www.resistenze.org - osservatorio - lotta per la pace - 11-02-03

tratto da l’Ernesto nov/dic 2001 – www.lernesto.it

 

Lotta e unità contro la guerra

Come e con chi ricostruire un movimento mondiale della pace, “che sappia concentrare le forze contro i settori più aggressivi dell’imperialismo, soprattutto americano, che puntano al peggio”

 

di Sergio Ricaldone

Già membro del Consiglio mondiale per la pace

 

 

La marcia Perugia-Assisi a settembre e i 150 mila di Roma a novembre sono stati due momenti importanti, che hanno riportato in piazza e in video un movimento di protesta contro la guerra ed hanno reso potenzialmente possibile l‘avvio di un processo di ricomposizione di una massa critica che ricominci a pesare e a dare qualche grattacapo allo schieramento guerrafondaio titolare – ahime! – del 90% dei seggi in Parlamento. Ma si tratta pur sempre di iniziative minoritarie che riescono appena a lambire quel 50% di italiani che, secondo i sondaggi, sarebbero invece contrari alla guerra infinita. Sebbene encomiabili, queste iniziative non riescono a rompere l‘assedio ideologico e mediatico che, oltre a mitizzare come sacra missione di civilta la guerra al terrorismo, fa apparire il pacifismo di oggi come un corpo estraneo e antipatriottico o, nel migliore dei casi, come un prodotto collaterale del movimento no global e dei socialforum, e perciò subalterno di quella cultura e delle sue forme di organizzazione e di protesta radical-antagoniste. Proseguendo su questa linea, sarà difficile sfondare la cintura dell'assedio, penetrare nella società, imporre una inversione di rotta significativa alla deriva militar-imperialista e ridare alla nozione di pace il suo valore prioritario sancito dalla Costituzione che la destra vuole stravolgere.
Se da un lato è fuori discussione il valore eccezionale che il movimento rappresenta dopo Genova, quale soggetto della ripresa delle lotte contro il massacro sociale e gli effetti disastrosi della globalizzazione capitalista, è vero anche che la eclettica mobilità dei soggetti che lo compongono e le incaute previsioni di chi lo considera un treno in partenza per un prossimo sbocco rivoluzionario su scala mondiale, lo rendono un soggetto non sufficiente (è il meno che si possa dire) a cogliere e rappresentare le infinite sfumature dell‘arcobaleno pacifista, ciascuna delle quali rappresenta un modo originale di concepire la pace ed una scala di valori sociali, politici, ideali e religiosi di non facile assemblaggio.

Come e con chi costruire un movimento pacifista mondiale

Si tratta ora di passare dalla fase degli incontri nazionali di massa, che obbligano migliaia di compagni a frequenti e faticose trasferte ferroviarie da una città all‘altra, a quella ben più difficile, ma necessaria, di un impegno molecolare diffuso nel territorio, nella fabbrica e nella scuola, per tentare di trasmettere all‘amico, al collega, al parente prossimo un messaggio diverso da quello della guerra e per chiedergli una firma per la pace. Il che presuppone il confronto e la ricerca capillare di interlocutori anche tra chi non mostra alcuna intenzione di aderire ai socialforum. 
L‘impegno prioritario dei comunisti è perciò quello di contribuire alla costruzione di una leadership nazionale, europea e planetaria che sappia raccogliere adesioni di ampiezza e di valore universale attorno ad un appello che possa unire i popoli di Porto Alegre con i popoli di Durban per costruire un fronte mondiale di protesta e di opposizione contro l‘escalation della guerra: dal Giappone al Sud Africa, dall‘India alla Russia, dalla Cina all‘America Latina, dagli Usa all‘Africa, dalla Palestina all‘Europa. Senza chiedere tutto a tutti, senza misurare il tasso di radicalismo a nessuno e senza rotture definitive verso chi sta fuori dai socialforum. Sappiamo che la sinistra europea ex comunista, socialista, socialdemocratica e rosso verde, è confluita con diverse motivazioni nell‘alveo della guerra globale di Bush. Ma potrebbe essere un fenomeno congiunturale, una patologia senza dubbio grave e di non breve durata, ma reversibile. I milioni di persone che votano questi partiti e quelli inquadrati nei grandi sindacati di massa sono un bacino di forze potenzialmente contrarie alla guerra che non vanno regalate alla destra guerrafondaia e forcaiola. Né vanno dimenticati, in quanto soggetti da sempre schierati in difesa della pace, i grandi partiti comunisti risorti dalle macerie dei paesi dell‘Est (europei a pieno titolo) il cui consenso popolare oggi in Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Repubblica Ceca, varia dal 20 al 52% dei voti e la cui politica è rivolta a contrastare la svendita dei rispettivi paesi al dominio imperialista ed il loro arruolamento nelle file della Nato.

