www.resistenze.org - osservatorio - lotta per la pace - 26-04-04

Scenari di Guerra, Orizzonti di Pace:

ricognizione di fase per una mobilitazione antimperialista

Gianmarco Pisa

Premessa

Quello che state per leggere è un lungo e corposo articolo, presentato inizialmente come documento politico durante i lavori dell’Assemblea nazionale dei Giovani Comunisti, tenutasi a Genova, al centro sociale “La Buridda”, tra il 16 e il 18 aprile scorsi. Essa è stata illustrata dal suo estensore, Responsabile per le Questioni Internazionali dei GC della Campania e ha raccolto il consenso, intorno ai temi posti e alle parole d’ordine rilanciate, da parte di un vasto schieramento interno ai GC, quello dei “Giovani E Comunisti”, facente capo alla rivista dell’Ernesto, alla quale va il ringraziamento dell’Autore per il prezioso contributo di documentazione fornito.

Per tutti questi motivi, e in primo luogo perché raccoglie una specie di elaborazione collettiva, maturata in più occasioni di approfondimento e di riflessione tra i compagni, e non solo, il testo può essere considerato anche una sorta di lavoro collettivo, a metà strada tra l’articolo (veste nella quale è presentato qui) e la piattaforma, una specie di programma di mobilitazione generale e di massa per la pace, a  sostegno della lotta antimperialista e della resistenza popolare irachena e palestinese, in primo luogo, del quale, tuttavia, come ovvio, l’Autore si assume pienamente la responsabilità.

In tempi di guerra imperialista “permanente” e “preventiva” si smaschera compiutamente il disegno eversivo delle classi dominanti al potere negli USA e in tutti gli Stati capitalistici avanzati: l’impossibilità di governare la crisi strutturale del capitalismo con i tradizionali strumenti dell’egemonia e del consenso impone la scelta della guerra, che stende i suoi sinistri e cupi bagliori sui destini dell’umanità. Strettamente connaturata al modo d’essere della macchina produttiva capitalistica, vincolata alle logiche della valorizzazione e del tutto interna alle scelte politiche di ristrette e separate elite dominanti, la guerra si rivela, finalmente, per quello che è: non più semplicemente, “la continuazione della politica con altri mezzi” (von Clausewitz), bensì essa stessa politica, opzione politica di controllo e di dominio.
Una ragione in più per comprendere che l’unica speranza di pace risiede oggi nella lotta contro l’imperialismo e per il socialismo: se “un altro mondo è possibile”, esso sarà socialista o non sarà.


Per una mobilitazione generale e di massa contro la guerra

La straordinaria giornata del 20 marzo ha visto il ritorno sulla scena politica del grande movimento generale di lotta contro la guerra e per il diritto di autodeterminazione dei popoli. 
Convocata dal movimento contro la guerra degli Stati Uniti e rilanciata prima dal Forum sociale europeo di Parigi, quindi, su scala mondiale, dal Forum sociale di Mumbai, essa ha costituito, per l’evidente successo politico e la straordinaria partecipazione che la hanno caratterizzata, un momento fondamentale di maturazione della coscienza di pace dei popoli del mondo.
Ovunque, nelle strade e nelle piazze di centinaia di capitali mondiali, il movimento contro la guerra ha riportato con forza all’ordine del giorno dell’agenda politica i temi propri della battaglia antimperialista:

- il ripudio della guerra come strumento per dirimere le controversie internazionali;
- l’intangibilità del diritto di autodeterminazione dei popoli e dei movimenti di liberazione e di resistenza contro tutte le occupazioni militari;
- la fine dell’occupazione dell’Iraq e il diritto del popolo palestinese alla libertà, alla sovranità e all’indipendenza nazionale.

