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Il crollo dei paesi del socialismo reale (il decennio 1991-2001)


di Cristina Carpinelli

Premessa

Il processo di transizione dall’economia pianificata a quella di mercato nei Paesi dell’Europa centro-orientale e in quelli dell’ex-Unione Sovietica rappresenta un’interessante esperienza d’analisi e confronto per gli studiosi del mercato del lavoro e dei sistemi di assistenza sociale.

Più di venti Paesi, quasi simultaneamente, hanno introdotto trasformazioni radicali dell’economia e riformato i propri meccanismi di protezione sociale. Tali trasformazioni si sono dimostrate più dolorose e variegate di quanto inizialmente previsto. Tassi di disoccupazione estremamente elevati e persistenti, l’emergere di acute disuguaglianze nella distribuzione del reddito, il sensibile aumento della povertà sono fenomeni che hanno accompagnato e ancora accompagnano la transizione liberale.

Dall’esperienza delle economie in transizione si possono trarre alcune importanti considerazioni anche per i Paesi dell’Europa occidentale, Italia inclusa. La transizione liberale, infatti, può essere vista come una forma “estrema” dei processi di riforma dei sistemi di protezione sociale e del mercato del lavoro in atto nei Paesi europei.

Le politiche di trasformazione adottate nei Paesi transizionali sono state differenti. Nei Paesi dell’Europa centro-orientale si è posta maggiore attenzione alle politiche di sostegno e protezione dei disoccupati, come leva per una rapida ristrutturazione dell’economia incentrata sullo spostamento di forza lavoro dai vecchi settori statali al nuovo settore privato. L’aggiustamento dell’economia è avvenuto, dunque, attraverso la disoccupazione. Nei Paesi dell’ex-Urss (Fsu), al contrario, l’aggiustamento è avvenuto attraverso la flessibilità verso il basso dei salari.

La conclusione cui sono giunti alcuni economisti liberali è che nei Paesi dell’Europa centro-orientale i governi hanno commesso l’errore di disegnare politiche troppo generose di sostegno dei disoccupati e di trasferimenti sociali, soprattutto, senza limiti temporali. Queste politiche hanno prodotto effetti negativi sulla ripresa economica che sono, di fatto, riconducibili ad un’elevata e persistente disoccupazione e all’uscita dalla forza lavoro di una porzione troppo rilevante di popolazione, in particolare attraverso i pensionamenti anticipati. Si potrebbe, tuttavia, obiettare che nei Paesi dove il livello di sostegno e protezione dei disoccupati è stato inesistente (Paesi Fsu), la performance economica e il processo di ristrutturazione sono stati disastrosi.

Nei Paesi Fsu, i governi non hanno introdotto un sistema di protezione per coloro che dovevano abbandonare le imprese e i settori in declino. L’assenza di una “safety net” ha costituito un blocco alla ristrutturazione, dal momento che i lavoratori hanno preferito mantenere il posto di lavoro anche a salario zero, piuttosto che entrare nel “pool” dei disoccupati.

Termini di riferimento

La trasformazione che i Paesi Fsu hanno messo in atto è stata davvero drammatica. I cardini su cui poggiavano i sistemi precedenti sono stati completamente smantellati. Essi possono essere riassunti in pochi punti:
-.l’occupazione era predominante nel settore statale;
-.il reddito da lavoro insieme ai trasferimenti sociali costituiva oltre i tre quarti del reddito totale;
-.l’imposta fiscale sul reddito individuale era quasi inesistente e, pertanto, non aveva la funzione di regolazione del reddito;
-.i sussidi per minori corrispondevano al 3% del reddito lordo, tre volte il livello delle economie di mercato;
-.la distribuzione pro capite dei trasferimenti sociali era universale, vale a dire non esclusivamente diretta alle persone bisognose come nelle economie di mercato;
-.i “social benefit” erano erogati dallo stato a costi bassissimi o gratuitamente;
-.il finanziamento statale si basava sui profitti delle imprese statali e non sul gettito fiscale proveniente dal reddito individuale e dai consumi come nelle economie di mercato;
-.i salari erano distribuiti più equamente che nelle economie di mercato, con differenze, seppur non elevate, tra le retribuzioni dei lavoratori di concetto e quelli manuali. Nel complesso, poiché le imposte e i trasferimenti sociali erano sostanzialmente neutrali, l’ineguaglianza si manifestava soprattutto come ineguaglianza retributiva;
-.  sebbene i redditi medi e gli standard di vita fossero bassi, l’incidenza della povertà, per via del carattere universale dei trasferimenti sociali e della distribuzione abbastanza “egualitaria” dei salari, era relativamente bassa (tra il 5 e il 10%) rispetto agli standard internazionali, e poche erano le persone che vivevano in estrema povertà.

