazione, il prefetto procedeva allo scioglimento, con sanzioni detentive indeterminate e sanzioni pecuniarie pesantissime, da un minimo di 2.000 ad un massimo di 30.000 lire;
 
- legge 24 dicembre 1925 n. 2300: che impose l'allontanamento dal servizio di tutti i funzionari pubblici che rifiutavano di prestare giuramento di fedeltà al regime;
 
- legge 24 dicembre 1925 n. 2263 (primo intervento strutturale in materia costituzionale): il Presidente terminava di essere individuato come Presidente del Consiglio per diventare Primo Ministro-Segretario di Stato, ottenendo la supremazia sugli altri Ministri, i quali cessavano di essere suoi colleghi e diventavano suoi subordinati gerarchici. I singoli Ministri potevano essere sfiduciati sia dal Re che dal Primo Ministro; il capo del Governo veniva nominato e revocato dal Re ed era responsabile dell'indirizzo generale politico del Governo solo verso il Re e non, anche, verso il Parlamento. Si ritornava, così, indietro a quanto era avvenuto nei primi decenni di vita dello Stato post-unitario, sulla base dello Statuto Albertino;
 
- legge 31 gennaio 1926 n. 100: che attribuì la facoltà al Governo di emanare norme giuridiche;
 
- legge 4 febbraio 1926 n. 237: che modificò l'ordinamento municipale, eliminando il consiglio comunale, (elettivo dal 1848), e il sindaco (elettivo dal 1890). Al sindaco subentrò il podestà, che veniva nominato con decreto regio e restava in carica 5 anni. Il podestà esercitava le funzioni del sindaco, della giunta e del consiglio comunale.
 
- Regio decreto 6 novembre 1926 n. 1848: testo unico delle leggi di pubblica sicurezza con il quale vennero ampliati i poteri dei prefetti che ebbero facoltà di sciogliere associazioni, enti, istituti, partiti, gruppi e organizzazioni politiche e venne istituito il confino come sanzione principale nei confronti dei soggetti che erano contro il regime;
 
- legge 25 novembre 1926 n. 2008 : che istituiva la pena di morte (art. 1) per qualunque attentato diretto contro le persone del Re, della Regina, del Reggente, del Principe ereditario e del Primo Ministro; mentre diventavano reati specifici l'istigazione all'attentato, a mezzo stampa, punito con la reclusione da 15 a 30 anni (art. 3);  la diffusione all'estero di "voci o notizie false, esagerate o tendenziose sulle condizioni interne dello Stato" tali da nuocere al prestigio statale o agli interessi nazionali, che veniva punita con la reclusione da 5 a 15 anni, accompagnata dall'interdizione permanente dei pubblici uffici, dalla perdita immediata della cittadinanza italiana e dalla confisca dei beni (art. 5); infine, per applicare dette misure difesa dello Stato veniva istituito il Tribunale speciale (art. 7), le cui sentenze furono immediatamente esecutive e inappellabili.
 
A partire dal 1928 ulteriori elementi di fascistizzazione furono:
 
- l'istituzionalizzazione del Gran Consiglio del Fascismo che diventò organo costituzionale con la legge 9 dicembre 1928 n. 2693 (in precedenza era organo di partito) ;
 
- la riforma della rappresentanza politica attuata con il disegno di legge che Mussolini presentò alla Camera il 14 marzo 1928, per cui il numero complessivo dei deputati venne ridotto a 400, da eleggere in un unico collegio nazionale, mentre la presentazione delle candidature diventò competenza esclusiva di due gruppi: la confederazione nazionale del sindacato fascista e le associazioni culturali di importanza nazionale abilitate da un regio decreto;
 
- soppressione della Camera dei deputati e istituzionalizzazione della Camera dei Fasci e delle corporazioni (7 ottobre 1938).
 
La dittatura fascista diventò in un tempo breve lo strumento, con cui la borghesia monopolistica italiana, finanziaria ed industriale, esercitò per un ventennio il suo ruolo egemonico, sia sulle classi alleate, che su quelle a lei ostili, ponendo in essere la negazione dei diritti più elementari con la violenza delle squadracce, prima, e direttamente con la violenza "legale" dello Stato, poi.
 
Tutto ciò fu realizzato facendo anche un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa (radio, giornali, cinema), con cui il regime fascista cercò di mantenere intorno a sé un qualche consenso.
 
Il fascismo, peraltro, come particolare sistema di potere della borghesia, non fu fenomeno solo italiano, ma ben presto si estese in Europa. Vale la pena a riguardo riportare il giudizio dato sul fascismo nel 1928, un anno prima che scoppiasse la "Grande Crisi" e qualche anno prima che Hitler prendesse il potere in Germania, dall'Internazionale Comunista al suo VI Congresso:
 
"Accanto alla socialdemocrazia, con l'aiuto della quale la borghesia opprime gli operai e addormenta la loro vigilanza di classe, si presenta il fascismo.
 
L'epoca dell'imperialismo, l'acutizzazione della lotta di classe e l'accrescimento, particolarmente dopo la guerra imperialista mondiale, degli elementi di guerra civile, hanno portato alla bancarotta del parlamentarismo. Di qui «nuovi» metodi e forme. di governo (ad esempio, sistema dei gabinetti ristretti, costituzione di gruppi oligarchici che operano tra le quinte, decadenza e falsificazione della funzione della «rappresentanza popolare», restrizione e soppressione delle «libertà democratiche», ecc.). Questo processo dell'offensiva della reazione borghese imperialista assume, in condizioni storiche particolari, la forma di fascismo.
 
Tali condizioni sono: l'instabilità dei rapporti capitalistici, l'esistenza di considerevoli elementi sociali spostati, l'impoverimento di larghi strati di piccola borghesia urbana e di intellettuali, il malcontento della piccola borghesia rurale e, infine, la permanente minaccia di offensive di massa del proletariato. Allo scopo di garantire una maggiore stabilità, consistenza e durata del proprio potere, la borghesia di più in più è costretta a passare dal sistema parlamentare al metodo fascista, il quale è indipendente dai rapporti e dalle combinazioni tra partiti. Questo metodo è un metodo di dittatura immediata, il quale si maschera con l'ideologia della « nazione superiore a tutto» e della rappresentanza delle « professioni» (che non è niente altro, di fatto, che un diverso aggruppamento delle classi dominanti), è un metodo di utilizzazione del malcontento di masse piccolo-borghesi, intellettuali, ecc., mediante una particolare demagogia sociale (antisemitismo, attacchi parziali contro il capitale usurario, sdegno delle «chiacchiere» parlamentari), un metodo per formare una vasta gerarchia retribuita di centurie fasciste, un apparato di partito e di funzionari. Il fascismo si sforza pure di penetrare nell'ambiente operaio, e recluta gli strati di operai più arretrati, utilizzando il malcontento di essi per la passività socialdemocratica, ecc.
 