Nelle parole d’ordine e nella piattaforma politica che hanno scandito la giornata mondiale contro la guerra sono risultati chiari il ripudio del terrorismo come pratica di esclusione e di separazione violenta, lontana dalle masse, tale da respingere  qualsivoglia dinamica di partecipazione democratica e popolare, e la rivendicazione della resistenza dei popoli palestinese e iracheno, oltre a tutti gli altri movimenti pacifici ed armati di liberazione dal giogo colonialista e imperialista che attraversano i quattro angoli del pianeta, dall’America Latina, all’Asia Orientale.

Contro gli apologeti dell’ordine unico della globalizzazione e dell’Impero e contro le mistificazioni della presunta spirale guerra-terrorismo, i settori più avanzati della galassia antagonista e le diverse soggettività rivoluzionarie hanno con forza fatta propria la lezione del movimento spagnolo, che ha saputo creare egemonia sociale intorno ai propri temi e alle proprie rivendicazioni, ha denunciato l’illegittimità nella conduzione della guerra contro l’Iraq e le mistificazioni delle “bugie di guerra” dei governi aggressori, ha risposto alla violenza del terrorismo con una massiccia partecipazione democratica al voto che ha chiuso l’esperienza di governo di Aznar.

Su questo punto è necessario essere chiari: a quanti accusano il popolo spagnolo di immaturità democratica e di aver subito il ricatto terroristico, è necessario replicare che la guerra delle borghesie imperialiste al soldo dell’Amministrazione degli Stati Uniti, non solo provoca devastazione, distruzione e morte, ma contribuisce ad alimentare il terrorismo perché acuisce le incomprensioni e le ostilità da parte delle masse popolari arabe e musulmane, che giustamente percepiscono l’aggressione armata ai loro Paesi e ai loro territori come uno “scontro di civiltà”, una moderna forma di “crociata”.

Anziché erodere alle fondamenta i presupposti del terrorismo, indagarne le cause, combattere le disuguaglianze e favorire il progresso e la giustizia sociale presso Paesi e popoli del Sud del mondo, la guerra alimenta sempre nuovi conflitti e devastazioni, di fronte ai quali la resistenza all’occupazione e all’espropriazione del proprio futuro e delle proprie speranze è un diritto, e come tale va rivendicata e sostenuta.


La lezione del Forum Sociale Mondiale di Mumbai

Non casualmente, all’apertura dei lavori del Forum sociale mondiale di Mumbai, Arundhati Roy ha dichiarato: “Noi non dobbiamo solo sostenere la resistenza irachena. Dobbiamo essere la resistenza irachena”.

La grandissima partecipazione popolare, l’ingresso da protagonista del movimento asiatico, la forte caratterizzazione politica delle giornate del forum, in cui egemoni sono risultate le posizioni anticapitaliste, anticolonialiste ed antimperialiste, grazie soprattutto alla considerevole presenza di movimenti di lotta e di liberazione nazionale e al contesto in cui si sono svolti i lavori del forum, nella realtà indiana segnata dalla discriminazione di casta e di ceto ed attraversata dalle mille contraddizioni dello “sviluppo ineguale” (S. Amin), hanno rappresentato una svolta significativa nella caratterizzazione politica dei forum sociali, istruendo un percorso che chiama tutte le sensibilità del movimento a un forte investimento politico.

Mumbai ha significato per noi la possibilità di una maturazione più consapevole e diffusa intorno ai problemi del Sud del mondo e al ruolo delle metropoli capitalistiche, guidate dagli Stati Uniti d’America, nel condizionarne lo sviluppo e inibirne i processi di emancipazione sociale.
L’ultimo Social Forum ci consente quindi di andare ancora oltre il pur ricco e proficuo “rapporto speciale” tra il movimento europeo e quello in America Latina, allarga lo scenario all’intera dimensione mondiale e indica una modalità nuova nella quale declinare e vivere le nostra solidarietà internazionalista, come pratica politica tra i soggetti rivoluzionari basata sulla consapevolezza e il riconoscimento reciproco, in un processo di mutua e orizzontale relazione, in grado di porre fine a qualsivoglia rigurgito di “euro-centrismo”.