Attualmente, nei Paesi Fsu, i tentativi dei riformatori di creare un mercato operante nel quadro di un sistema normativo e istituzionale legale (law based economy) sono falliti, poiché il processo di transizione non ha permesso lo sviluppo graduale delle istituzioni finanziarie, politiche e giuridiche, che forniscono l’infrastruttura essenziale per una crescita economica sostenibile e per una stabilità politica.

Tale processo ha agevolato e rinforzato, in questi Paesi, la demonetizzazione, l’illegalità e la diffusione dell’economia criminale. Quest’ultima si è avvantaggiata di una strategia di “deregulation”, che non ha tenuto conto della mancanza delle istituzioni-chiave necessarie per sostenere un’economia di mercato “basata sul rispetto della legge”. Lo scioglimento dell’Urss e la rapidità con cui è stata messa in atto la riforma economica hanno condotto al collasso della vecchia infrastruttura istituzionale, prima ancora che potessero emergere nuove istituzioni. In assenza di quest’ultime, la “deregulation” e la privatizzazione hanno permesso a coloro che avevano già il controllo della finanza e del commercio di appropriarsi del sistema economico e di manipolare ed aggirare la legge. Di conseguenza, l’attività economica è in gran parte in mano ad organizzazioni che operano fuori della legge. Le politiche restrittive in campo fiscale e monetario hanno generato una diffusa demonetizzazione e la concentrazione delle risorse economiche nelle mani di un piccolo numero di potenti organizzazioni finanziarie e commerciali con forti agganci con il potere politico.

La demonetizzazione, l’illegalità e la diffusione dell’economia criminale sono stati agevolati e rinforzati non solo da politiche macroeconomiche perseguite dai governi nazionali, ma anche attraverso il sostegno di enti finanziari internazionali. Questi fenomeni hanno messo in discussione il ruolo dello stato e delle sue istituzioni. Hanno minato il processo verso uno sviluppo democratico e sono attualmente la causa principale della povertà e del fermento sociale, e rappresentano il maggiore ostacolo alla ripresa economica. Lo sviluppo di un’economia di mercato monetizzata e di una normativa giuridica complessa adatta a sostenerla e regolarla è l’obiettivo più urgente che i Paesi Fsu devono porsi. Tale sviluppo ha, infatti, uno stretto legame con la soluzione del problema della povertà, poiché l’impatto della demonetizzazione dell’economia è maggiormente avvertito da coloro che da tempo non ricevono salari, pensioni o sussidi sociali e che soffrono del collasso dell’intero sistema sociale e di welfare.