Scopo principale del fascismo è la dispersione dell'avanguardia operaia rivoluzionaria, degli strati comunisti del proletariato e dei loro quadri. L'unione di una demagogia sociale, della corruzione e dell'attivo terrore bianco ad una estrema aggressività imperialistica nel campo della politica estera è il lineamento caratteristico del fascismo. Dopo avere impiegato, nei momenti particolarmente critici per la borghesia, una fraseologia anticapitalistica, giunto a consolidarsi al potere dello Stato, il fascismo si svela sempre più come dittatura terroristica del grande capitale, abbandonando per via la mascheratura anticapitalistica.
 
A seconda dei mutamenti della situazione politica, la borghesia si serve dei metodi del fascismo e dei metodi della coalizione con la socialdemocrazia, e la socialdemocrazia stessa, nei momenti critici per il capitalismo, non di rado assume le funzioni del fascismo. Nel corso del suo sviluppo essa manifesta delle tendenze fasciste, il che non le impedisce, cambiando la situazione politica, di fronteggiare contro il governo borghese come partito di opposizione. Il metodo fascista e il metodo della coalizione con la socialdemocrazia, non essendo metodi propri del .«capitalismo normale», sono indizi della crisi generale del capitalismo e vengono impiegati dalla borghesia per ritardare il corso progressivo della rivoluzione." [13]
 
Lo scoppio della II Guerra mondiale e la successiva carneficina di milioni di italiani, mandati a morire in Africa, nei Balcani ed in Russia per gli interessi dell'imperialismo italiano, segnò la crisi definitiva del fascismo e la sua perdita di egemonia sulle masse. Si determinò prima la crisi dello stato fascista, che culminò con l'arresto di Mussolini nel luglio del 1943, poi la trasformazione dello stato fascista in stato fantoccio che si reggeva fondamentalmente sulla violenza delle truppe naziste di occupazione e poi la sua definitiva sconfitta ed il suo crollo nel 1945.
 
La Resistenza, avviatasi dopo l'armistizio dell'8 settembre del 1943, non fu solo il movimento armato che in alleanza con le truppe anglo-americane seppe sconfiggere militarmente i nazifascisti, ma fu fondamentalmente un movimento politico, a cui parteciparono diverse correnti, successivamente trasformatesi in partiti, ma di cui i comunisti furono innegabilmente la parte preponderante ed egemone, che si pose come obbiettivo prioritario, ricostruire uno nuovo stato, una volta che fosse stato definitivamente abbattuto il fascismo.
 
Abbattere il fascismo e cacciare i tedeschi fu l'unica discriminante dal 1943 al 1945, per cui la forma istituzionale del nuovo Stato - repubblica o monarchia - ed il suo contenuto sociale, socialismo o capitalismo, furono giustamente rinviati all'esito della guerra, per creare, in tal modo, un fronte antifascista il più ampio possibile, comprensivo anche dei monarchici e delle gerarchie militari, che dopo l'8 settembre del '43 si erano trovati in rotta di collisione con i nazifascisti, fino a quella data, invece, sostenuti.
 
Il nuovo Stato borghese. La Repubblica e la Costituzione. [14]
 
Un anno dopo la conclusione della II Guerra mondiale, il 2 giugno 1946, si svolgeva il Referendum per decidere la forma istituzionale del nuovo Stato, uscito dalla Resistenza. Vinse la Repubblica con circa 12 milioni di voti, contro i circa 10 milioni di voti presi dalla monarchia, a dimostrazione che il re, in ragione dell'appoggio garantito a Mussolini sin dagli albori del regime e mantenuto durante tutto il ventennio, fino all'entrata in guerra a fianco dei nazisti di Hitler, si era giocato il consenso presso la maggioranza del popolo italiano, mentre lo aveva, purtroppo, mantenuto in una consistente minoranza, presente in prevalenza nel Meridione.
 
Contestualmente si tennero le elezioni per l'Assemblea Costituente, primo Parlamento eletto dopo il ventennio fascista, nel cui seno furono scelti i 75 componenti della Commissione incaricata di redigere il testo della nuova Carta Costituzionale, che fu definitivamente approvata il 22 dicembre del 1947.
 
L'assetto istituzionale che emerge dalla II parte della Costituzione (artt.55-138), dove viene dettagliatamente descritto il nuovo Ordinamento della Repubblica, si differenzia in maniera radicale, non solo, ovviamente, dal fascismo, ma, soprattutto, dalla struttura e le caratteristiche dello Stato liberale post-unitario. Esso esprime chiaramente i rapporti di forza fra le classi all'esito della Guerra di Liberazione. Infatti, viene assicurata l'autonomia dei tre poteri, secondo la tripartizione classica del liberalismo, e si pone al proprio centro il potere Legislativo, espresso da un Parlamento composto da due assemblee, il Senato e la Camera dei deputati, in posizione egemone rispetto al potere Esecutivo, rappresentato fondamentalmente dal Governo.
 
Questa supremazia si evince soprattutto dal fatto che le due Camere accordano o revocano la loro fiducia al Governo (art.94) sulla base di una mozione, mentre il Parlamento, in seduta congiunta, elegge il Capo dello Stato (art.83).
 
"Nella Seconda Parte della costituzione, tale strategia istituzionale coerente con la strategia sociale inscritta nella Prima Parte è plasticamente segnata dalla precedenza che, per quanto concerne l'organizzazione centrale dello stato, al parlamento è stata attribuita rispetto sia al Presidente della repubblica sia al governo, nonché alla magistratura" [15]
 
Questa impostazione ha qualificato la Repubblica italiana, uscita dalla Resistenza, come Repubblica parlamentare, proprio per il ruolo centrale svolto dal Parlamento.
 
Mentre il Presidente della Repubblica, che fra le funzioni che la Costituzione gli attribuisce (art.87), annovera anche la direzione del Consiglio Supremo della Difesa e la Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, è il soggetto istituzionale che designa il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su sua proposta, gli stessi ministri (art.92). Egli, però, svolge prevalentemente una funzione di garante dell'unità nazionale e di "notaio" delle decisioni maturate negli accordi fra i partiti, senza alcuna interferenza diretta nel rapporto Parlamento-Governo.
 
"Per conseguenza di tale innovazione, il carattere "fiduciario" del rapporto tra governo e camere poteva manifestarsi liberamente, senza essere turbato da inserimenti autoritari e abnormi del capo dello stato, così come l'eventuale "scioglimento" delle camere e l'indizione di elezioni anticipate diventavano legittimi solo previo accertamento delle reali condizioni dei rapporti politico-parlamentari a seguito di consultazioni d'obbligo da parte del capo dello stato con i Presidenti delle due camere." [16]
 
L'autonomia della Magistratura, che è espressione del potere giudiziario che controlla l'applicazione della legge, dal Governo, che è espressione di quello esecutivo che quella legge applica, si concretizza essenzialmente nell'esistenza del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno dei Magistrati, dagli stessi eletto nei due terzi dei suoi componenti, a cui si affiancano per un terzo i cd. "membri laici", cioè nominati dal Parlamento (art.104).
 