All’interno di questo quadro va collocata la forte ripresa del movimento generale contro la guerra: la sua forza su scala mondiale, la sua capacità di istruire forme nuove e convincenti di egemonia nelle società occidentali e nel Sud del mondo, unita alla capacità dei popoli in lotta (a partire, oggi, da quello iracheno e da quello palestinese, passando per le resistenze antimperialiste dell’America Latina e dell’Asia) di fronteggiare e resistere all’occupazione e al ricatto militare, costituiscono senza dubbio gli elementi di più forte maturazione della coscienza di pace dei popoli, il terreno di maturazione del conflitto e la possibilità, oggi dispiegata su scala mondiale, di opporsi con successo al progetto di guerra “permanente e preventiva” di George Bush junior.


La nostra opposizione alla guerra

Coltivato ben prima dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle dell’11 settembre, il progetto di dominio mondiale degli Stati Uniti d’America si declina oggi in una politica di guerra imperialista volta alla definizione di un “Nuovo Ordine Mondiale”, una sorta di incondizionato dominio su scala globale.

Sin dalla prima guerra del Golfo, passando attraverso le innumerevoli guerre in Serbia, Sudan, Afghanistan, per concludere con l’attuale occupazione dell’Iraq, la forza militare degli USA dispiega la sua potenza distruttiva ai quattro angoli del pianeta, perseguendo i propri interessi in spregio del diritto dei popoli all’autodeterminazione e agli istituti del diritto internazionale, con il fine di garantirsi la supremazia mondiale contro tutti i possibili futuri competitori, Russia, India, Cina, Brasile in testa.

Giustificata pretestuosamente con la necessità di impedire all’Iraq l’utilizzo di armi di distruzione di massa mai trovate e di sconfiggere il terrorismo internazionale, la guerra ha palesemente fallito i suoi obiettivi: Bush è oggi sotto inchiesta del Congresso USA per le stesse bugie di guerra che sono costate ad Aznar il successo alle elezioni politiche (dove era candidato il suo delfino, Mariano Rajoy, prodotto della peggiore destra del Partido Popular, erede del franchismo) e il terrorismo, ben lungi dal retrocedere, ha invece incrementato il suo potenziale di distruzione, arrivando a colpire anche l’Europa.

E’ evidente che ben altre erano e restano le motivazioni della politica di guerra perseguita dagli Stati Uniti.
In primo luogo, questa guerra è figlia della crisi economica del capitalismo americano, che è oggi crisi da sovrapproduzione, tendenzialmente recessiva e incapace di risoluzione, se non viene sostenuta dall’apertura di nuovi mercati per la ricostruzione e da un forte investimento nel complesso militar-industriale.
In secondo luogo, essa, ben lungi dall’essere la “continuazione della politica con altri mezzi”, si fa di per sé “opzione politica”, funzionale a creare una nuova forma di “dominio senza egemonia” (S. Minolfi) degli USA ai quattro angoli del pianeta, in primo luogo il Medio Oriente, tradizionalmente ricco di risorse e prossimo ai più minacciosi competitori del dominio unipolare “a stelle e strisce”.

E’ questo modello di sviluppo, strettamente legato alla modalità di definizione del capitalismo nella fase attuale, a costituire, dunque, alle fondamenta, la ragione prima della guerra e il fattore più devastante di minaccia della pace e della solidarietà tra i popoli del mondo.
E’ questo modello di sviluppo a istruire la devastante spirale neoliberismo-guerra, alla quale siamo chiamati ad opporci, in primo luogo attraverso una presa di coscienza della reale natura della guerra in corso (ed evidentemente del ruolo giocato anche dal nostro Paese in quel contesto e su quello scacchiere), in secondo luogo attraverso la maturazione del conflitto sociale e di classe nelle società occidentali.


