www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 25-05-18 - n. 674

Il sovrano non è mai neutro

Enzo Pellegrin

25/05/2018

Come precisato da molti economisti, tra cui Emiliano Brancaccio, tra i primi critici della Moneta Unica, la riconquista della cosiddetta "sovranità monetaria" non ha mai un valore "neutro". Gli allontanamenti dai cambi fissi possono funzionare da deflazione salariale tanto quanto lo ha fatto la moneta unica. Soprattutto in presenza di programmi di governo che di tutto parlano tranne che del ripristino delle garanzie dei lavoratori, del loro potere d'acquisto, della loro stabilità lavorativa. Per contro i medesimi programmi sembrano ancora concentrare su di loro gran parte del peso fiscale per sostenere la flat tax.

Tralasciando per un istante tali aspetti, vediamo ciò che scriveva nel 2014 proprio Emiliano Brancaccio sui meccanismi di uscita dalla moneta unica. Brancaccio fu tra i primi economisti ad aver posto la questione dell'uscita dall'Euro. Tuttavia, proprio sui limiti di tale discussa  materia, analizzava dati ed esperienze storiche per trarne considerazioni critiche e condizioni essenziali dal punto di vista degli interessi di salariati e subalterni:

"Guardiamo la storia degli abbandoni dei regimi di cambio fisso dal 1980 ad oggi. Vedremo che i diversi modi in cui sono stati gestiti hanno determinato effetti diversi sui diversi gruppi sociali coinvolti, in particolare sui lavoratori subordinati. Per esempio, negli anni dell'aggancio al dollaro l'Argentina vide diminuire sia il potere d'acquisto dei salari sia la quota del reddito nazionale spettante ai lavoratori; ma dal 2002, dopo l'abbandono della parità col dollaro, i salari reali e la quota salari (cioè la parte di reddito nazionale spettante ai lavoratori) iniziarono una rapida ascesa. Di contro, negli anni dell'adesione allo SME a banda stretta, l'Italia registrò una crescita del potere d'acquisto dei salari e una costanza della quota salari; ma dal 1992, nei tre anni successivi all'abbandono dello SME, i salari reali subirono una riduzione di quattro punti e mezzo e la quota salari fece registrare una caduta di oltre cinque punti. In definitiva, una eventuale uscita dall'euro solleva un problema salariale, che può essere gestito in vari modi. Per questo sarebbe bene chiarire come si vuole uscire. A mio avviso sarebbe importante ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile." (1)

Il ministro dell'economia ricusato dall' "europeista" Mattarella, Paolo Savona, a proposito del piano B di uscita dalla moneta unica, suggeriva invece, sempre nel 2014, che occorreva un sostanzioso piano di ulteriori privatizzazioni per  abbattere il debito italiano. Diversamente avrebbe raggiunto livelli tali da non consentire nessuna credibile manovra di risanamento economico.

Insomma la riconquista della sovranità si attuerebbe con una manovra destinata alla smobilitazione della ricchezza collettiva.
E' presto per dire a quali logiche risponda questa improvvisa escalation conflittuale tra le diverse forze borghesi. E' presto per poter dire se si tratti di un anticipo del caso Varoufakis. Purtuttavia appare chiaro come il contrasto delle diverse formazioni politiche cerchi di polarizzare il consenso elettorale che soffre le vere contraddizioni dall'imperialismo europeo, verso scelte secondarie.

La questione primaria restano infatti le politiche liberiste e capitaliste, modi di gestione della res publica mai messe in discussione, a loro modo, da nessuna delle due parti. Il risultato principale è quello di distogliere le classi subalterne dalla costruzione della propria politica indipendente, asservendola ancora una volta a obiettivi lontani da quelli che realmente potrebbero cambiare il loro stato economico e sociale.
Il rischio, ancora una volta, di realizzare e subordinarsi all'egemonia di altri.
Con riferimento alle politiche neoliberiste di privatizzazioni, lo stesso Brancaccio rispondeva:

"non credo che altre privatizzazioni siano la soluzione. Questo è un paese con scarsa memoria, ma dovremmo ricordare tutti che la crisi del 1992 venne affrontata proprio con un massiccio piano di privatizzazioni e dismissioni all'estero, le cui dimensioni costituirono un record a livello mondiale. Oggi sappiamo che quella operazione fece molti danni: diede luogo a una riduzione del debito pubblico solo temporanea, portò ad aumenti dei prezzi in molti settori come denunciato dalla stessa Corte dei Conti, e determinò un indebolimento del sistema produttivo nazionale, che paghiamo ancora oggi. Né credo che la soluzione alla crisi risieda nei tagli alla spesa pubblica totale che Savona pure invoca. Nell'apparato statale ci sono ancora diverse sacche di spreco ma sono ancora di più i settori chiave in cui si registra una tremenda carenza di risorse, che pregiudica gli stessi obiettivi di modernizzazione della macchina statale. Del resto, nel suo complesso la spesa pubblica italiana rispetto al Pil è appena di un punto al di sopra della media europea, e al netto degli interessi si situa persino al di sotto della media" (2).