Il CSM premia e penalizza i singoli Magistrati, deliberando l'attribuzione di incarichi direttivi o irrogando sanzioni a seguito di procedimenti disciplinari (art.105), mentre questa attività viene del tutto sottratta al Ministero della Giustizia, espressione del Governo, che ha solo il compito di promuovere l'azione disciplinare (art.107).
 
Il Pubblico Ministero, che ha l'obbligo di svolgere l'azione penale (art.112), è Magistrato togato e non semplice funzionario amministrativo; egli svolge la sua attività in piena autonomia, equiparato agli altri suoi colleghi che svolgono la funzione giudicante, senza dover sottostare ad alcun controllo o direttiva da parte del Ministro della Giustizia.
 
Per quanto riguarda il meccanismo elettorale, con il quale vengono eletti i parlamentari, la Costituzione non contiene al suo interno norme specifiche che possano disciplinare l'elezione dei due organi del Parlamento, che non siano quelle norme generali che richiamano il suffragio universale, che disciplinano l'elettorato attivo e passivo e quelle che fissano il numero dei Deputati e Senatori in ragione proporzionale al numero degli elettori (artt.56-58).
 
La legge elettorale proporzionale fu introdotta con il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 10 marzo 1946, dopo essere stata approvata dalla Consulta Nazionale il 23 febbraio 1946 con 178 sì e 84 no.
 
Concepita per gestire le elezioni dell'Assemblea Costituente previste per il successivo 2 giugno, fu poi recepita come normativa elettorale per la Camera dei deputati con la legge n. 6 del 20 gennaio 1948. Per quanto riguarda il Senato della Repubblica, i suoi criteri di elezione vennero stabiliti con la legge n. 29 del 6 febbraio 1948 la quale, rispetto a quella per la Camera, conteneva alcuni piccoli correttivi in senso maggioritario, pur mantenendosi anch'essa in un quadro larghissimamente proporzionale. Anche tale legge ebbe il suo definitivo perfezionamento in un Testo Unico del 1957.
 
La legge elettorale, con la quale furono eletti i componenti dell'Assemblea Costituente e, successivamente, il primo Parlamento, è stata basata sul suffragio realmente universale, che per la prima volta, dalla costituzione della Stato Unitario, coinvolgeva nel voto anche le donne e si articolava su di un meccanismo rigorosamente proporzionale - uno dei più puri al mondo - che, coerentemente con tutto l'impianto costituzionale basato sul pluralismo politico-culturale che aveva già caratterizzato la Resistenza, ha garantito per tanti decenni rappresentanza politica a tutte le forze, anche quelle più piccole.
 
Anzi, la possibilità della più ampia e varia rappresentanza politica, garantita da quel iniziale meccanismo elettorale proporzionale, che oggi rimpiangiamo, nei primi anni di vita della Repubblica ebbe, a mio avviso, anche un risvolto negativo: essa servì paradossalmente ad assecondare i disegni più reazionari di forze politiche, come la Democrazia Cristiana, che, conscia della forza espressa dai partiti del Fronte Popolare (PCI-PSI), approfittò e/o favorì scissioni a sinistra - vedi l'uscita di Saragat dal PSIUP - per portare a compimento l'operazione di estromettere i comunisti dal Governo.
 
La rappresentanza popolare negli organi del potere legislativo, Camera dei Deputati e Senato, garantita in maniera ampia ed articolata dalla legge elettorale, aveva, poi, un supporto essenziale nell'esistenza e nell'azione dei nuovi partiti politici, formatisi dopo la Liberazione, realtà del tutto diversa da quella dei partiti, pure di massa, che parteciparono alla lotta politica nel primo dopoguerra.
 
P.C.I. e P.S.I. soprattutto, ma anche la D.C., erano partiti in cui confluivano e venivano organizzate, non più elite, ma parti consistenti del popolo italiano, il cui attivismo ed entusiasmo scaturivano da eventi come la fine della guerra, la caduta del fascismo e la vittoria militare sulle truppe nazi-fasciste ed erano alimentati dalla speranza concreta di un cambiamento sostanziale della società, che lo stesso meccanismo elettorale sembrava finalmente assicurare.
 
In verità, la Costituzione, che, non lo si può dimenticare, disciplina e regola nel suo complesso la vita di una società e di uno stato borghesi, dove domina la proprietà privata dei mezzi di produzione, restava e resta un "pezzo di carta", scritto, però, nella parte in cui descrive l'assetto istituzionale, in un modo che non trova ancora oggi eguali in altre Costituzioni di paesi capitalistici europei, perché i rapporti di forza fra le classi sociali in quel determinato momento, sia in Italia che nel mondo, costringevano la borghesia italiana ad accettare norme che in altri contesti non avrebbe mai digerito e che negli anni successivi, ed ancor di più oggi, tentò e tenta di modificare.
 
La convinzione, invece, che la costituzione repubblicana potesse rappresentare il viatico di un percorso parlamentare, che attraverso le "riforme di struttura", da attuarsi per via parlamentare, avrebbe condotto il proletariato e le masse lavoratrici italiane al socialismo, sebbene giustificata dal contenuto notevolmente innovativo e democratico, è stata, tuttavia, la più dannosa illusione, a mio avviso, coltivata nel e dal Partito Comunista Italiano e da Togliatti, in particolare.
 
Un'illusione, nata in un contesto politico nazionale ed internazionale, che rendeva forse poco praticabile la possibilità di un'insurrezione armata immediatamente dopo la conclusione della lotta di Liberazione; un'illusione coltivata in un clima culturale di "rinascita ed unità nazionale", al di sopra ed a prescindere dalle classi sociali e dai due blocchi internazionali contrapposti; un'illusione accompagnata da errori grossolani, come quelli di non spingere l'acceleratore, quando i comunisti erano al Governo, nella direzione di una distruzione radicale dell'apparato statale borghese, compromesso con il fascismo, mentre, invece, si concedeva l'amnistia per i crimini commessi dai fascisti, provvedimento di cui proprio Togliatti, nella sua qualità di Ministro pro-tempore della Giustizia, fu l'artefice.
 
Un'illusione denunciata come tale, sia nella I Conferenza del Cominform nel 1947, dove Longo e Reale, in rappresentanza del PCI, dovettero giustificarsi e difendersi dalle critiche mosse alla politica togliattiana da Zdanov, in rappresentanza del PCUS, e dai rappresentati degli altri Partiti Comunisti europei [17], sia negli anni '62-63 dal Partito Comunista Cinese e dal Partito del Lavoro d'Albania nella lotta di principio avviata dopo il XX Congresso del PCUS dai marxisti-leninisti contro i revisionisti moderni. [18]
 
Il passaggio dalla I alla II Repubblica.
 
La Costituzione repubblicana, il cui testo, come si è detto, esprime un rapporto di forza fra le classi sociali allora favorevole al proletariato ed alle masse lavoratrici italiane, fin dai primi anni dopo la sua approvazione fu oggetto di un'ostilità manifestatasi, o nella non attuazione di parti importanti del suo contenuto - come quella relativa al decentramento ed alla creazione delle Regioni, che trovò, invece, attuazione solo nel corso degli anni '70 -, o nell'attacco aperto ad altre sue parti.
 