La lotta per la pace, nozione fondativa del movimento comunista

Forse sarebbe meglio vincere per un attimo l‘ansia della cosiddetta “innovazione“ (che spesso è sinonimo di revisionismo autodistruttivo) e riflettere sul come e perché l‘Europa, che è stata per secoli teatro di guerre sanguinose e devastanti (di cui due mondiali), abbia potuto vivere in pace, o meglio abbia saputo evitare la guerra, per circa cinquant‘anni. Mai c‘è stato un periodo così lungo di pace nella sua storia moderna. E forse sarebbe bene indagare su cosa c‘entri con questo il movimento comunista del XX secolo: c‘è qualche lezione utile da trarre oppure è tutto da buttare? 
Vale la pena di riparlarne. 
Fallito il primo tentativo dei governi di Londra e Parigi di dirottare, dopo la firma del patto di Monaco, nel 1938, le panzer-divisionen hitleriane contro l‘Unione Sovietica, chiudendo a spese della Germania nazista i conti aperti con il comunismo, ecco rispuntare nel 1948 la prepotente volontà della nuova coalizione imperialista a schiacciante superiorità americana, decisa a risolvere una volta per tutte, con ogni mezzo, inclusa la guerra, la storica contraddizione aperta dalla Rivoluzione d‘Ottobre. Rivoluzione proclamata e vinta in nome della pace, che segna l‘atto di nascita del movimento comunista mondiale che poi continuerà, nei decenni successivi, a considerare la nozione di guerra inscindibile da quella di imperialismo e la lotta per la pace la prima delle scelte costitutive della propria missione storica. Non è un caso se, con l‘inizio della guerra fredda, la lotta per la pace sia diventata l‘impegno prioritario del movimento comunista in Occidente. Il nazifascismo era stato sconfitto, ma l‘imperialismo americano era più forte che mai e i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, di chiaro segno antisovietico, alimentavano la tentazione imperialista di replicare lo scenario apocalittico a Mosca e Leningrado.