Lo stesso Brancaccio metteva in guardia da un altro pericolo: tramite l'uscita dalla moneta unica, il capitalismo nazionale ed anche internazionale potrebbe prolungare sotto altre forme le politiche neoliberiste che hanno indubbiamente portato all'impoverimento delle classi subalterne nell'era della moneta unica. Cambiare tutto, insomma, perchè non cambi niente. Sempre nell'intervista a Italia Oggi, Brancaccio sosteneva:

"Proviamo per un attimo a mettere da parte queste etichette e stiamo al merito. La crisi è stata innescata, tra le altre cose, da quelle politiche liberiste e liberoscambiste che negli anni passati hanno determinato una progressiva deregolamentazione dei mercati finanziari e dei sistemi bancari. Purtroppo, fino ad oggi non ci sono stati effettivi ripensamenti, non si è posto alcun rimedio agli effetti deleteri di queste politiche. Il mio timore, dunque, è che si stia facendo largo una strategia di gestione della crisi europea che personalmente ho definito "gattopardesca", e che consiste nell'obiettivo di cambiare tutto, magari anche la moneta unica, pur di non cambiare praticamente nulla, cioè pur di non mettere in discussione le politiche degli anni passati. In questa strategia gattopardesca rientra pure l'idea secondo cui per uscire dalla crisi basterebbe abbandonare l'euro e affidarsi alle libere fluttuazioni delle monete sul mercato dei cambi. Questo modo di affrontare la crisi è sbagliato, perché si affida ancora una volta al mantra del mercato, avvantaggia la speculazione finanziaria, rischia di favorire una svendita degli istituti bancari nazionali e può deprimere ulteriormente il potere d'acquisto dei salari. Ecco perché molti economisti suggeriscono una modalità alternativa di gestione della crisi dell'eurozona, che dovrebbe tra l'altro consistere nel ripristino dei controlli alle acquisizioni estere e ai movimenti internazionali di capitale: ossia, nella messa in discussione non solo della moneta unica ma anche del mercato unico, e dell'assetto complessivo dell'Unione europea. Insomma, l'euro è senza dubbio parte del problema, ma le scorciatoie non esistono: se non sottoponiamo a una critica più generale le politiche liberiste degli anni passati, dalla crisi non usciremo". (3)

Tracce di questa politica liberista sono presenti anche nell'abborracciato contratto di governo stilato tra Lega e Movimento Cinque Stelle. Prendiamo l'associazione tra "reddito di cittadinanza" e "flat tax". Quello che viene chiamato reddito di cittadinanza è in realtà un sussidio di disoccupazione, inteso a coprire l'inattività a seguito di licenziamento o non occupazione. Tralasciando per un attimo il meccanismo dell'erogazione del sussidio,  la sua associazione con la flat tax che diminuisce il carico fiscale alle fasce ricche della popolazione, fa sì che il carico fiscale per tale manovra viene sostenuto per la maggior parte dalle fasce dei lavoratori. Insomma, i lavoratori finanzierebbero con le loro risorse la libertà di licenziare degli imprenditori, ciò senza alcun meccanismo di compensazione della perdita di valore reale dei loro salari.

Associando tali caratteristiche ad una massiccia campagna di privatizzazione e di taglio della pubblica spesa, avremmo come risultato una politica economica sostanzialmente di stampo thatcheriano. Il risultato che ne vien fuori per le classi subalterne sarebbe un ulteriore indebolimento delle loro condizioni economiche generali, a fronte di un sussidio che le fraziona nei suoi interessi, all'interno di una guerra tra poveri opportuna per i padroni, e nel contempo le trattiene ad un livello di povertà e inagibilità politica maggiore.

Del resto, come nota giustamente Domenico Moro (4), imprese e multinazionali italiane sono sempre più attive nel fare investimenti all'estero, delocalizzando strutture produttive, aprendone di nuove in territorio estero e periferico (dove viene ormai concentrata la produzione per il miserrimo costo del lavoro, sul quale i paesi avanzati non possono competere). Ciò è avvenuto ed avviene nonostante le ripetute diminuzioni delle imposte alle imprese, l'aumento degli incentivi, e da ultimo la liberalizzazione del licenziamento e del precariato. Questo trend è infatti attivo fin dal primo governo Prodi ed è difficile pensare che con la flat tax le multinazionali italiani tornino a preferire l'Italia al Bangla Desh, alla Turchia o al Marocco. Nè il sussidio di disoccupazione del reddito di cittadinanza può invertire il trend finanziando ulteriormente la precarietà e la libertà di licenziare coi soldi dei lavoratori. Se gli impianti non ci sono, non c'è nemmeno il lavoro. Nè le favole sempre raccontate su turismo e servizi (il boom del turismo italiano nel 2017 non arriva neanche intorno al 12% del PIL possono creare un'alternativa alla produzione dei beni necessari che possa aspirare alla piena occupazione o quantomeno ad arginare l'aumento del tasso di disoccupazione, nè ancora ad avviare ad un lavoro che continua a non esserci.

