www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 28-04-18 - n. 671

LA RESISTENZA, I SUOI VALORI UMANI, POLITICI, LETTERARI, E I SUOI INSEGNAMENTI: IERI, OGGI, DOMANI[*]

 

 

Puntualmente, siamo qui a celebrare il 25 Aprile non come stanca ritualità, ma come occasione di riflessione sullo stato del Paese, sul sistema di valori esistente, a partire dai sentimenti democratici e antifascisti. Purtroppo dobbiamo constatare che non c’è oggi a livello nazionale quel sussulto che ci fu all’indomani della vittoria elettorale di Berlusconi, nel 1994, allorquando milioni di persone scesero in piazza, il 25 aprile e il Primo Maggio, per ribadire che il popolo italiano intendeva continuare sulla scia segnata dalla Resistenza, dalla lotta di Liberazione e dalla nascita della Repubblica fondata sulla Costituzione. Gravi responsabilità pesano, a nostro avviso, sulle spalle della sinistra istituzionale e, soprattutto, del Partito democratico, che, in tutti questi anni, invece di stimolare e potenziare l’antifascismo, a livello culturale e a livello di militanza di massa, ha preferito indossare il doppiopetto di partito governativo, di partito moderato, il quale,  per legittimarsi come tale, ha dovuto, nel contempo, legittimare forze che non fanno mistero di simpatizzare per il fascismo e di considerarlo come un’«ideologia» che non solo dev’essere accettata, al pari delle altre, ma merita di essere condivisa, in tutto o in parte. In un clima generale di «deideologizzazione», per dirla con Gramsci, tutti i topi sembrano bigi.

La situazione politico-culturale del Paese è diventata, di conseguenza, molto difficile. Le ultime elezioni politiche del 4 marzo scorso lo dimostrano ampiamente. Si è parlato di «rivoluzione antropologica», di «terza repubblica», la vera «repubblica popolare». Ma la realtà dei fatti è ben diversa. E’ prevalso l’egoismo più sfrenato. Ognuno ha difeso quel che aveva (poco o molto), sentendosi insidiato da tutte le parti. E’ riemerso quel fascismo radicale che Piero Gobetti, giovane vittima della dittatura mussoliniana, definì efficacemente «autobiografia della nazione». C’è, nella storia di questo Paese, un filone reazionario, che, a più riprese, riemerge, quando si abbassa la guardia dell’antifascismo. Un filone che non si identifica tout court con un solo partito o movimento, ma che attraversa trasversalmente tutti i ceti sociali, facendo emergere in ognuno la parte peggiore, la componente irrazionale e belluina dell’animo umano. Un filone che affonda le radici nel retroterra culturale di un popolo abituato, per secoli, ad essere dominato, a delegare permanentemente, a predicare bene e razzolare male, a distinguere furbescamente tra il dire il fare, a fare il moralista con gli altri e l’indulgente con se stesso, a barcamenarsi in tutti modi, anche i più deteriori, a scaricare il peso delle situazioni difficili sul prossimo, a cercare di venire a galla con il minor sacrificio possibile.

Queste caratteristiche antropologiche, tutt’altro che rivoluzionarie, hanno subito una modificazione in peius nell’era dei mass-media e dell’informatizzazione di massa. Franco Ferrarotti, il più grande sociologo italiano, è stato uno dei pochi studiosi ad avere analizzato a fondo questo fenomeno così complesso e pericoloso. Egli ha sottolineato il trapasso dalla civiltà del libro a quella dell’audiovisivo. La prima era fondata sulla ragione: il libro impone un “corpo a corpo” con il testo, una continua riflessione e una serrata analisi razionale incentrata sui suoi contenuti. La seconda si fonda, invece, sull’irrazionalità. I messaggi che l’uomo comune riceve a migliaia ogni giorno attraverso il computer o la televisione saltano il filtro della ragione e vanno a colpire direttamente la sfera emotiva, irrazionale. Il destinatario si trova in una dimensione che Ferrarotti ha definito di «sonnambulismo», addirittura «a-razionale», ancor più che «irrazionale». Egli esegue i messaggi che gli vengono trasmessi acriticamente. E allora il popolo di Internet (soprattutto i giovani, ma non solo), diventa, per riprendere il titolo di un libro di Ferrarotti, un «popolo di frenetici informatissimi idioti», «che sanno tutto e non capiscono niente».