Mezzo secolo di lotte contro la Nato

La nascita del Patto Atlantico nel 1949, cui gli Stati Uniti portavano in dote una cinquantina di ordigni nucleari (contro lo zero temporaneo dell‘Urss), non lasciava dubbi sulle intenzioni della Nato. Le motivazioni allora usate in Occidente riproponevano alcune delle basilari ispirazioni della propaganda hitleriana: il “pericolo comunista“ e la “minaccia bolscevica“. 
Il “contenimento del comunismo all‘interno“, e la “difesa dei valori della democrazia occidentale ed europea“ facevano da sfondo alla nascente alleanza. Come “baluardo della democrazia“, insieme al Portogallo fascista di Salazar, fu ammessa nella Nato la Grecia dominata dal generale fascista Papagos e la Turchia dominata dal dittatore Menderes. E, per eccesso di coerenza democratica, gli americani iniziarono anche periodiche manovre militari congiunte con le truppe spagnole del dittatore fascista Francisco Franco.
Difficile credere che quello fosse un sistema difensivo contro un aggressione esterna, assai improbabile da parte dell‘Urss, paese devastato e stremato dalle terribili distruzioni dell‘invasione hitleriana. La Nato era semmai finalizzata in prima battuta a restaurare la piena autorità politica ed economica del grande capitale industriale e finanziario, nonché la sua egemonia ideale e culturale, usciti fortemente indeboliti, specie in Italia, a causa dell‘aperto sostegno fornito ai regimi nazifascisti prima e durante la seconda guerra mondiale. Si trattava di por fine alla grande paura e di ridare tranquillità e fiducia alle vecchie classi dominanti, ristabilendo le gerarchie dei poteri e del comando nelle fabbriche, nella società e nelle istituzioni. 
Non è un caso se tra i potenziali nemici sui quali far incombere la presenza della forza militare nordatlantica (e quello di stutture eversive come Gladio) ci fossero in quegli anni (lontani nel tempo, ma assai vicini con le loro replicanti dinamiche politiche) il movimento operaio e i comunisti, il sindacato di classe e le forze democratiche e progressiste. Ed anche allora ci fu chi propose di processare per intelligenza col nemico i leaders più prestigiosi di quella grande battaglia democratica, a cominciare da Togliatti, Nenni e Calamandrei.
Anche la fine del monopolio nucleare degli Stati Uniti non aveva attenuato la spinta aggressiva della Nato. La minaccia di usare la bomba atomica contro l‘Unione Sovietica fu in realtà un pericolo reale enorme e ci volle tutta la fermezza del governo sovietico per non cedere a questa minaccia. Non è privo di interesse ricordare che lo stesso Bertrand Russel, nel 1960, partecipando ad una tavola rotonda sulle questioni nucleari con la signora Eleonora Roosvelt, fu scandalizzato nell‘ascoltare la moglie del defunto Presidente americano che affermava di preferire che la razza umana andasse distrutta piuttosto che immaginarla “preda del comunismo“. Insomma, se per Russel poteva anche essere accettabile lo slogan provocatorio “meglio rossi che morti“, va ricordato anche chi gli ribatteva con furore polemico “meglio morti che rossi“.

Il nesso inscindibile tra lotta per la pace, movimenti di liberazione e progresso sociale.

Un analisi non velleitaria dei rapporti di forza tra i due campi contrapposti, imperialista e socialista, imponevano al movimento comunista operante in questa parte del mondo di avvertire l‘incombente pericolo che lo scontro politico-militare latente sfociasse in una terza guerra mondiale, che per il suo carattere nucleare non avrebbe lasciato né vinti né vincitori. Quella analisi era ovviamente carica di implicazioni tattiche e strategiche per i partiti comunisti operanti nell‘epicentro della guerra fredda, l‘Europa: la coesistenza pacifica tra i due sistemi e l‘autocontenimento (transitorio) della rivoluzione in Occidente veniva assunta come linea prioritaria dal movimento operaio e comunista. Non c‘è dubbio che il Pci e Togliatti furono tra gli artefici convinti di quella scelta, che però non significava rinuncia alla lotta di classe per il progresso sociale e politico, né tanto meno rinuncia al sostegno delle rivoluzioni anticoloniali e dei movimenti di liberazione del terzo mondo. Per una singolare coincidenza, l‘Unità del 21 aprile 1949 annunciava con un titolo su nove colonne in prima pagina la solenne apertura a Parigi, da parte di Joliot-Curie e di Pietro Nenni, del Congresso mondiale dei popoli che univa seicento milioni di donne e di uomini nella difesa della pace, mentre a fondo pagina un dispaccio dell‘agenzia Reuter informava che l‘Armata popolare cinese era giunta a soli dieci chilometri da Nanchino ,mentre altre colonne stavano dilagando verso sud. Forse anche allora si sarebbe potuto dire, non a sproposito, che nulla sarebbe stato più come prima.