Questo fu il caso della legge che è passata alla storia con il nome di "legge truffa", perchè modificava in senso maggioritario il sistema elettorale, che non era espressamente codificato nel testo costituzionale, ma, come si è detto, era contenuto in una legge ordinaria.
 
Promulgata il 31 marzo 1953 con il n. 148 di raccolta, la legge, composta da un singolo articolo, introdusse un premio di maggioranza consistente nell'assegnazione del 65% dei seggi della Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti validi. Si creava in tal modo la possibilità di procedere ad una modifica del testo della Costituzione, avendo garantiti i due terzi dei parlamentari.
 
Il passaggio parlamentare della legge vide un lungo dibattito alla Camera, ma una lettura fulminea al Senato, per cui i rispettivi presidenti in sequenza si dimisero quando capirono che la maggioranza aveva intenzione di forzare la mano per ottenere la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale in tempo per svolgere le elezioni in primavera con la nuova legge. Il nuovo Presidente del Senato, Meuccio Ruini, approfittò della sospensione domenicale dei lavori per la domenica delle Palme del 1953 per riaprire la seduta e votare l'articolo unico della legge: ne scaturì un tumulto d'aula. Il gruppo del PCI contestò la regolarità della seduta, preannunciando che non avrebbe mai votato a favore del processo verbale di quella seduta: non ve ne fu bisogno, perché il giorno dopo il Capo dello Stato firmò il decreto di scioglimento delle Camere ed il Senato si riconvocò solo dopo le elezioni, nella nuova legislatura. In ogni caso, quel processo verbale non fu mai approvato.
 
Nella successiva tornata elettorale le forze di governo non riuscirono a conseguire il quorum previsto. Fu così che il premio fu abolito senza aver mai trovato applicazione.
 
 "Non potendo cioè ricorrere in quella fase dei rapporti di forza tra i partiti ad una formale revisione del nuovo modello costituzionale di forma di governo con la procedura che in base all'art. 138 richiedeva l'accordo con i socialcomunisti — ciò che di lì a poco, come accennato, avverrà viceversa in Francia con il passaggio alla V repubblica "semipresidenziale" — De Gasperi tallonato oltre che dalla destra clericale di Gedda anche dalla risorgente "sinistra" interna (di un Gronchi sostituitosi al Dossetti protagonista della convergenza con Togliatti alla Costituente), optò per il trasferimento in Italia di un esperimento così gravemente incostituzionale da riecheggiare la legge Acerbo, con cui Mussolini nel 1923 travolse il costituzionalismo liberale (e nell'immediato la proporzionale del 1919)." [19]
 
Gli anni '60 e '70 furono quelli in cui si svilupparono le trame eversive dell'ordine costituzionale (De Lorenzo, SIFAR, J.V.Borghese), venne inaugurata la cd."strategia della tensione" a base di attentati dinamitardi, accompagnata dalla politica degli "opposti estremismi", si sviluppò l'azione terroristica delle cd."Brigate Rosse", con l'effetto finale di produrre una legislazione detta "di emergenza", che dette maggiori poteri alla Polizia, senza che un dibattito parlamentare sulle modifiche dell'assetto istituzionale prendesse mai vita.
 
Un primo disegno organico di revisione costituzionale si ebbe a cavallo della VIII e IX Legislatura, nella prima metà degli anni '80, quando si formò la Commissione bicamerale, passata alla storia con il nome del parlamentare liberale Bozzi, che ne fu il suo presidente, composta da quaranta membri, designati dai vari gruppi parlamentari, che produsse una ampia Relazione.
 
Nella relazione conclusiva (presentata il 29 gennaio 1985) erano formulate le proposte di revisione costituzionale e legislativa per le quali si era manifestato in seno alla Commissione un ampio consenso ed erano riferite le posizioni differenziate o dissenzienti, sui punti per i quali un tale consenso non si era registrato. Complessivamente, la relazione prevedeva la revisione di 44 articoli della Costituzione.
 
La relazione conclusiva della Commissione fu approvata dai componenti della Commissione facenti parte dei gruppi DC, PSI, PRI, PLI, con l'astensione i rappresentanti dei gruppi comunista e socialdemocratico; espressero voto contrario i gruppi MSI-DN, Sinistra indipendente, Democrazia proletaria e Union Valdotaine. Furono inoltre presentate 6 relazioni di minoranza. A seguito della presentazione della relazione, furono depositate in Parlamento da parte di vari gruppi politici una serie di proposte di revisione costituzionale che riprendevano in tutto o in parte le conclusioni formulate dalla Commissione. Tali proposte furono assegnate alla Commissione Affari costituzionali della Camera che non ne iniziò mai l'esame.
 
Una parte della relazione prese in esame le modifiche da apportare agli articoli che nella prima parte della Costituzione sanciscono i diritti fondamentali; un'altra parte della relazione, invece, prese in esame le modifiche da apportare alla forma dello Stato.
 
In quest'ultima parte, piccole modifiche agli articoli costituzionali che regolano l funzioni del Presidente della Repubblica e disciplinano l'attività del Governo, non modificavano la natura parlamentare della Repubblica e la supremazia del Parlamento sugli altri poteri. Per quanto attiene, invece, il processo formativo delle leggi, veniva introdotto il principio che di norma le leggi fossero approvate da una sola Camera, quella dei Deputati, con una serie di eccezioni riguardanti alcune specifiche materie e con la possibilità che, su richiesta, sia il Governo, che una parte del Senato, potessero chiedere l'approvazione bicamerale.
 
L'evoluzione della storia e dei rapporti fra le classi sociali stavano progressivamente rovesciando le posizioni:
Il vecchio cavallo di battaglia del "monocameralismo", che era stato avanzato dal PCI nella Costituente, a cui la DC aveva contrapposto il "bicameralismo perfetto", per garantirsi dal rischio che una proposta di legge troppo "di sinistra" potesse essere approvata rapidamente da una sola Camera e danneggiare, così, gli interessi delle classi dominanti, cominciava ad affacciarsi nuovamente sulla scena politica, motivato proprio da quelle esigenze di speditezza che precedentemente erano state contestate e sostenuto da quelle stesse forze che quarant'anni prima per la stessa ragione lo avevano contrastato.
 
Veniva ridotto, da un lato, il numero dei Deputati, intaccando il tabù del numero 630, mentre dall'altro lato, la relazione aumentava i quorum necessari per la proposizioni di leggi ad iniziativa popolare, le cui firme sarebbero passate da cinquantamila ad ottantamila, e per i referendum abrogativi, che da cinquecentomila sarebbero passate ad ottocentomila.
 