Un messaggio come quello del reddito di cittadinanza, lanciato in mezzo alla gente senza articolarlo nei contenuti, facendo intendere furbescamente, con una strizzatina d’una, che chiunque abbia la cittadinanza italiana ne possa godere, fa sì che milioni di persone abbocchino. Così si spiega il successo elettorale strepitoso del Movimento 5 Stelle, che degli strumenti informatici e, in generale, degli strumenti di persuasione occulta si serve ampiamente, attraverso la consulenza di “guru” come Casaleggio e gli spettacoli folcloristici di Beppe Grillo. I cittadini, in preda all’ipnosi di massa, non si rendono conto che non c’è, e non ci può essere, copertura finanziaria per il reddito di cittadinanza generalizzato. Milioni di persone, di tutte le età e di tutti i ceti, lo chiederebbero. Magari il Movimento 5 Stelle, quando andrà al governo, chiarirà che si tratta di un ipotesi di studio, che, per essere attuata, richiede anni di ricerca, rinvierà l’applicazione alle calende greche. Ma l’effetto elettorale è già ottenuto e la massa è stata gabbata, in attesa di nuove trovate pubblicitarie e di nuove chimere da inseguire. Nessuno si è chiesto, al momento del ricevimento del messaggio, se il reddito di cittadinanza era realizzabile. Ognuno ha pensato egoisticamente di risolvere, grazie a questa entrata finanziaria, i propri problemi personali e familiari, di scavare una nicchia per se stesso, in barba all’interesse generale.

Pure il messaggio di una detassazione generalizzata, lanciato dalla Lega, è accattivante, in un Paese nel quale il 40% dell’economia è sommersa e interi ceti alto-borghesi e medio-borghesi evadono sistematicamente le tasse. Anche qui nessuno ha pensato al fatto che, senza un adeguato gravame fiscale, si debbono tagliare in maniera drastica i servizi sociali e la società non può progredire. La Costituzione prevede un sistema di tassazione progressiva: chi più ha, più deve pagare. E’ questo il fondamento di ogni società civile, altrimenti lo stesso concetto di società va a farsi benedire. Questa volta, il sistema televisivo Mediaset, con la sua propaganda populista, ha favorito la Lega, anziché il padrone di casa, Berlusconi, che ha dovuto forzatamente tenere in campagna elettorale un profilo moderato, perché questa è la condizione tacita impostagli dai grandi potentati economico-finanziari internazionali (quelli che effettivamente comandano) per essere riammesso, seppur sotto tutela, nell’agone politico. Il cavaliere sta correggendo il tiro, sta apportando dei correttivi al sistema dei messaggi televisivi lanciati sulle sue reti, in chiave moderata e “responsabile”, per non favorire un alleato indispensabile, ma scomodo, come Salvini.

Naturalmente tutte le promesse fatte durante la campagna elettorale da Lega e Movimento 5 Stelle saranno disattese e chiunque governerà dovrà farlo nel pieno rispetto delle direttive della cosiddetta «troika», vale a dire dell’Unione Europea (Ue), della Banca centrale europea (Bce), del Fondo monetario internazionale (Fmi). A meno che non si voglia fare una rivoluzione vera, non quella «virtuale», mass-mediatica, degli schieramenti populisti. Molti elettori sedicenti di sinistra, che hanno votato per i «pentastellati», avranno modo di verificare la natura effettivamente reazionaria del movimento grillino. Assomigliano a quel malato dantesco, che credeva di poter guarire, girandosi nel letto una volta a destra e una volta a sinistra. Così costoro oscillano in maniera inconcludente tra il vecchio Pd, che ora sta tramontando dopo aver alimentato tante illusioni, la destra, a guida Salvini, e il Movimento 5 Stelle.

I risultati delle elezioni del 4 marzo scorso evidenziano un Paese profondamente arretrato, ignorante, per colpa di chi ha governato (a cominciare dal Pd, lo ripetiamo), della scuola, che non trasmette più i saperi fondamentali, dell’università, che considera il sapere come un fatto strettamente «tecnico», con velleità pseudo-scientifiche, anche con riferimento alle cosiddette «materie umanistiche», che di umanistico conservano ben poco. Le istituzioni scolastiche, di ogni ordine e grado, offrono quel minimo di formazione culturale che serve a recepire i messaggi fortemente condizionanti lanciati in mezzo alla massa amorfa dal sistema informativo, in tutte le sue articolazioni, avente le caratteristiche di persuasione occulta che abbiamo già delineato. E’ questo il «nuovo fascismo» di cui parlava Pasolini, il «fascismo della società dei consumi», con l’aggravante dell’informatizzazione massiccia. Un fascismo addirittura peggiore di quello del ventennio, perché allora la maggior parte degli italiani non riusciva neanche a recepire i messaggi provenienti dal potere. Individui culturalmente “semilavorati” sono peggiori di quelli totalmente analfabeti.