Per la cacciata dei governi di guerra

Perché la ormai celebre asserzione del “New York Times”, che vede nel movimento mondiale contro la guerra la “seconda potenza mondiale”, direttamente antagonista ai piani di guerra dell’Amministrazione Bush, possa tramutarsi effettivamente in realtà, è necessario che il movimento contro la guerra acquisisca piena e ben radicata dimensione mondiale, e che in esso si affermi l’egemonia della questione dell’anti-capitalismo, vale a dire l’opposizione alla spirale neoliberismo-guerra, l’acquisizione dei temi economici e sociali come fondamentali, la centralità del conflitto basilare della società capitalistica, quello cioè tra il capitale e il lavoro.

Far maturare una limpida consapevolezza di classe all’interno del movimento contro la guerra è indispensabile perché esso possa indagare la realtà politica e sociale a 360° e sappia farsi motore delle più diverse ed articolate battaglie politiche, a partire da quelle per la difesa della democrazia e dei diritti dei lavoratori.
Evidente, è, del resto, il nesso tra l’opzione politica della guerra e la devastazione di diritti sociali, da tempo riconosciuti e frutto di generazioni di lotte e di mobilitazioni del movimento operaio in tutto l’Occidente.

Questo non solo perché la ripresa della politica di spesa e di riarmo comporta la restrizione dei margini di spesa sociale e di politiche attive del lavoro, ma anche perché la nuova propensione militare accompagna inevitabilmente un imbarbarimento delle relazioni sociali, una diffusa sensazione di panico ed allarme sociale, che concorre ad alimentare xenofobia e razzismi, nonché una restrizione degli spazi di agibilità democratica all’interno dei Paesi investiti dalle politiche di guerra.

Lo stesso patrimonio costituito dallo “stato di diritto” liberale, figlio delle grandi rivoluzioni borghesi dei secoli passati, è oggi messo fortemente in discussione e minacciato: arresti e detenzioni arbitrarie, trattamento non consentito dei dati personali, nuove facoltà concesse agli istituti militari e di polizia segnalano la minaccia che incombe sulle democrazie occidentali e palesano il rischio di derive autoritarie ogni giorno più evidente.

Questa minaccia è presente oggi in tutti i Paesi in guerra, quelli che si sono, più o meno servilmente, accodati alle pretese dell’imperialismo statunitense: il recente risultato del voto in Spagna, con l’elezione di Zapatero all’insegna della parola d’ordine del rientro del contingente militare spagnolo dall’Iraq, rappresenta un segnale politico da non sottovalutare e un elemento importante, sebbene ancora insufficiente, della battaglia di opposizione alle destre continentali.

L’indicazione fornita dai fatti di Spagna è ancora più utile per l’Italia dove il governo reazionario delle destre di Berlusconi, in continuità con il tentativo di Aznar, punta sistematicamente alla mistificazione e alla disinformazione: tanto sul fronte esterno, dove dichiara di non partecipare ad alcuna operazione di guerra mentre invece i nostri militari in Iraq sottostanno a regole di ingaggio in formazione di combattimento e al codice penale militare di guerra; quanto sul fronte interno, dove alla dichiarata difesa dell’equilibrio costituzionale della Repubblica si accompagnano provvedimenti parlamentari (la “devoluzione”, il “premierato”, la fine del “bicameralismo perfetto”) fortemente lesivi della qualità democratica del nostro sistema istituzionale.

In questo senso, la parola d’ordine della cacciata del governo Berlusconi non può più essere soltanto uno slogan: essa presuppone un programma chiaro di lotta e di mobilitazione sul fronte sociale e sindacale e una radicalizzazione dei contenuti dell’opposizione parlamentare al Governo, da sottoporre a tutte le forze della sinistra e del centrosinistra, a partire da quelle della “sinistra alternativa”, già messa alla “prova del fuoco” della campagna referendaria per la difesa dello Statuto dei Lavoratori.

Perciò, la piena riuscita dello sciopero generale unitario, proclamato dai sindacati il 26 marzo, a ridosso della giornata mondiale contro la guerra, costituisce plasticamente un elemento di rafforzamento dell’opposizione a Berlusconi, in primo luogo sui contenuti sociali.