Per quanto riguardava i partiti, veniva richiesta una struttura interna democratica: veniva demandata alla legge la disciplina del finanziamento dei partiti in via centrale e periferica, nonchè le garanzie relative alla partecipazione degli iscritti a tutte le fasi della formazione della volontà politica, al rispetto delle norme statutarie e la tutela delle minoranze. Attraverso la finestra del finanziamento pubblico veniva, così, introdotto e giustificato un controllo pubblico, esterno, sulla vita "privata", interna, di associazioni, quali sono i partiti politici, che fino a quel momento non avevano reso conto di ciò ad altri, che non fossero i propri iscritti e/o elettori.
 
Nessuna proposta per quanto riguarda il meccanismo elettorale era contenuta nella relazione:
"C'era stata inizialmente una proposta coraggiosa di Ciriaco De Mita, che aveva proposto in quella sede una riforma elettorale che allora era troppo avanzata e oggi troppo arretrata! La riforma elettorale era un sistema proporzionale con premio di maggioranza, che somiglia molto alla proposta di riforma che è stata elaborata [qualche anno dopo n.d.r.]nella famosa cena di casa Letta. [20]
 
La commissione Bozzi, fu solo consultiva e non operativa perché, a mio avviso, la borghesia monopolistica italiana non aveva ancora raggiunto in quel periodo un livello di sviluppo e di integrazione con il nascente imperialismo europeo tale da richiedere un nuovo assetto istituzionale, improntato più ai principi della governabilità, che a quelli della rappresentatività, come poco più tardi avverrà.
 
Nei dieci anni successivi alla conclusione dei lavori della Bicamerale Bozzi (1985-95) si sviluppò il dibattito nei e fra i partiti politici circa la necessità di procedere ad una trasformazione dell'assetto istituzionale della Repubblica. Cossiga, eletto Presidente della Repubblica nell'85 diventò il principale "picconatore" dell'assetto istituzionale costituzionale, patrocinando apertamente una repubblica presidenziale.
 
Pur con differenti proposte di modifica, i principali partiti, DC, PCI e PSI, concordarono sulla necessità di sostituire la Repubblica parlamentare, dove il potere legislativo, composto dai partiti, ha la supremazia sull'esecutivo, con un diverso sistema dove fosse il potere esecutivo (Governo-Presidente della Repubblica) ad avere la supremazia o, quanto meno un'autonomia dal legislativo, ottenuta attraverso l'elezione diretta del Capo dello Stato, in alcune proposte, oppure del Capo del Governo, in altre.
 
Cominciava ad affermarsi l'idea che il consenso elettorale dato all'individuo fosse, sul terreno della legittimazione democratica, superiore al consenso dato ai partiti, consenso, quest'ultimo, nutrito da un sub-strato ideologico. Concorrevano a questo cambiamento di prospettiva avvenimenti sia internazionali, come la caduta del muro di Berlino, contrabbandata come fine delle ideologie e delle relative contrapposizioni, che avvenimenti nazionali, come la progressiva degenerazione dei partiti politici di governo, principalmente DC e PSI, che con la loro corruzione avevano sempre più radicato nell'opinione pubblica l'idea di una vera e propria "partitocrazia".
 
La legge per l'elezione diretta dei Sindaci, veri a propri "dominus" della vita politica locale, che ebbe nel PCI uno dei primi sponsor, a cui si unì quella dei Presidenti di Provincia e, qualche anno più tardi, quella dei Presidenti di Regione, ne fu la più chiara espressione. A questi nuovi sindaci o presidenti-manager, che nominano e destituiscono assessori, senza dover per questo consultare partiti, perché la loro legittimazione proviene da un voto polare, si richiama espressamente una delle attuali proposte di presidenzialismo (la Repubblica dei Sindaci).
 
Sotto un altro versante, quello elettorale, attraverso il referendum del 1991 sulla preferenza unica, di cui il democristiano Segni fu il promotore, insieme al PCI, si cercò surrettiziamente di affermare il principio dell'uninominalismo, tipico dei sistemi elettorali maggioritari, senza però intaccare, in quel momento, l'impianto proporzionale della legge elettorale vigente.
 
Parallelamente, grazie alla protezione offerta da Craxi, si consolidava (vedi legge Mammì) la posizione di potere del principale concessionario privato delle frequenze televisive, Mediaset di Berlusconi, mentre la contestuale spartizione a favore dei partiti della televisione pubblica, RAI, rendeva sempre più controllato il processo di formazione della coscienza collettiva, azzerando il ruolo di "mediatori del consenso" che tradizionalmente avevano svolto, sia la carta stampata, che gli stessi partiti borghesi.
 
Il passaggio dalla I alla II Repubblica è anche, a mio parere, il passaggio da una forma di egemonia basata su di un consenso delle masse, che potremmo definire "attivo", perchè ottenuto attraverso la mediazione di partiti-contenitori, ad una forma di egemonia basata su di un consenso "passivo", perchè plasmato principalmente attraverso l'azione dei mass-media, di fronte ai quali il cittadino è spettatore e non più attore, essendo stata svalutata se non del tutto annullata l'azione e l'organizzazione dei partiti tradizionali.
 
Davanti all'opinione pubblica il De profundis ai partiti borghesi tradizionali - DC, PSI, PRI, PSDI - lo recitò la vicenda passata alla storia con il nome di "tangentopoli", cioè una serie di processi penali da cui emerse l'esistenza di un sistema consolidato e diffuso di corruzione, dai più già conosciuto o, almeno, intuito, ma i cui particolari, diffusi con dovizia nell'opinione pubblica attraverso la stampa, facilitarono l'assimilazione del concetto che un nuovo sistema di potere dovesse essere adottato.
 
Nel segno di una rottura con il passato, nacquero, così, nel primo lustro degli anni '90 i nuovi partiti: per la destra, Forza Italia ed Alleanza Nazionale, a cui si unirà poco dopo, organicamente, la Lega Nord già pre-esistente; per il centro-sinistra, il Partito Popolare proveniente dalla DC, il PDS dal PCI, che al Congresso di Rimini tagliò anche nel nome i ponti con il passato; per la sinistra il Partito della Rifondazione Comunista, che, per evidenti ragioni elettorali, nel suo nome celò deliberatamente l'equivoco dei propri rapporti, di continuità o rottura, con l'esperienza storica del comunismo.
 
Patrimonio culturale comune di quasi tutti i partiti nuovi fu l'idea dell'"alternanza" nell'ambito di un sistema politico bipolare: la possibilità, cioè, di andare alternativamente al governo fra due schieramenti, che non fossero molto dissimili fra loro nei programmi e che inglobassero al proprio interno le varie forze politiche che concorrevano nelle competizioni elettorali.
 