Esiste un abisso rispetto all’Italia uscita dalla Resistenza e dalla lotta di Liberazione, che si ispirava a valori di solidarietà, di uguaglianza politica ed economico-sociale, di giustizia. Tali valori emergono chiaramente dalla letteratura che è stata definita, per l’appunto, «resistenziale», che ha costituito, per circa un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, uno dei filoni più fecondi della letteratura «neorealista», assieme a quello operaista e a quello meridionalista.  Carlo Levi ha giustamente sottolineato come una gran massa di fervori collettivi si sia trasfusa in questa esperienza letteraria, che coinvolse migliaia di persone che non erano scrittori di professione, ma che sentivano il desiderio di raccontare quel che avevano vissuto. Si dubitò da parte della critica di stampo conservatore che si trattasse di letteratura vera e propria, che le opere che man mano vedevano la luce avessero validità artistica. Questa critica era rimasta legata a un concetto di letteratura cristallizzato nel passato, identificato con la retorica dannunziana, la «bella pagina» rondista, la «parola innamorata di se stessa» degli ermetici, che aveva dominato durante il ventennio fascista. I nuovi scrittori diedero vita, per converso, ad un nuovo modo di fare letteratura, aderente, nelle forme e nei contenuti, alla realtà viva, attuale, del Paese, come nocciolo alla polpa. Attinsero a piene mani alle passioni, al desiderio di cambiamento, che si venivano manifestando ed affermando con prepotenza a tutti i livelli della società. Raccontarono esperienze tragiche, eccidi, che erano stati vissuti da tutta la comunità nazionale e avviarono una riflessione sul perché un popolo tradizionalmente pacifico come quello italiano si fosse imbarcato in una guerra ignominiosa. (Cesare Zavattini ha sostenuto che tale riflessione rappresenta l’anima della letteratura neorealista). Usarono un linguaggio che attingeva anch’esso al mondo vivo e vitale, alla parlata del popolo, financo al dialetto.

Alcuni di questi scrittori “non professionali” sono rimasti autori di un solo libro. Basti pensare, solo per fare un esempio, a Renata Viganò, modesta infermiera, autrice de L’Agnese va a morire, un romanzo che racconta la storia di una lavandaia, la quale pensa di essere estranea ai grandi avvenimenti, si cura esclusivamente della propria famiglia, fino a quando i tedeschi non le uccidono il marito e così viene coinvolta nel grande vortice della guerra, si lega alle formazioni partigiane e sacrifica la propria vita con estrema generosità.

Altri scrittori, se non divengono professionisti in senso stretto, vanno ben al di là del primo libro e ripetono con successo negli anni a venire l’esperienza della scrittura, superando le tematiche resistenziali. E’ il caso di Nuto Revelli, ufficiale degli alpini, che partecipa alla disastrosa campagna di Russia, assiste impotente alla morte dei suoi soldati, mandati a combattere nella neve con le suole di cartone, vede il vero volto criminale e corrotto del regime fascista, che lo aveva irretito con una divisa fiammante, affrancandolo apparentemente dalla condizione di miseria della sua gente, quella della provincia cuneese, piombandolo in realtà in un baratro, dal quale esce aderendo alla lotta contro il nazi-fascismo, come comandante partigiano nelle file di «Giustizia e Libertà». Revelli ha raccontato le sue «due guerre», quella fascista e quella partigiana, nel volume autobiografico La guerra dei poveri. Nel dopoguerra ha pubblicato numerosi libri sul mondo contadino della sua provincia, fra i quali ricordiamo Il mondo dei vinti e L’anello forte.

Anche Davide Lajolo è stato ufficiale fascista, ha combattuto per un decennio le guerre di regime sui vari fronti, dalla Spagna alla Jugoslavia, alla Grecia, all’Albania. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ha sentito precipitarsi addosso tutto il mondo di cartapesta, di illusioni di emancipazione sociale che il fascismo aveva saputo edificare nell’animo di tanti giovani della sua generazione. La letteratura resistenziale è stata accusata spesso di essere «retorica». Ma pensate al dramma di un uomo come Lajolo, che si è formato all’interno delle organizzazioni giovanili del partito fascista, come il GUF, poi è stato dirigente di federazione ad Ancona e giornalista per i fogli di regime, ha scritto poesie e racconti esaltatori delle guerre mussoliniane. E poi si è sollevato all’improvviso davanti ai suoi occhi il «velo di Maya» che separa apparenza e realtà, ha scoperto a sue spese che il popolo ha subito quelle guerre, ha odiato il fascismo, ha sopportato le sue angherie, ma, ad un certo punto, ha detto «basta» e si è ribellato in armi. Lajolo ha voluto essere in sintonia con i suoi contadini dell’astigiano. E’ diventato comandante partigiano nelle file garibaldine. Ha affidato le sue memorie di guerra a romanzi di successo, come A conquistare la rossa primavera e Il «voltagabbana». Nel dopoguerra è stato capo-redattore dell’edizione torinese de «L’Unità» e direttore dell’edizione milanese dello stesso quotidiano comunista. E’ stato deputato del Partito comunista italiano. E’ divenuto scrittore di professione.

