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La ricostruzione libica: un affare italiano

Se le aziende straniere fuggono da Tripoli per l'instabilità politica, Roma resta e aumenta il suo volume d'affari. Un maxi-investimento che sa di colonialismo

Francesca La Bella | nena-news.globalist.it

11/11/2013

Legami di lungo corso uniscono Italia e Libia. I vincoli coloniali prima e gli interessi commerciali in seguito, hanno cementato un rapporto di interdipendenza duraturo e molto proficuo, soprattutto per la controparte italiana. In questo contesto l'intervento NATO contro Muhammar Gheddafi e la conseguente instabilità sembravano aver inciso negativamente sul volume di affari italiani nel Paese a causa di due fattori paralleli ed interrelati: la fluttuazione della produzione di idrocarburi (gas e petrolio), primo prodotto esportato verso la penisola italica, e la presenza significativa di competitors commerciali, soprattutto francesi, attivi nel Paese anche grazie alle tutele date dal coinvolgimento militare della propria madre patria al fianco dei ribelli.

La realtà è, però, diversa da quella che poteva apparire all'indomani della morte del Colonnello. Le speranze occidentali di affidabilità dei partner politici e di stabilità economica sono state quasi immediatamente disattese e, ad oggi, la tutela delle attività industriali straniere è nelle mani di compagnie di sicurezza private mercenarie o di milizie di ex-ribelli come la Lybia Shield Force. A prima vista la situazione sembrerebbe, dunque, molto critica per gli investitori italiani, ma così non è.

Anche dopo la caduta di Gheddafi, Roma si è infatti confermata il principale partner economico della Libia. Il mercato italiano è la meta principale dell'export libico e, nonostante le difficoltà, il valore dell'intercambio è cresciuto sia nel 2012 sia nel 2013. Parallelamente, se prima del 2011, operavano in Libia circa 100 aziende italiane, l'anno successivo si poteva stimare un 70% di rientri e la percentuale è ulteriormente cresciuta nell'ultimo periodo. Se i colossi del petrolio come le statunitensi Marathon Oil e ExxonMobil stanno lasciando la Libia a favore di altri Paesi con maggiori garanzie di sicurezza, le aziende italiane hanno scelto di investire sempre di più nel canale libico. Da un lato questo è dovuto alla fuga di buona parte della concorrenza internazionale, spaventata da una situazione che presenta forti criticità, dall'altro, si tratta di una occasione unica per avere un ruolo significativo in ambito mediterraneo.

L'accordo con il Governo Zeidan per il monitoraggio dei confini libici con tecnici italiani e sistemi Selex (Finmeccanica), l'incontro tra Letta ed Obama incentrato sul Mediterraneo in generale e sulla Libia in particolare e la dichiarazione congiunta di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia a favore del "consolidamento della democrazia" sono i passaggi di un nuovo programma di intervento italiano nel Paese nord-africano. In quest'ottica devo essere letti, di conseguenza, anche la costituzione a fine ottobre dell'associazione Progetto Italia Libia (Apil) che dovrebbe favorire l'ingresso nel Paese africano di piccole e medie imprese, principalmente del settore infrastrutture, e la presenza massiva dell'Italia al Libya Rebuild 2014, la fiera internazionale sull'edilizia e le infrastrutture, che si terrà a febbraio 2014 a Tripoli.

Parallelamente si ricordi che ENI ha scelto di mantenere la propria posizione in suolo libico nonostante le difficoltà. Benché sia di pochi giorni fa la notizia dell'occupazione da parte di gruppi berberi del terminal libico del gasdotto che collega Mellitah a Gela, gestito dalla compagnia italiana e dalla consociata libica, le dichiarazioni in merito dell'amministratore delegato dell'azienda Paolo Scaroni non sono state particolarmente allarmate. Si sottolinea la difficoltà di lavorare in un contesto di post-guerra civile, ma si apre comunque alla possibilità di un miglioramento.

La fiducia nel futuro dell'Ad di ENI sembrerebbe fuori luogo se non si tenesse conto del contesto: l'imprenditoria privata è supportata da politiche statali configurando la relazione tra i due Paesi in termini neo-coloniali. La Libia ha, attualmente, un Governo debole, incapace di garantire la propria sicurezza interna e quella dei confini. L'economia, basata quasi totalmente sui proventi degli idrocarburi, continua a registrare fluttuazioni e la mancanza di investimenti esteri impedisce la diversificazione economica. Questa situazione induce il premier Zeidan a cercare partner commerciali capaci di dare nuova linfa all'economia locale, rafforzando, di conseguenza, la posizione dell'esecutivo.

D'altra parte l'Italia trova nella crisi libica un'inesauribile fonte di guadagno, non esclusivamente economico. Il business della ricostruzione potrebbe sopperire alle difficoltà che il settore edilizio e delle infrastrutture soffre in patria, il monitoraggio dei confini potrebbe garantire sia un introito economico per le aziende di tecnologia militare sia un risultato politico in termini di limitazione del fenomeno migratorio (esimendo l'Italia da un dibattito su una nuova nuova legge sull'immigrazione) e l'impegno per la "transizione democratica" riporterebbe l'Italia al centro del dibattito politico internazionale. Siamo sicuri che il ritorno al colonialismo possa essere considerato una soluzione "democratica?".


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