"Nella realtà effettuale delle democrazie occidentali il bipolarismo, di cui il bipartitismo è la forma estrema, è il modo attraverso cui il proletariato in quanto classe per sé viene privato della sua rappresentanza politica parlamentare o è costretto forzosamente a convivere in modo inevitabilmente subordinato — ad onta anche della coscienza e volontà dei suoi capi — in coalizioni dirette da frazioni della classe borghese dominante." [21]
 
Valore positivo che si pose al centro del nuovo sistema di potere politico fu la "governabilità", in alternativa al valore della "rappresentatività", posto al centro del sistema descritto nella Costituzione: si trattava, cioè, della possibilità di attuare le decisioni governative (esecutivo), senza dover pagar dazio alle varie forze politiche (legislativo), anche a quelle più piccole, guadagnando, così, in celerità, tanto utile in caso di decisioni spinose, come quella, per esempio, di appoggiare la I Guerra del Golfo degli USA contro l'IRAK.
 
Un primo passo "cauto" in questa direzione lo realizzò l'approvazione delle leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277, che introdussero in Italia per l'elezione del Senato e della Camera dei deputati un sistema elettorale misto (Mattarellum): esso prevedeva l'assegnazione dei seggi per il 75% mediante l'elezione di candidati in collegi uninominali (475 per la Camera e 232 per il Senato) secondo un meccanismo maggioritario a turno unico: veniva eletto parlamentare il candidato che avesse riportato la maggioranza relativa dei suffragi nel collegio. Il restante 25% dei seggi veniva invece assegnato con metodo tendenzialmente proporzionale, ma con meccanismi diversi tra le due Camere. A Montecitorio, accedevano alla suddivisione dei seggi le liste che avessero raggiunto la soglia di sbarramento del 4%.
 
Emblematico del nuovo clima neo-plebiscitario il fatto che l'approvazione della legge fu preceduta di qualche mese da un referendum elettorale, promosso dal reazionario pluri-patentato Mariotto Segni, appoggiato anche in questo caso dal PDS.
 
Un connotato innovativo della II Repubblica fu pure il nuovo assetto dato al rapporto Stato-Regioni dalle Bicamerali De Mita-Jotti, prima, e D'Alema, poi. Questo nuovo assetto culminò con la riforma del Titolo V della Costituzione (2001) che delegò alle regioni la legislazione su alcune materie prima di competenza statale, assegnando a questi Enti locali un'autonomia impositiva.
 
Nella bicamerale D'Alema, a corollario e bilanciamento di questo decentramento, furono anche avanzate proposte nella direzione di ampliamento dei poteri centrali dell'esecutivo, con la configurazione di una repubblica presidenziale con le più varie sfumature interpretative a seconda che da destra ci si spostasse a sinistra, senza che queste proposte, su cui pure si crearono convergenze consistenti e trasversali nei due principali schieramenti, trovassero la forza di diventare modifiche all'assetto istituzionale statale.
 
Anche per quanto riguardava il processo legislativo, si riaffacciavano nella Bicamerale D'Alema proposte nella direzione del monocameralismo, anche se più confuse di quelle contenute nella Commissione Bozzi, come denuncia Augusto Barbera:
 
"Per quanto riguarda il bicameralismo, non sarebbe male andarsi a leggere "Il progetto di riforma del bicameralismo della Commissione Bozzi" (scritto con la collaborazione di Gianfranco Ciaurro), molto più avanzato di questo pasticciato bicameralismo che complicherà enormemente il sistema delle fonti. Il vecchio bicameralismo aveva mille difetti, ma almeno era chiaro: una legge deve essere approvata con un identico testo dalle due Camere. Qui invece avremmo leggi soltanto monocamerali, leggi che dovranno essere approvate da entrambe le Camere, leggi che dovranno essere approvate dalle Camere nella composizione normale, leggi che dovranno essere approvate da entrambe le Camere nella composizione allargata con la presenza dei rappresentanti delle Regioni e degli enti locali. Sarà un ginepraio." [22]
 
Un altro elemento importante per comprendere la portata del passaggio dalla I alla II Repubblica, elemento che poco ha a che fare con le questioni di assetto istituzionale, ma non per questo è meno caratterizzante della fisionomia dei nuovi assetti, e da non sottovalutare nelle sue implicazioni internazionali, è la trasformazione dell'esercito di leva in esercito di mestiere.
 
La coscrizione obbligatoria nello stato italiano, infatti, sebbene mai formalmente abolita, di fatto terminò il 1º gennaio 2005 come stabilito dalla legge Martino (legge 23 agosto 2004, n. 226). Dopo essere stata ufficialmente sponsorizzata fra i primi da U.Pecchioli ed A.Occhetto (vedi articolo su Repubblica 28/12/1988), l'abolizione della leva obbligatoria, ossia dell'esercito di popolo, e l'istituzione di un esercito di mestiere, ossia mercenario, fu accolta in Parlamento con l'applauso di tutti, esclusa PRC, contraria, e i Verdi, astenuti. Mai prima di allora una violazione della Costituzione (art. 52: La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio ecc.), fu accolta con tanto unanime entusiasmo !
 
Il capitale finanziario e monopolistico italiano, per integrarsi con il capitale finanziario europeo, impegnato nell'obiettivo di darsi, attraverso lo SME, una moneta unica e stabile, che all'inizio del nuovo millennio si concretizzerà nell'Euro, dovette soggiacere negli anni '90 ai primi diktat impostigli dalle economie più forti (Francia e Germania), consistenti in drastiche misure di risanamento del bilancio statale in deficit.
 
Per realizzare questa politica l'assetto istituzionale di una Repubblica parlamentare, così come descritto nella Costituzione, si poneva come ostacolo e si imponeva la necessità, per la borghesia, di passare ad un nuovo assetto, quello appunto della II Repubblica, che, però, i principali partiti borghesi non avevano ancora la forza e la chiarezza di elaborare in forma organica.
 
Il passaggio dalla I alla II Repubblica ha avuto, perciò, la sua "chiave di volta" principale nel meccanismo elettorale, che in sostanza si limita a regolare il tasso di rappresentatività del potere legislativo, mentre sono restati inalterati i rapporti fra i tre poteri e l'impianto costituzionale che li regola. In questo senso vedasi anche
 
"il referendum per l'abolizione della quota proporzionale del 25 %, [18/4/1999] proposto da Segni e fortemente sostenuto da Veltroni e Fini…[che] non raggiunge il quorum…" [23]
 
La nuova legge elettorale, che il Ministro Calderoli presentò e fece approvare nel 2005 (legge n.270), passata alla storia con il nome di "porcellum", sostituì il precedente sistema, creando un sistema di elezione differenziato fra Camera e Senato, ispirato dall'idea della "governabilità" e fortemente improntato al bipolarismo.
 
Per la Camera essa eliminò definitivamente la quota proporzionale del 25%, innalzò le quote di sbarramento per le coalizioni o per le formazioni che si presentassero singolarmente, ma abbassò la percentuale di accesso per le formazioni politiche riunite in coalizione, con il chiaro intento di spingerle il questo senso, in nome della "lotta alla frammentazione politica", reintrodusse il "premio di maggioranza" per la coalizione vincente, senza fissare, come era invece previsto per la "legge fascista Acerbo" neanche un minimo quorum necessario per conquistare quel premio.
 