E’ importante capire che la politica monetaria restrittiva adottata in questi Paesi (la forte contrazione della liquidità), se nei primi anni della riforma economica (1992) aveva permesso di contenere il processo iperinflattivo, dal 1995 in poi ha avuto un’efficacia limitata sull’inflazione, che senza più raggiungere picchi eccezionalmente alti ha, tuttavia, proseguito a crescere. Inoltre, il costo di questa politica restrittiva, in termini di depressione delle attività, è stato esorbitante. Oltre ad avere una ricaduta negativa in termini di insolvenza delle liquidazioni (salari, pensioni, sussidi sociali, ecc.) - cui si è spesso tamponato ricorrendo a prestiti di banche private (compresa la Banca mondiale), o facendo in modo che l’impresa continuasse a fornire il necessario ai suoi dipendenti, nel quadro di un’economia non monetaria - la demonetizzazione ha sviluppato un numero crescente di relazioni economiche che avvengono al di fuori della moneta. Accanto al fenomeno ampiamente spontaneo del ritorno a forme di economia naturale (l’uso del proprio appezzamento privato di terra come forma di sostentamento), va segnalata anche la politica delle consegne obbligatorie in natura adottata dai governi di questi Paesi, il cui effetto è stata la crescita della differenziazione delle logiche economiche non solo tra i vari settori produttivi, ma anche tra le diverse regioni.

Ad esempio, nel caso dell’agricoltura, la soppressione delle sovvenzioni statali si è tradotta nell’incapacità delle fattorie collettive di recuperare i raccolti per la mancanza di carburante. Per far fronte a questa situazione, i Paesi Fsu hanno obbligato le imprese sia pubbliche sia private del settore energetico di consegnare la loro produzione anche a clienti insolvibili. Un altro esempio, proviene dall’impresa di costruzione di automobili e camion “Gaz” di Nizhnyi-Novgorod, nella Repubblica russa, che ha adottato dei sistemi di noleggio di camion a fattorie che ne avevano assoluto bisogno, ma che non potevano sostenere il costo dell’acquisto. Come garanzia di tali noleggi, poiché dopo tutto la produzione delle fattorie collettive ha un’importanza diretta per un’impresa che impiega circa 110mila addetti, si è creato un sistema di scambio in natura. Ecco un’altra risposta logica alla contrazione finanziaria: l’uscita dall’economia monetaria attraverso lo sviluppo del baratto. Dietro tutto ciò vi è evidentemente un paradosso, il quale risiede nel fatto che determinate politiche macroeconomiche contribuiscono allo sviluppo di comportamenti microeconomici che rendono queste stesse politiche sempre meno efficaci.

Nei Paesi ex-socialisti, tra un quarto e un terzo della popolazione vive da parecchio tempo in una condizione di persistente povertà, al di sotto del reale livello di sussistenza. Il numero totale dei poveri è cresciuto da 14 milioni circa di individui presenti nell’Europa orientale e in Unione Sovietica prima della transizione, a circa 168 milioni dopo la riforma, un aumento dal 4% al 45% sul totale della popolazione. La povertà è causata principalmente dal basso livello dei salari nominali, dalla progressiva erosione del reddito reale e dai tagli applicati sui sussidi sociali. Incidono, inoltre, l’ampia diffusione dei redditi informali, l’occupazione saltuaria, il secondo lavoro e il numero elevato dei disoccupati manifesti e nascosti (per disoccupati nascosti s’intendono coloro che pur lavorando nelle imprese statali sono equiparabili per salari e prospettive di lavoro a veri e propri disoccupati). Anche la pensione media d’anzianità si trova attualmente al di sotto del minimo di sussistenza.

La riduzione dei trasferimenti privati e sociali (intendendo non solo salari e pensioni, sussidi sociali e alimonie varie, ma anche la possibilità di accedere ai servizi sociali e sanitari, all’istruzione, ai trasporti pubblici, ecc.) testimonia che lo stato sociale e di welfare da molto tempo non funziona più come sistema universale e solidale di sicurezza sociale, e che non è neppure in grado di proteggere i gruppi più poveri della popolazione.

Le famiglie socialmente deboli (quelle con figli a carico o membri disabili) sono le più vulnerabili. In Russia e Bielorussia, uno stipendio medio non è sufficiente a mantenere due individui al livello minimo di sussistenza. Tenuto conto anche della riduzione dei sussidi per minori, ciò vuol dire che, di fatto, una famiglia con due stipendi medi e due figli a carico vive in condizioni di povertà. In Moldavia, solo il 20% di coloro che ricevono uno stipendio guadagna abbastanza da mantenere una persona a carico. Con minore incidenza, questa situazione è riscontrabile anche in Ucraina. La difficoltà delle famiglie nel mantenere persone a carico è così grave da spingere alcuni genitori ad abbandonare i propri figli (durante la transizione sono stati abbandonati circa un milione di bambini, di cui 200mila nella sola Repubblica russa).