E' pertanto evidente che lo sforzo di cambiamento deve essere diretto senza ambiguità verso l'abbandono del modo di produzione capitalistica. La collettività si salva solo con la collettività.

Una migliore distribuzione della ricchezza non arriverà mai dal mettere mano a esausti meccanismi di incentivo contro la legge di accumulazione globale del capitalismo. Essa potrà arrivare solamente abbandonandola, riportando la collettività stessa a decidere come produrre, cosa produrre, quali obiettivi avere. Non il profitto, non la concentrazione del surplus nelle mani di sempre più pochi capitalisti, ma l'eliminazione dei capitalisti stessi.

Gli obiettivi della collettività sono la piena occupazione, la vita dignitosa, a soddisfazione dei bisogni, il rispetto delle risorse ambientali e dell'ecosistema. Tali obiettivi possono realizzarsi solo tramite un sistema pianificato di produzione, gestito dai lavoratori, i quali sono gli unici veri produttori della ricchezza.

E' giusto astenersi dal criticare prima che le persone agiscano. Ma un progetto di governo, così come i suoi protagonisti, sono stati comunque presentati e scelti secondo una ben definita direzione. E in questa direzione, a tutto voler concedere, la questione della riconquista della sovranità economica può non essere per nulla salvifica per le fasce subalterne, se una parte del potere politico non viene posto nelle mani dei lavoratori.
Questione importantissima questa, la quale rimanda al controllo delle alleanze sociali e delle alleanze politiche, al fine di evitare che le classi subalterne fungano ancora una volta da "supporto elettorale" per i fini di chi le vuole sfruttare.

Qualsiasi cosa avvenga e comunque si presentino i nuovi competitori elettorali dopo l'impasse prodotto dal "gran rifiuto" di Mattarella, la riflessione di chi si sente sfruttato deve avere di fronte principalmente i propri interessi, siano essi "costituzionali" o considerati "incostituzionali", interessi indipendenti da quelle categorie sociali che sono incorporate stabilmente nell'attuale modo di produzione, perchè spesso la catena che lega la periferia al centro non si spezza fabbricandone altre.

L'indipendenza delle forze politiche autorganizzate di lavoratori, l'esercizio futuro di un diritto di sciopero quale guerra senza quartiere ad ogni sfruttatore potrebbe invece essere il dato fondamentale per costruire un vero ed efficace antagonismo politico.

Non esiste infatti Stato o governo imparziale, che faccia l'arbitro di composizione delle classi.
Esiste uno Stato delle classi dominanti, esistono i loro interessi inoculati in diverse maniere nel funzionamento dello Stato, per tanto o poco sovrano che sia.

Ne deriva, per gli sfruttati, un bisogno assoluto di indipendenza della propria condotta politica: le classi subalterne devono organizzare la propria difesa per conto loro, altrimenti rischiano di rimanere o divenire  i "diversamente liberi" di un capitalismo più o meno avanzato.

Proprio perchè Paolo Savona - che certo non è Giavazzi - non è nemmeno Emiliano Brancaccio.

Ancora una volta - le vicende greche lo hanno insegnato -  libertà ed autonomia dell'azione politica sono garanzia di efficace lotta contro l'asservimento, ma è sono anche la migliore assicurazione contro truffe e gattopardi vari.

Note: 

1) Intervista a Emiliano Brancaccio di Alessandro d'Amato, "Vi spego come uscire dall'Euro da sinistra", su Giornalettismo.com, 13.1.2014.

2) Intervista a Emiliano Brancaccio di Giovanni Bucchi, "Euro: attenti ai gattopardi", 12.2.2014, Italia oggi

3) op. cit. nota 2.

4) Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, cap. 4 p. 121 e ss., in particolare p. 154, ove si cita l'esempio dell'espansione in Tunisia della manifattura italiana. Il flusso di investimenti italiani diretti all'estero (IDE) verso la Tunisia aumenta da 78,7 milioni di Euro nel 2006 a 155,6 del 2012. L'Italia vanta oltretutto il maggior numero di imprese aperte in Tunisia (747) subito dopo la Francia (1269) ex metropoli. Delle 747 imprese tricolori 570 sono manifatturiere. Di particolare interesse è il fatto che queste imprese siano del tipo "totalmente esportatrici", vale a dire destinano la produzione non al mercato domestico italiano ma quasi esclusivamente all'export. Gli investimenti italianio sono più grandi nei settori a forte intensità di lavoro e bassa tecnologia.


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