Per il Senato un sistema maggioritario su base regionale, che prevedeva la presenza di un numero di parlamentari più consistente nelle Regioni con più abitanti, faceva delle Regioni del nord l'ago della bilancia per la formazione dei nuovi governi, con il rischio di creare situazioni politiche differenziate fra Camera e Senato, a tutto discapito di quella "governabilità" che veniva sbandierata come obbiettivo del nuovo sistema.
 
Infine, questo nuovo sistema attribuì ai gruppi dirigenti dei vari partiti la prerogativa di scegliere le persone da candidare e l'ordine di eleggibilità all'interno della lista, senza che l'elettore potesse, con una preferenza, modificare quell'ordine.
 
Quest'ultimo aspetto ha fatto sì che in molti gridassero allo scandalo per un Parlamento di "nominati" e non di "eletti"; un Parlamento che per questa ragione non si vergognato di approvare le ignominie più assurde, come quella di affermare davanti a tutto il mondo che una minorenne "amica" e frequentatrice della casa di Berlusconi ad Arcore fosse la nipote di Mubarak !!
 
Ma nonostante le grida questo sistema è durato per otto anni, facendo eleggere i Parlamentari di due legislature e contribuendo all'instabilità di tutto il sistema che oggi è pervaso dalla crisi politica più forte.
 
Contro di questa legge non seppero mobilitarsi in maniera appropriata i comunisti, forse nella sicurezza che le soglie di sbarramento sarebbero state agevolmente superate, anzi che avrebbero favorito, come appunto la legge auspicava, quella aggregazione intorno ai partiti numericamente più consistenti, fra i quali il PRC poteva essere annoverato, sottovalutando la forte pulsione bipolare che tutto il sistema induceva nell'elettorato.
 
Stanno a dimostrare questa sottovalutazione i numeri raggiunti dalla "lista arcobaleno" nelle elezioni del 2008, che sortirono la cancellazione della presenza di un gruppo parlamentare di orientamento comunista, nonostante le previsioni più ottimistiche accreditassero un risultato a due cifre (forse anche i numeri raggiunti dalla lista Ingoia ne sono una dimostrazione ?).
 
L'immobilismo totale dei comunisti su questi temi si manifestò allorquando (estate 2011) all'interno del PD si aprì il dibattito sull'opportunità di avviare una raccolta di firme per la promozione di un referendum abrogativo del "porcellum": da un lato Passigli e Sartori proponevano con un referendum il ritorno al proporzionale, seppure con sbarramento, dall'altro si mobilitarono immediatamente Parisi, Veltroni, Ceccanti e quanti reclamavano la permanenza di un sistema maggioritario.
 
Prevalse nel PD, nell'IDV e SEL quest'ultima posizione, nonostante che la proposta referendaria dei "maggioritari" non contenesse al suo interno la possibilità di far rivivere, con le norme non abrogate, un qualche sistema elettorale idoneo a far rieleggere il Parlamento e per questa ragione (come avevano facilmente pronosticato i sostenitori dell'altra tesi) la Cassazione con sentenza conforme ad una giurisprudenza costituzionale ormai consolidata, dichiarò inammissibili i quesiti referendari proposti, dopo che furono raccolte più di un milione di firme.
 
I comunisti rimasero fermi a difendere il "il proporzionale previsto dalla Costituzione" , con una posizione "di principio" che scadeva nella testimonianza, senza consentire loro di intervenire nel dibattito in corso.
 
Agli albori della III Repubblica
 
La crisi economica in atto ha rivoluzionato i termini del gioco politico.
 
La creazione di una moneta unica, l'euro, ed ancor prima la costruzione di soggetti istituzionali europei che vigilano affinché quel mezzo valutario regga alle pressioni speculative e diventi l'intermediario stabile degli scambi commerciali da e per l'Europa, ha fatto sì che i centri decisionali formali della politica economica di ogni singolo Stato europeo non risiedano più nei rispettivi Parlamenti, relegati al ruoli di meri "esecutori".
 
Lo stesso Parlamento Europeo, rispetto alle competenze decisionali che i trattati internazionali attribuiscono alla Commissione UE, ha un potere solo consultivo, non operativo, di orientamento della politica comunitaria, che si concretizza nell'approvazioni di "direttive" da recepire in leggi nei singoli stati e che sostanzia a livello europeo un rapporto fra legislativo ed esecutivo ben differente da quello che, ad es., viene disciplinato nella Costituzione italiana.
 
I poteri decisionali della Commissione UE, composta dai capi di Governo, e della BCE sono enormi e non rispondono a nessun Ente eletto democraticamente.
 
La borghesia monopolistica e finanziaria italiana, se vuole restare agganciata al carro del nascente imperialismo europeo, in cui la borghesia tedesca riveste un ruolo egemone, deve attuare "riforme" che riducano il disavanzo pubblico, cancellando le conquiste dello stato sociale ed attuando una "riforma del lavoro" che accentui lo sfruttamento. Questa è la ricetta della Commissione dell'UE e della BCE, che il Governo Monti ha già attuato e che il prossimo Governo dovrà pure attuare.
 
L'elezioni politiche del 2013 hanno fatto, però, saltare ogni schema bipolare, affacciando sulla scena politica italiana un "partito", il Movimento 5 stelle, la cui consistenza elettorale, espressione di un malcontento generalizzato nell'opinione pubblica, ha reso impraticabile i principi tanto osannati dell'alternanza e del bipolarismo e reso impossibile la creazione de plano di un nuovo Governo borghese, che non fosse la riedizione del Governo precedente, bocciato dalle urne.
 
Il fallimento dei meccanismi elettorali elaborati e messi in atto in tutti questi anni, con le soglie di sbarramento, il maggioritario, il premio di maggioranza, si è misurata in questi giorni con la difficoltà di formare un nuovo governo e di eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.
 
Di conseguenza stanno prendendo sempre più forza le posizioni che reclamano un nuovo assetto istituzionale, che non si limiti solo a modificare il meccanismo elettorale, come è avvenuto per la II Repubblica, ma che modifichi proprio il rapporto fra i tre poteri nella direzione aperta di una sottomissione all'esecutivo, sia del potere legislativo, che di quello giudiziario.
 
Si parla apertamente di III Repubblica, di Repubblica presidenziale.
 
E' questo un obbiettivo che è fatto proprio non solo in maniera compatta dagli esponenti della destra berlusconiana e neo-fascista, ma anche da moltissimi ed autorevoli esponenti del centro-sinistra.
 
Gli stessi comportamenti posti in essere dal Presidente della Repubblica Napolitano nel corso della crisi di questi ultimi mesi, hanno contraddetto i principi costituzionali di autonomia del Parlamento che, secondo Costituzione, è ancora l'unico organo preposto a dare fiducia o sfiduciare un Presidente del Consiglio incaricato.
 