Nel caso delle famiglie monoparentali, i fattori di povertà sono soprattutto rappresentati dal basso reddito individuale della madre (molto spesso sotto la soglia di povertà) e dalla scarsa quota dei trasferimenti privati e sociali (alimenti ai minori in caso di divorzio, pensioni per minori rimasti orfani di padre, sussidi per madri-sole), che dovrebbero almeno parzialmente compensare l’assenza della seconda fonte di reddito familiare. Attualmente, l’entità dei sussidi per minori è stabilita in base ai salari minimi ufficiali. Ma, poiché quest’ultimi già da tempo non sono indicizzati, le già scarse quote di questi contributi si sono ulteriormente svalutate. Inoltre, a causa dell’alta percentuale di lavoro sommerso e, di conseguenza, dei redditi non controllati, è praticamente impossibile attuare la disposizione del codice russo di famiglia del 1995, la quale stabilisce che l’alimonia per i figli sia detratta dal reddito. L’alimonia è, infatti, costituita per legge da una percentuale fissa sul salario nominale ricavato dal lavoro principale. Non è stata, inoltre, modificata la soglia ufficiale del salario dell’ex-marito, oltre la quale è calcolato l’importo dell’assegno. Tale soglia, per effetto del crollo generale dei salari nominali, rimane su un livello piuttosto alto: due volte il minimo di sussistenza. Di conseguenza, la madre divorziata non solo percepisce un’alimonia irrisoria (poiché essa è dedotta da una percentuale fissa che è rimasta invariata nel tempo), ma rischia di perderla a causa della caduta dei redditi ufficiali. La femminilizzazione della povertà è diventata una manifestazione specifica della deprivazione anche nei Paesi transizionali.

Altrettanto inquietante è ciò che sta avvenendo nel settore dell’edilizia popolare. Con la privatizzazione delle case, è stata data l’opportunità a molte famiglie di diventare proprietarie del loro appartamento (esse dovevano sostenere soltanto il costo per gli atti del passaggio di proprietà). Ma poche sono quelle che sono rimaste a vivere nella loro abitazione. La maggior parte è stata, invece, costretta ad affittarla o a venderla, perché non era in grado di sostenere le spese di gestione e i costi dei servizi municipali. Si parla spesso di “costo della ripresa”, in relazione alle spese che i cittadini devono sostenere per le abitazioni, i servizi municipali o per la fornitura di energia domestica (affitti, spese per il riscaldamento e di manutenzione delle case, ecc.). Ma gli introiti del governo locale per la casa, i servizi municipali e l’energia si sono pesantemente ridotti e, di conseguenza, gli investimenti, nonostante il trasferimento di queste competenze dal livello federale a quello locale, e malgrado che una larga fetta del settore edilizio sia passata dalle imprese alle autorità municipali. D’altronde, la capacità d’intervento dell’amministrazione locale nel settore delle costruzioni e in quello energetico non poteva che diminuire tenuto conto che si è in presenza di economie pesantemente demonetizzate, dove i due terzi o più della popolazione non hanno redditi sufficienti per sostenere le spese su base regolare, e se sono in grado di sostenerle solo a scapito di altri bisogni essenziali (prima della riforma economica, le spese per la casa, il combustibile, l’energia e i servizi municipali erano completamente sovvenzionate dallo stato). Il tentativo dei governi d’introdurre il “costo della ripresa” si è, di fatto, rivelato come una “poll tax”.