La lezione del 20 marzo:
per il ritiro immediato dei contingenti militari negli scenari di guerra

La piattaforma della grande giornata mondiale contro la guerra è chiara e deve diventare punto qualificante di qualunque percorso di opposizione alla guerra e di mobilitazione contro i governi di guerra:

- per il ritiro immediato dei contingenti militari da tutti gli scenari di guerra;
- per il ristabilimento della legalità internazionale attraverso una ripresa di ruolo dell’ONU (che va comunque riformata e sottratta al ricatto dei Paesi dominanti);
- per una nuova e incisiva iniziativa di pace in Medioriente, che sia in grado di difendere il diritto del popolo iracheno all’autodeterminazione e quello del popolo palestinese a vedere riconosciuta la propria piena indipendenza e sovranità sulla Palestina storica, contro il piano unilaterale omicida di Sharon.

La richiesta fatta dalle socialdemocrazie europee di attendere il 30 giugno, data sancita dalla risoluzione 1511 delle Nazioni Unite, per il ristabilimento di un percorso democratico di libere e elezioni e per il conseguente ritiro dei contingenti militari, è contraddittoria e va rifiutata perché insufficiente: essa subordina il ristabilimento di condizioni democratiche e di pace in Iraq alle compatibilità dettate dalle esigenze e dagli interessi delle potenze occupanti, inibisce il ruolo della comunità internazionale e dell’ONU, e non sana il vulnus della guerra di aggressione e della conseguente occupazione militare.

E’ necessario perciò rivendicare la presa di distanza dalla piattaforma delle sinistre moderate e fare esplodere le loro ingiustificabili contraddizioni, tra la prospettiva di pace e la subordinazione agli interessi imperialisti in campo: la critica alla posizione, ambigua e inefficace, assunta dai Ds, anche durante la manifestazione del 20 marzo,  indica chiaramente che il movimento contro la guerra è su una posizione più avanzata e tocca a noi lottare per evitare che sia risucchiato all’interno delle posizioni moderate e “governiste”.

Contro tutte le mistificazioni in corso della propaganda di guerra e per sconfiggere il progetto di nuova guerra mondiale del governo di Bush e dei suoi lacché, è necessario in primo luogo denunciare e combattere il vero terrorismo: non quello di chi difende la propria terra e il proprio diritto alla sopravvivenza (la resistenza, anche armata, è infatti protetta dal diritto internazionale e dalle convenzioni ONU), bensì quello di chi dispone di ingenti risorse ed apparati militari e li usa per falcidiare un popolo e i suoi rappresentanti politici.

In tal senso è necessario denunciare, ancora una volta, il terrorismo di Stato attuato dal governo israeliano di Sharon, con la sua politica di segregazione e decimazione fisica del popolo palestinese, attivamente perseguita con l’occupazione militare e la costruzione del muro dell’apartheid all’interno dei territori occupati, nonché con la strategia delle esecuzioni mirate, volte all’eliminazione fisica dei leader storici del movimento di liberazione palestinese: oggi Yassin e Rantisi, leader di Hamas, domani Arafat, già in pericolo di vita.

Una campagna di sensibilizzazione internazionale, contro il piano segregazionista di ritiro unilaterale da Gaza e di sottrazione della Cisgiordania alla sovranità palestinese, per la agibilità fisica e politica di Arafat, Presidente dell’ANP, e per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi, detenuti e torturati nelle carceri di guerra israeliane, è oggi necessario punto di partenza di qualsivoglia politica di rilancio del processo di pace.

Quest’ultimo, del resto, è stato affossato sistematicamente dalla politica di Sharon, che ha infatti svuotato di contenuto la Road Map e pervicacemente ignorato, forte dello scudo degli Stati Uniti, i richiami dell’ONU al rispetto della legalità internazionale: perciò è oggi più che mai necessario superare la Road Map, rivendicare il diritto dei palestinesi alla piena indipendenza e sovranità, all’insegna del principio “due popoli per due Stati”, garantire il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e vigilare sull’effettiva applicazione di una pace giusta per entrambi i popoli.