Mario Rigoni Stern ha partecipato alla campagna di Russia come sergente degli alpini. Su quest’esperienza ha scritto un libro, Il sergente nella neve, che, secondo Giuliano Manacorda, comprende le pagine più limpide della letteratura resistenziale italiana. L’autorevole critico si riferisce in particolare ad un episodio narrato con grande maestria e accompagnato da riflessioni pregnanti. Durante la battaglia di Nikolajevka, il sergente Rigoni Stern, affamato, entrò in un’isba. C’era una famiglia che stava pranzando e, con essa, alcuni soldati dell’Armata Rossa. Nessuno accennò a prendere le armi. Fu consentito all’ospite di sedersi a tavola e di mangiare zuppa di miglio insieme agli altri. Alla fine la padrona di casa lo accompagnò alla porta e gli diede un favo di miele per i suoi compagni. Rigoni Stern commenta questo episodio dicendo che non si trattò del semplice rispetto degli animali verso gli altri animali: quegli uomini, nonostante la guerra, non erano regrediti al livello belluino, avevano conservata intatta la loro umanità. Rigoni Stern capì allora che avrebbero vinto loro, perché superiori non solo dal punto di vista militare, ma anche da quello morale. Rigoni Stern, nel dopoguerra, ha scritto parecchi libri dedicati al mondo contadino e alla natura, come Uomini, boschi e api, e Il libro degli animali.

Il compagno di Cesare Pavese  è un «romanzo di formazione». Il protagonista, Pablo, entra in contatto con alcuni intellettuali antifascisti torinesi appartenenti alla cerchia di Carletto, il Gobbo. Ma la loro opposizione al regime gli sembra semplicemente etica. Perciò si trasferisce a Roma, lavora nell’officina della Bionda, entra in contatto con gli operai di una fabbrica che si trova sull’Aurelia. Costoro, a differenza del gruppo del Gobbo, praticano un’opposizione concreta al fascismo, organizzano riunioni clandestine, sotto la direzione di Gino Scarpa, un quadro della rete clandestina comunista che ha partecipato alla guerra di Spagna. Hanno le idee chiare sul da farsi. Dopo essere stato arrestato, ce le ha anche Pablo. Nell’incontro conclusivo con la Bionda, questa consapevolezza emerge dalle sue parole: non basta sconfiggere il fascismo, ma anche creare una nuova società di uomini e donne liberi ed eguali.

Un’opposizione di carattere etico al fascismo emerge, invece, dalle opere di Elio Vittorini: Uomini e no, Conversazione in Sicilia.

Un approccio nuovo all’esperienza resistenziale è quello di Italo Calvino, autore de Il sentiero dei nidi di ragno. Il suo maestro, Cesare Pavese, lo definisce «scoiattolo della penna», perché, come uno scoiattolo, dall’alto di un albero, osserva la lotta partigiana, la descrive senza tentazioni agiografiche, rappresenta uomini in carne ed ossa, con i loro pregi e i loro difetti. Ma dalle parole che fa pronunciare a Kim si capisce chiaramente da che parte sta: nulla, neanche uno sparo, di quello che hanno compiuto i partigiani va perso, perché senza di loro avrebbe vinto la barbarie nazi-fascista, che va rifiutata in toto.

Una visione ancora più problematica della resistenza viene offerta da Carlo Cassola ne La ragazza di Bube e da Beppe Fenoglio ne Il partigiano Johnny, ne La paga del sabato e in Una questione privata.

Oggi non esiste, nel nostro Paese, una letteratura «impegnata»,  oserei dire che non esiste una letteratura contemporanea, tant’è che, nel 1997, i giurati dell’Accademia di Svezia, dovendo assegnare il Premio Nobel per la letteratura ad un italiano, hanno scelto un drammaturgo: Dario Fo. Le statistiche ci dicono, da parecchi lustri ormai, che due terzi degli italiani non leggono neanche un libro l’anno. Possiamo concludere, allora, che è necessaria quella «riforma intellettuale e morale» del Paese che Gramsci, nei Quaderni del carcere, considerò condizione preliminare per un cambiamento radicale della società, senza il quale i mutamenti marginali all’interno dello stesso sistema capitalistico servono a ben poco.

 

Antonio Catalfamo, Direttore del Centro Studi «Nino Pino Balotta»      

    



[*] Intervento all’incontro sul tema 25 Aprile: per non dimenticare, svoltosi, a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), presso la Libreria Gutenberg, il 25 aprile 2018, per iniziativa del Centro Studi «Nino Pino Balotta».


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