La principale causa del conflitto sociale e di opposizione politica alle riforme economiche e sociali è rappresentata dal basso livello dei salari ufficiali (incidono anche l’endemica non corresponsione degli stipendi e degli arretrati salariali) ma anche dalla trasformazione del carattere universale dei sistemi pubblici di previdenza e sicurezza sociale in sistemi privati di assicurazione individuale che non includono in sé tutte le forme di garanzia sociale precedentemente previste.

In questi Paesi (soprattutto nelle aree rurali), gli unici mezzi disponibili per arginare la miseria di massa sono la richiesta dei “social benefit”, il ritorno ad un’economia naturale e l’integrazione del reddito nell’ambito di network di supporto familiare.

Il risultato della perdita dei diritti economici e sociali è riscontrabile anche attraverso l’analisi di alcuni indicatori fondamentali del benessere e del progresso di un Paese: il suicidio, le morti connesse all’abuso di alcool e l’ampia diffusione della droga sono tutti fenomeni in crescita. Il diffondersi di “malattie della povertà” (tubercolosi, difterite, sifilide, ecc.) è reso maggiormente acuto dal fatto che mancano spesso degli interventi di sensibilizzazione, educativi, le infrastrutture e i programmi per affrontare tali problemi. Un comune indicatore demografico dei Paesi transizionali dell’ex-Urss è l’alta mortalità degli adulti maschi (in Russia, l’elevato tasso di mortalità degli adulti maschi in età da lavoro ha creato il problema del sostegno materiale ai figli orfani di padre. Un problema, certo, non risolto, poiché la pensione legata a questi casi rappresenta solo il 51% del minimo di sussistenza, e non compensa affatto la diminuzione del reddito familiare) e la brusca caduta della speranza di vita sia per uomini che per donne. I tassi di mortalità, nuzialità e fertilità registrano gli stessi andamenti di quelli normalmente osservati in tempo di guerra.

Gravi sono le implicazioni teoriche dello smantellamento dello stato sociale. Esso era stato istituito in Unione sovietica a partire dal riconoscimento dei diritti economici e sociali da garantire ad ogni individuo al di fuori del mercato. Bogomolov, un noto capofila degli economisti riformatori russi, fa riferimento all’Occidente capitalistico, da lui assunto a modello di società, per scatenare alla vigilia del crollo dell’Urss, una battaglia contro il concetto stesso di diritti economici e sociali: «In una società normale, la sfera del mercato include tutto. Da noi, invece, i servizi sanitari e l’insegnamento non sono categorie di mercato». E, di rincalzo, un altro esponente del nuovo corso: «Abbiamo bisogno di una medicina normale basata sull’assicurazione (individuale). Una medicina gratuita è un inganno». 

Il mito del mercato e della privatizzazione, identificati quest’ultimi con la democrazia e la libertà (lo stesso Presidente russo Eltsin, all’indomani dell’assalto al parlamento russo nel 1993, riconosce di aver violato la costituzione e la legalità, e si giustifica facendo riferimento alla necessità di accelerare l’introduzione del mercato, come se il criterio di legittimazione dei nuovi dirigenti russi non fosse costituito dalla democrazia, dal rispetto delle regole del gioco o dalla sovranità popolare, bensì dal mercato, coniugato quest’ultimo con comportamenti bonapartisti - la politica a colpi di decreto - se questi servono a difenderlo), ha prodotto una mercificazione che non sembra incontrare più limiti: basti pensare alla tratta di bambini da adottare dalla Polonia verso l’Italia. Il denaro sborsato dalle famiglie italiane serve, fra l’altro, a ricompensare le famiglie naturali disposte a rinunciare alla patria potestà pur di guadagnare dollari ed euro e diminuire, dunque, le bocche da sfamare. E’ un mercato che si viene ad aggiungere a quello delle belle polacche, ucraine e russe. A quest’ultimo proposito, Marina Piazza, ex presidente della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità, afferma: «Se la transizione della Russia al libero mercato segna il passaggio dal consumo senza merci alle merci senza consumo, verrebbe da dire che i corpi femminili fanno eccezione. L’espulsione dal mercato del lavoro e la pressione di una povertà sempre più pesante e con sempre meno prospettive di uscita per le donne, sembra trovare un incastro perverso con un’altra modalità di fuoriuscita dalla miseria, quella della prostituzione criminale, grande e piccola, che mette a mercato con profitto ciò che dal mercato è espulso come forza lavoro ma recuperato come merce».