Anche alla luce di quanto sta accadendo in Iraq, con la progressiva “libanizzazione del conflitto”, è più che mai necessario considerare prioritaria l’autodeterminazione del popolo palestinese, la “madre di tutte le questioni”: per il rilancio di una solidarietà democratica e internazionalista anche sullo scenario euro-mediterraneo, in vista del Forum sociale europeo di Londra (ad ottobre) e del Forum sociale mediterraneo (che si terrà nel 2005) e per arginare la minaccia dell’islamofobia e dell’antisemitismo che periodicamente ritornano a inquinare le società occidentali.

Ecco perché al contempo rivendichiamo il ritiro immediato dei contingenti di guerra dal suolo iracheno (con il contestuale avvio di un processo politico per lo svolgimento di elezioni libere e democratiche, in grado di garantire il diritto all’autodeterminazione di quel popolo) e una nuova iniziativa di pace per la Palestina, anche mediante l’invio di un contingente di interposizione a guida ONU per la difesa del popolo palestinese dalla sistematica aggressione portata avanti dal governo Sharon, facendo appello in particolare alle coscienze democratiche e progressiste della sinistra non sionista israeliana.


L’importanza strategica dell’orizzonte europeo

La centralità della questione mediorientale e il nuovo ruolo strategico assunto dallo scacchiere euro-mediterraneo sono i motivi che giustificano l’opzione europea come opzione privilegiata e l’orizzonte europeo come orizzonte di riferimento di qualsiasi formazione politica progressista e anti-capitalista.

Da una parte, la divisione prodottasi all’interno dei Paesi forti dell’UE riguardo al sostegno della campagna imperialista degli USA, che ha visto schierarsi da un lato la Spagna di Aznar e la Gran Bretagna di Blair (oltre, ovviamente, al governo italiano e alle repubbliche ex-socialiste dell’Europa orientale) e dall’altro, sul fronte dei contrari alla guerra “americana”, la Francia e la Germania; dall’altra, l’incapacità dell’UE di manifestare un proprio protagonismo politico rispetto alla questione della pace in Medio Oriente e in Palestina (come, del resto, su molti altri terreni, come dimostrano anche le politiche assunte contro il governo di Fidel Castro a Cuba, alla quale continuiamo ad esprimere la nostra piena e convinta solidarietà), indicano chiaramente che l’Europa ha bisogno di dotarsi di una visione politica, alternativa e non “compatibile” con quella degli Stati Uniti e fortemente protesa nella direzione della pace, della democrazia e del progresso sociale.

E’ necessario, insomma, lottare per un’altra Europa: un’Europa democratica, sociale e di pace, che ripudi la guerra come strumento per dirimere le controversie internazionali, promuova politiche attive di solidarietà e di progresso sociale e sappia rappresentare un’istanza di dinamizzazione, anche grazie al ruolo attivo dei movimenti di classe e antagonisti sull’intero scenario continentale, delle politiche di pace nel mondo, contro il progetto di guerra permanente di Bush.

L’UE può infatti rappresentare un formidabile competitore agli USA e al primato del dollaro nell’economia mondiale: intanto per la sua capacità di attrattore degli investimenti e di polo degli scambi con aree del mondo non ancora integrate nell’orizzonte del libero mercato a egemonia statunitense (come per esempio la Russia e la Cina); quindi per la forza dei movimenti di lotta che la hanno attraversata in più momenti della storia recente, da Genova a Nizza, da Davos a Praga, e che possono avere la forza di condizionarne l’identità politica.

Perciò rifiutiamo l’approccio “disfattista” di chi intende liquidare la costruzione europea come un processo imperialista ormai compiuto e, pertanto, da abbattere: non ci sfuggono i limiti della costruzione europea e la direzione monopolistica di accentramento dei processi di accumulazione intorno al polo-guida franco-tedesco, né siamo sordi alle richieste dei popoli della sponda sud del Mediterraneo che invocano un cambio di rotta e un maggiore protagonismo dell’UE nei processi politici e sociali che investono quelle regioni.