Anni 50: il movimento della pace si oppone alla catastrofe nucleare

Il formarsi di una leadership pacifista mondiale di grande prestigio in rappresentanza di settantadue paesi permise al movimento della pace di tallonare e ostacolare in molti modi la messa a punto della macchina bellica imperialista. I portuali francesi della costa atlantica, quelli di Amburgo, di Genova, Napoli, Ancona si rifiutarono di scaricare le navi cariche di armi americane. Conferenze internazionali a Parigi, Londra, Varsavia, Washington, riunirono migliaia di rappresentanti di organizzazioni politiche, sindacali, religiose. Le firme più prestigiose della cultura, del cinema, delle arti, della letteratura scesero in campo: Pablo Picasso (autore del logo più celebre del secolo), Renato Guttuso, Salvatore Quasimodo, Louis Aragon, Paul Robeson, Jorge Amado, Pablo Neruda, Ilja Ehremburg e tantissimi altri si impegnarono in prima persona. In pieno clima maccartista il movimento si fece sentire con forza anche negli Stati Uniti: nell‘aprile del 1949, trecento scienziati, uomini di cultura americani ed esponenti della chiesa protestante di trentatre stati, scrissero una lettera al Presidente Truman invitandolo ad iniziare negoziati pacifici con l‘Urss. A Milano, nel giugno 1949, il secondo congresso mondiale dei Sindacati invitò le organizzazioni affiliate a prendere parte attiva al movimento dei partigiani della pace. Ma il più grande risultato di quella campagna fu la raccolta delle firme sotto l‘appello di Stoccolma, che chiedeva la messa al bando delle armi atomiche. Più di otto milioni di firme furono raccolte in Italia, sette milioni in Francia, centinaia di milioni nel mondo. I comunisti italiani furono gli animatori di quel movimento e i giovani della Fgci la loro prima linea. Massacrati dai celerini, arrestati a decine e detenuti senza processo, continuarono per mesi ad occupare le piazze, a presentarsi davanti alle fabbriche e alle scuole per offrire un volantino, per discutere, per chiedere una firma per la pace. Imparammo sulla nostra pelle che la pace e l‘impegno antimperialista era la sola via per consentire al movimento operaio di riprendere la sua marcia in avanti. E i frutti di quell‘impegno furono la grande ripresa del conflitto sociale negli anni sessanta e le conquiste che ne seguirono.

I comunisti e le guerre del ventunesimo secolo

Molte cose sono cambiate da allora e nessuno è così cieco e sordo da non essersene accorto. Ma il punto non è quello di riproporre schemi ed esperienze superate da decenni, ma di domandarci se i bilanci storici siano da intendersi come parentesi da archiviare nel museo degli orrori, oppure un momento di riflessione e di ispirazione da cui trarre utili insegnamenti per il presente ed il futuro.
Ci sembrano perciò più che pertinenti le proposte contenute nell’emendamento sostitutivo delle tesi 14 e 15 del Documento congressuale di maggioranza del Prc: “il pericolo di una guerra globale del ventunesimo secolo (…) ripropone l‘imperativo non più rinviabile della costruzione di un nuovo movimento mondiale della pace, che comprenda forze politiche e sociali, sindacali e religiose, popoli e governi di ogni continente. (…) Vi è quì un compito primario per i comunisti, per tutte le forze rivoluzionarie antagoniste e anticapitaliste del mondo, che - nel rispetto delle diversità e dell‘autonomia di ognuno – debbono rafforzare solidarietà e impegno comune, superando chiusure nazionali e tentativi artificiosi di divisione, di fronte a gravi minacce alla pace e a fondamentali libertà democratiche. Sapendo che la lotta contro la guerra impone la costruzione di uno schieramento mondiale il più largo possibile, che sappia concentrare le forze contro i settori più aggressivi dell‘imperialismo, soprattutto americano, che puntano al peggio“.
Il lavoro da fare è ovviamente enorme. Ma non esistono scorciatoie né supplenze da delegare ad altri. 
Il soggetto animatore e trainante della lotta per la pace non può che essere un Partito comunista. Rifondato e moderno anche, ma comunista.