La perdita dei diritti economici e sociali ha le sue radici ideologiche nel richiamo costante da parte dei nuovi dirigenti e dei loro ideologi alla lezione di von Hayek, il patriarca del liberismo, il quale, in contrasto alla stessa dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Onu nel 1948, che sancisce anche i diritti economici e sociali dell’individuo come fondamentali per lo sviluppo della democrazia in un Paese, mette la teorizzazione di tali diritti sul conto dell’influenza, da lui considerata nefasta, della rivoluzione marxista russa.

I cambiamenti nel mercato del lavoro, durante gli anni della riforma, hanno prodotto una rilevante trasformazione dei rapporti legali e sociali nel campo dell’occupazione, che si manifesta attraverso le continue violazioni compiute a danno dei lavoratori per quanto riguarda le loro garanzie d’impiego. Tali violazioni riguardano principalmente le seguenti materie di regolamentazione legale: retribuzione, orario di lavoro, procedure di licenziamento, diritti e tutele sociali. Queste violazioni sono maggiormente presenti nelle imprese private piuttosto che in quelle statali, e sono più frequenti in caso d’occupazione saltuaria. Al “top” di tutte queste violazioni, c’è il nuovo codice del lavoro recentemente introdotto in Russia (1 febbraio 2002) che legalizza il lavoro minorile, obbliga le donne incinte a svolgere i turni di lavoro notturni, aumenta su “richiesta” del lavoratore la durata della giornata lavorativa da 8 a 12 ore e impedisce ai sindacati d’agire in difesa dei lavoratori su alcune materie. Il nuovo codice del lavoro è stato considerato dal governo russo (e, all’estero, dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale) come un “complesso di misure teso ad ottenere un migliore compromesso tra gli interessi dei diversi tipi di datori di lavoro e di lavoratori”, in confronto al vecchio codice del lavoro (adottato nel 1972 quando la Russia era parte dell’Urss e rivisto in alcuni suoi punti sotto l’amministrazione Eltsin nel 1995) ritenuto eccessivamente protettivo nei confronti dei lavoratori.

Un altro problema allarmante è quello dello sfruttamento del lavoro dei detenuti. Formalmente i prigionieri russi hanno diritto ad essere pagati in maniera adeguata per il loro lavoro. L’art.105 del codice vigente di procedura penale stabilisce che i prigionieri hanno diritto a salari in linea con quelli stabiliti dalle leggi in vigore, e il livello degli stipendi non può essere inferiore allo stipendio minimo. Ma, di fatto, le retribuzioni dei prigionieri sono soggette a ritenute per contributi al fondo pensioni, al sostegno all’infanzia e ai “servizi vari”. Nella fabbrica di vestiti, a Vladimir in Russia, negli anni 1999 e 2000, le donne prigioniere guadagnavano 500 rubli il mese (circa 20 euro), ma ne incassavano solo la quinta parte.

Le vite di molti lavoratori sono state devastate dalla cupidigia del grande “business”, dalle politiche di privatizzazione imposte senza prevedere alcun ammortizzatore sociale, e dall’introduzione di nuove misure che minano i diritti fondamentali goduti per decenni dai lavoratori stessi e dalle persone in generale.

Tutti i Paesi transizionali dell’ex-Urss hanno sviluppato un mercato del lavoro dualistico, in cui i posti migliori nel nuovo settore privato sono ricoperti dai lavoratori più istruiti, specializzati, giovani e flessibili che provengono dall’ex-settore statale, mentre quest’ultimo funziona sempre più come bacino di riserva di risorse di lavoro di scarso interesse produttivo.