Tuttavia riconosciamo nell’Europa un patrimonio di democrazia e di cultura sociale e un ruolo non passivamente subalterno all’imperialismo americano nei diversi scacchieri mondiali che danno ragione alla nostra battaglia per un’altra Europa, un’Europa sociale.

E’ all’interno di questa riflessione che si inserisce la nostra radicale contrarietà alla Bozza di Trattato istitutivo di una Costituzione europea, che non fa altro che istituzionalizzare il modello di libero mercato e l’orizzonte del neoliberismo, sancire il primato dell’ideologia del mercato e del profitto, e comprimere le potenzialità democratiche e di pace della costruzione europea, nonché la nostra politica di storiche e consolidate relazioni con i soggetti politici, espressione del movimento popolare e di classe, nei vari Paesi d’Europa.

La necessità per noi di rafforzare e consolidare i rapporti e gli scambi con le organizzazioni giovanili comuniste, contro qualsivoglia precipitazione organizzativistica o compattamento su base puramente ideologica, deve essere colta e approfondita, anche al fine di stimolare percorsi comuni di lotta e di mobilitazione su scala continentale.


Per rilanciare la costruzione del Partito della Sinistra Europea

Rappresenta un nodo politico ineludibile quello relativo alla strumentazione politica di cui intendiamo dotarci in vista del perseguimento di questo obiettivo.
Non c’è dubbio che l’UE costituisca la cornice politico-istituzionale della collocazione dei partiti della sinistra, comunista ed antagonista.

La modalità della costruzione europea e la spiccata connotazione monetaristica dei suoi istituti economico-finanziari, impongono, nella prospettiva strategica della definizione di un progetto alternativo di costruzione europea, l’unificazione delle forze della sinistra anticapitalista su base continentale, a partire dalla costruzione di coordinamenti fondati sulla parità dei singoli aderenti e su solidi patti di unità di azione.

In tal senso rivendichiamo in pieno la lettera e il senso della tesi 35 del documento della maggioranza congressuale di Rifondazione Comunista, in cui, appunto, si rivendica la necessità della costruzione di un coordinamento tra le forze antagoniste sull’intero scenario continentale, senza indulgere a facili schematismi, a precipitazioni organizzativistiche e a compattamenti su base ideologica.
La necessità di perseguire una strada di questo genere è, del resto, indicata anche, e in particolare, dalla qualità della battaglia politica che intendiamo produrre su scala continentale.

L’UE, infatti, si configura come fattore di compressione dei diritti sociali sanciti dalle singole legislazioni nazionali, specie nei Paesi dotati di sistemi di welfare e di diritti di cittadinanza più avanzati, nonché come un’istanza di contraddizione rispetto ad alcune normative costituzionali nazionali.
Questo è stato un fattore determinante ai fini della costituzione in polo autonomo all’interno del GUE della Sinistra Verde Nordica (NGL), animata dalla ferma volontà di tutelare i sistemi di protezione sociale nazionali messi a rischio dalle politiche comunitarie, e deve ugualmente risultare un elemento strategico del percorso di unificazione delle sinistre antagoniste su base continentale, a partire dallo stesso GUE.

Perciò sono necessari:

- il pieno coinvolgimento di tutti i partiti antagonisti europei (circa 60 formazioni politiche);
- la salvaguardia dell’unità del movimento comunista su base internazionale e pan-europea;
- il rilancio su base politica del progetto costituente che deve trovare la sua ragione ispiratrice nel comune orientamento politico rispetto alle scelte strategiche fondamentali della costruzione europea.

Ciò può essere garantito solo da una forma di consultazione permanente e da un patto di unità di azione dei diversi partiti su scala continentale, fatta salva la specificità e l’autonomia dei partiti medesimi nell’ambito nazionale.
La perplessità, sovente tradotta in termini di esplicita contrarietà, al progetto di costruzione della sinistra europea, che cova in larga parte del corpo dei Giovani Comunisti non attiene, evidentemente, alla priorità accordata all’orizzonte strategico europeo, cui, del resto, con il Patto di Stabilità e le politiche di Maastricht e Schengen, vanno ricondotti alcuni dei più regressivi provvedimenti assunti dai governi nazionali (basti pensare alle politiche, repressive e discriminatrici, ai danni dei migranti); riguarda piuttosto le modalità non democratiche e precipitate con cui è stato istruito un percorso politico, dai più recepito come passivizzante ed escludente.