Napolitano, contravvenendo al ruolo costituzionale di "arbitro" ed improntando la sua azione all'orientamento politico che lo ha contraddistinto, la creazione di un "Governo di larghe intese" (PD, Centristi e PDL), nel corso della crisi post-elettorale ha inizialmente condizionato al raggiungimento preventivo di numeri certi di maggioranza il conferimento dell'incarico al capo della coalizione che aveva avuto più consensi elettorali, Bersani, impedendogli, così, di presentarsi al Parlamento, e determinando la successiva crisi politica di quel partito e della sua leadership.
 
Successivamente violava nuovamente la Costituzione perchè ha condizionato la propria rielezione alla Presidenza della Repubblica alla costituzione di un Governo di larghe intese "nell'interesse del Paese".
 
Proseguiva in una politica che nel 2011 lo aveva portato a scegliere Monti, garante del capitale finanziario internazionale, senza che lo stesso fosse stato mai eletto dal popolo in Parlamento e che si era successivamente "dimissionato" da solo, senza un vero e proprio voto di sfiducia da parte del Parlamento, determinando quelle elezioni anticipate, nelle quali proprio la politica montiana aveva subito una sonora sconfessione.
 
Che Napolitano sia coerente con le proprie scelte politiche, anche quando queste sono in antitesi con il responso elettorale o cannibalizzano il PD, partito che ne aveva determinato l'elezione, è cosa indubitabile; quanto le è il fatto che quelle scelte di Napolitano siano in contrasto con la Repubblica parlamentare descritta nella Costituzione e siano orientate alla realizzazione di una Repubblica presidenziale.
 
Ma l'attuazione di una pratica politica orientata a sovvertire nei fatti l'assetto istituzionale, nella previsione che i numeri parlamentari ne consentano poi la formale trasformazione, non è solo monopolio dell'ultimo Presidente della Repubblica.
 
Possiamo annoverare in questa pratica la scelta di inserire il nome del futuro capo del governo nella scheda elettorale, quasi a giustificare una legittimazione popolare in sostituzione della fiducia parlamentare, la prassi abusata della cd. "decretazione d'urgenza" (decreti legge emanati dal Governo che il Parlamento deve approvare in 60 giorni), la prassi abusata di "maxi-emendamenti" presentati dal Governo, su cui viene posta al Parlamento la questione di fiducia, la prassi di emanare "leggi delega al Governo", che relegano al Parlamento la definizione di principi generali, mentre al Governo viene attribuita la funzione di attuare quei principi attraverso leggi particolari.
 
Tutto contribuisce a svuotare il parlamento delle sue funzioni e della sua supremazia.
 
Intanto è ormai quasi unanime l’orientamento delle varie forze politiche di procedere nella direzione di una riduzione del numero di parlamentari, sia alla Camera che al Senato, con il pretesto di una riduzione dei costi della politica. Invece di eliminare i privilegi, si tratta, invero, di accentrare il processo formativo delle leggi nelle mani di una "oligarchia", nella quale diventerà sempre più difficile entrare per qualsiasi  forza che si collochi "fuori dal coro".
 
Contestualmente un'aperta e continua delegittimazione della Magistratura ha visto impegnata in prima fila la destra con il suo capo, Berlusconi, ma anche lo stesso Napolitano se si osserva attentamente il suo ruolo nella vicenda delle intercettazioni sulla "trattativa Stato-mafia" .
 
Certo la definizione di un nuovo assetto istituzionale in sostituzione di quello configurato dalla Costituzione non è cosa semplice, sia sotto il profilo della scelta delle figure da privilegiare (ad es. Repubblica presidenziale o Premierato), sia per la complessità ed equilibrio dei rapporti fra i diversi poteri (si pensi fra i tanti rapporti a quello fra esecutivo e magistratura, laddove l'attuale Presidente della Repubblica è anche capo del CSM), che, soprattutto, sotto il profilo dei numeri necessari in Parlamento (due terzi) per attuare queste riforme istituzionali.
 
Non è chiaro se il dibattito per l'approvazione di una nuova legge elettorale si farà in Parlamento e se sarà esteso anche alle riforme istituzionali.
 
Quello che mi appare necessario è che il dibattito fra i comunisti su questi temi riprenda quanto prima, pervenendo alla definizione di una piattaforma programmatica che non si limiti solo alla trattazione delle tematiche elettorali, pure importantissime, ma che abbracci la complessità delle questioni sul tappeto e consenta a noi tutti di denunciare approfonditamente i processi in atto, di organizzare e mobilitare lavoratori e democratici, per la difesa di quanto la Costituzione ancora legalmente garantisce, dialogando anche con quelle forze politiche disposte ad unirsi con noi su tematiche definite.
 
Bari, aprile 2013
Vincenzo De Robertis
 

[1]A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2010-1
[2] A.Gramsci, op.cit., pag.2012
[3] A.Gramsci, op.cit., pag.59
[4] A.Gramsci, op.cit., pagg.1637-8
[5] Gli argomenti del paragrafo che segue sono attinti dal volume Storia dello Stato italiano dall’Unità ad oggi a cura di Raffaele Romanelli. Donzelli editore. Roma 1995 e sono stati esposti più diffusamente nel Cap. VI del mio libro A.Gramsci e l’Unità d’Italia, reperibile sul sito www.resistenze.org
[6] R. Romanelli Op.cit.. pag.9
[7] A.Gramsci, Op.cit. pagg.1000-1
[8] R. Romanelli Op.cit.. pag.16
[9] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di A.W.Salomone. La Nuova Italia Editrice. Scandicci (FI) 1988.Pag.X
[10] G. Salvemini, idem,pag.X
[11] G. Salvemini, idem,pag.XI
[12] A.Gramsci, Op.cit. pagg.386-388
[13] Dal Programma dell’Internazionale Comunista, approvato al VI Congresso il 1° settembre 1928.
[14] I contenuti dei paragrafi che seguono possono essere approfonditi nel volume “Lotte di classe e costituzione” di  S.D’Albergo-A.Catone. Ed. La Città del Sole.2008
[15] S.D’Albergo-A.Catone Op.cit.. pag.45
[16] Idem pagg.52-3
[17] Vedi a riguardo i documenti pubblicati in Appendice del mio libro 1948, il Cominform, l’URSS e la Jugoslavia, reperibile sul sito internet www.resistenze.org
[18] Vedi a riguardo gli articoli del Quotidiano del popolo “Sulle divergenze” ed “Ancora sulle divergenze….” reperibili sul sito internet http://www.bibliotecamarxista.org/Mao/libro_19/libro_19.htm
[19] S.D’Albergo-A.Catone, Op.Cit., pag.86-7
[20] A.Barbera: “A.Bozzi dieci anni dopo”. Un articolo di bilancio della Commissione Bozzi in relazione a quella D’Alema. Su Internet :www.fondazione-einaudi.it/.../lezione%20%20BARBERA....
[21] S.D’Albergo-A.Catone, Op.Cit., pag.268
[22] A.Barbera: Op.cit.
[23] S.D’Albergo-A.Catone, Op.Cit., pag.342 . La cronologia contenuta nell’Appendice del volume è utilissima a ricostruire l’evolversi degli avvenimenti.
 

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