Le vittime del c.d. “aggiustamento strutturale” non sono una piccola parte della popolazione. Persino nelle economie più prospere dell’Europa centro-orientale, esse costituiscono un terzo e più della forza lavoro. Anche laddove la ristrutturazione dell’economia è stata perseguita con politiche di stabilizzazione sociale si sono riscontrati, tuttavia, livelli sensibili di povertà, a causa dell’incremento delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito sia a livello occupazionale che territoriale.

Nei Paesi Fsu, il tasso di povertà è elevatissimo (in Russia, circa 45 milioni di persone vivono attualmente al di sotto della soglia d’indigenza). Qui le differenze in campo retributivo sono molto più accentuate, poiché la distribuzione dei trasferimenti sociali è rimasta sostanzialmente immutata, mentre il “gap” retributivo si è fortemente concentrato sul primo e l’ultimo gradino della scala di reddito, lasciando quasi invariati i redditi intermedi. In questi Paesi, l’alto tasso di povertà non sarà certamente ridotto per effetto della ripresa economica. I bassi salari e la disoccupazione sono in parte una caratteristica della dislocazione strutturale delle economie in transizione, ma la povertà ha le sue radici nella carenza generalizzata e persistente della domanda, con una produttività ed un’occupazione virtualmente in declino in tutti i settori dell’economia.Inoltre, la mancanza di giustizia sociale solleva seri dubbi su quanto saranno equamente ripartiti i vantaggi della crescita economica. La valutazione di politiche macroeconomiche alternative che stimolino la crescita, senza tuttavia creare un’impennata inflativa, rappresenta un’urgente priorità.

Molti lavoratori colpiti dalla riforma economica hanno poca speranza di trovare una collocazione nel nuovo mercato competitivo. In poche parole, la transizione liberale ha creato una “generazione persa”, che difficilmente potrà godere dei benefici della ripresa economica. Dal 1989, nelle ex-economie a pianificazione centralizzata sono andati persi 26 milioni di posti di lavoro e i disoccupati ufficiali sono saliti da quasi zero a 10 milioni. Nella maggior parte dei Paesi dell’Europa centro-orientale e in quelli Fsu è cresciuto il numero dei disoccupati di lunga durata (che sono cioè senza lavoro da più di un anno). Né gli individui né i sistemi sociali erano preparati ad affrontare tale situazione. Nei Paesi Fsu, essa è così compromessa che persino tra gli economisti liberali c’è chi ritiene necessario sostenere il lavoro nelle imprese e nei settori in declino, che possono funzionare come importante sistema di sicurezza sociale, più o meno come un vero sistema di “social welfare”.

La caduta sia dei profitti sia dei salari che ha colpito i Paesi Fsu ha minato la base fiscale dello stato e ridotto, di conseguenza, i finanziamenti pubblici a scopo sociale. I governi hanno, infatti, subito importanti diminuzioni delle entrate pubbliche, accompagnate da scarse capacità di riscuotere le tasse. Del resto, governi che non pagano quanto dovuto, qualsiasi ne sia il pretesto, incoraggiano i contribuenti a non pagare le imposte. Dato che i contribuenti sono prima di tutto le imprese, quest’ultime, trovandosi in difficoltà perché lo stato non versa loro le sovvenzioni, non pagano le tasse. La conseguenza di ciò è la crisi del prelievo fiscale. Si coglie immediatamente il circolo vizioso che si è venuto a creare: per ridurre il deficit del bilancio non si sono pagate le spese previste (le sovvenzioni), creando così una minima entrata fiscale, che ha ricostituito il deficit. In questo modo, è distrutto il sistema fiscale e di bilancio che svolge un ruolo insostituibile di ridistribuzione della ricchezza nazionale, ma anche di prelievo di risparmio ai fini d’investimento nelle infrastrutture. Non solo, in un sistema in cui la disciplina dei pagamenti non è rispettata, gli agenti economici si proteggono sia esigendo un anticipo, sia passando alla prassi del baratto.