Qualsivoglia soggetto politico di classe, in Europa, non può, infine, mancare di recepire, tra le proprie priorità, quella della lotta per la libertà di espressione e per l’agibilità democratica del conflitto.
L’UE, infatti, costituisce una fattore di repressione delle istanze antagoniste emergenti su scala continentale.
La messa fuorilegge di alcuni partiti comunisti dei Paesi baltici, protagonisti del prossimo allargamento dell’Unione a 25, e la persistenza di legislazioni nazionali fortemente discriminatici e repressive nei riguardi dei partiti comunisti (al punto da configurare aperte violazioni dei diritti umani e della libertà di espressione) tuttora vigenti in Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia, non vengono ritenute motivo ostativo rispetto all’adesione di quei Paesi all’UE, e anzi vengono giudicate conformi ai principi di tutela della legittimità democratica e di difesa dei diritti umani, condizioni imprescindibili ai fini dell’accettazione della richiesta di adesione.

Secondo una dichiarazione ufficiale del Presidente della Commissione europea, Romano Prodi, la messa al bando del partito comunista in un Paese in procinto di aderire all’Unione non può rappresentare comunque causa di particolare dibattito nell’ambito dei criteri politici sanciti dal vertice di Copenhagen del 12-13 dicembre 2002, che ha avviato l’allargamento dell’Ue a 25.
Ciò rende ancora più urgente il recupero, su basi di solidarietà internazionalista e di cooperazione rafforzata tra tutti i partiti della sinistra anticapitalista europea, di una istanza organizzativa comune, unitaria e non escludente.

Questo non può non comportare una rivisitazione sostanziale del percorso scelto e delle modalità adottate nella costruzione della Sinistra europea, in primo luogo recependo un’indicazione fondamentale: quella di non concludere il percorso costituente l’8-9 maggio, in occasione dell’assise di Roma, bensì di trasformare quell’occasione in una convenzione generale (gli Stati Generali della Sinistra europea) con la quale rilanciare l’interlocuzione con i soggetti politici finora esclusi e riaprire, su basi più democratiche e partecipate, l’iter congressuale.

Gli Stati Generali della Sinistra europea dovrebbero interrogarsi circa le modalità più opportune della costruzione della sinistra europea: non va dimenticato, infatti, che, in virtù dei regolamenti comunitari approvati, circa il finanziamento e la ammissione dei partiti politici su scala UE, questi ultimi vengono sottoposti a una sorta di verifica di legittimità da parte delle istituzioni comunitarie.
Essi devono cioè risultare compatibili con i principi dello stato di diritto e del libero mercato; ove ciò non fosse verificato, lo Statuto del partito verrebbe radiato dall’elenco di quelli autorizzati ad operare su scala UE e i finanziamenti verrebbero tagliati.

Molto più lungimirante, oltre che privo di rischi di compatibilità e contaminazioni borghesi ben poco desiderabili, sarebbe riconsiderare l’opzione della costruzione di un partito, sostituendo ad essa l’idea di un coordinamento strutturato e permanente, a partire dal GUE, peraltro esistente non solo in ambito di Parlamento europeo, ma anche all’interno del Consiglio europeo, e come tale comprendente anche soggetti politici comunisti e antagonisti dell’Est europeo e, tra gli altri, della Russia.
Il che andrebbe evidentemente nella direzione auspicata dal movimento di classe in Italia come in Europa e costituirebbe un potente fattore di rilancio di una nostra indicazione strategica: quella della costruzione della Sinistra di alternativa, per il rilancio del processo rivoluzionario, in Italia come in Europa.