Conclusioni


Il decennio 1991-2001 ha rovinato il tessuto sociale dei Paesi Fsu, distruggendo il vecchio senza costruire granché di nuovo. La cura di liberalismo selvaggio senza regole e contrappesi che è stata loro propinata non andava bene per realtà con una storia e dei limiti singolari. Con il risultato che a dominare sono stati i più aggressivi e i più spregiudicati, le multinazionali straniere e i racket criminali transnazionali.

Si può interpretare, in termini univoci, come rivoluzione democratica il crollo dei Paesi del socialismo reale a condizione, tuttavia, di espungere dal catalogo dei diritti, i diritti economici e sociali, solo a condizione cioè di recedere alle posizioni del neo-liberismo. Si potrebbe obiettare che, in ogni caso, il valore dell’inviolabilità della proprietà privata è assolutamente prioritario, su tutto. Ma questo è ancora una volta il punto di vista del neo-liberismo. Basti riflettere sul fatto che anche un autore “liberal” come John Rawls esige sì la subordinazione dell’uguaglianza alla libertà, ma sottopone ad un’importante clausola limitativa tale principio da lui ritenuto valido solo “al di là di un livello minimo di reddito”.

Inoltre, riconducendo la questione delle trasformazioni strutturali al solo problema della privatizzazione, il gergo economico assume una dimensione neologistica degna del “1984” di Orwell. E’ evidente che l’economia ex-sovietica soffre di gravi deformazioni strutturali, ma ridurre il rimedio al solo cambiamento di proprietà dimostra tutta l’influenza ideologica del liberalismo. Non che la questione della proprietà non sia importante, ma tuttavia non può esaurire da sola il problema delle strutture e delle istituzioni. Il ridurre la transizione all’adeguamento macroeconomico e il trascurare la dimensione microeconomica e la dimensione intermediaria che investono le economie regionali, le reti e le organizzazioni, è stato un tragico errore.

  Inoltre, tenuto conto del carattere fortemente monopolistico di alcune produzioni e della debolezza delle strutture finanziarie, la scelta macroeconomica della brusca liberalizzazione dei prezzi non poteva che causare una forte caduta della produzione, provocando un forte rialzo dei costi dei fattori produttivi. Per contraccolpo, la depressione così creata si è rivelata un pericoloso ostacolo alla ristrutturazione delle imprese e dell’economia in generale.

L’idea diffusa che nei paesi dell’ex-blocco sovietico si stia affermando il libero mercato è, quindi, quanto di più falso si possa affermare. L’economia di quei Paesi è attualmente caratterizzata da forti tendenze monopolistiche: essa dipende ancora e soltanto da potenti gruppi oligarchici che si sono impadroniti delle risorse naturali del paese da destinare ai mercati esteri. E’ dominata da aspetti primitivi e corporativi: per non essere strangolate da tagli selvaggi della spesa centrale, le grandi imprese hanno costituito una rete di scambi in natura (lo sviluppo del baratto). Ci sono, inoltre, regioni che battono una propria moneta per non dipendere dal rublo. Altre che sono giunte ad istituire un proprio controllo dei prezzi e proprie dogane per proteggere il loro ambito territoriale. Con il risultato che si è formata una spettacolare economia parallela, fonte d’infinite attività illegali, mafiose e criminali. Infine, siamo in presenza di un’economia dai tratti semicoloniali: interi settori dei beni di consumo, ivi compresi gran parte dei prodotti dell’agricoltura e della zootecnia, sono dipendenti dall’importazione dall’estero.  

In queste condizioni, si capisce, è impossibile definire un vettore di cambiamento, che dovrebbe essere costituito da un punto di partenza e da un punto di arrivo. Ecco perché oggi molti studiosi preferiscono parlare di questi Paesi, non come di “identità in transizione”, ma soltanto come di Paesi che hanno subito trasformazioni radicali o cambiamenti sistemici.