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I partiti comunisti nell’est, oggi
Bruno Drweski
Negli ex paesi del “campo socialista”, l’introduzione del pluralismo politico
dopo il 1989/91 è sfociata nella costituzione di nuovi partiti che hanno teso,
dopo qualche esitazione, a riposizionarsi nella tradizionale divisione
destra/sinistra. Tale nozione deve essere tuttavia precisata in funzione della
situazione specifica di ogni società. Ovunque gli eredi delle formazioni
politiche al potere prima del 1989/91 sono riusciti a ricostituire partiti
spesso influenti, ma sulla base di legittimazioni molto differenti. In certi
casi, il riferimento al comunismo è stato totalmente rigettato. In altri, si è
selezionato in modo molto diversificato solamente alcuni elementi provenienti
dal comunismo. In altri, l’eredità del comunismo ufficiale è stata rivendicata
in quanto tale. Ma la classificazione tra partiti allineati al
social-liberalismo, “ex comunisti riformati” o comunisti “ortodossi” resta
molto sommaria.
I termini “comunismo” o “socialdemocrazia” veicolano infatti contenuti molto
differenti a seconda del contesto. Quando viene rivendicata, l’eredità del
“socialismo reale” non è di fatto mai ripresa in maniera integrale e, quando
succede il contrario, alcuni elementi di tale eredità risorgono in modo più o
meno percettibile. Tuttavia nell’insieme, i “ritorni” al potere o anche solo la
possibilità di avere accesso ai circoli del potere, come nel caso del Partito
Comunista della Federazione Russa (KPRF), o di giocare un ruolo regionale, come
nel caso del Partito del Socialismo Democratico (PDS) nei Landers est-tedeschi,
spinge ogni partito ad accettare in modo più o meno esplicito le “leggi di
mercato”.
In ogni caso l’allineamento della Russia di Putin agli USA dopo l’11settembre
2001, ha spinto l’ala predominante del KPRF a denunciare la politica del
Cremlino e a subire, quale ritorsione, l’espulsione dei rappresentanti di
questo partito dalle commissioni parlamentari. I dirigenti espressi dalle
formazioni al potere nei paesi dell’Est prima del 1989/91 cercano generalmente
di collocarsi, per essere credibili, più o meno a sinistra. Ma questa non è la
regola assoluta, dal momento che partiti di destra sono stati spesso formati da
uomini che hanno occupato funzioni importanti nei partiti “comunisti” prima del
1989/91, come ad esempio Eltsin in Russia o Tudjman in Croazia.
Parallelamente, sono apparse formazioni che fanno riferimento a correnti
marxiste che erano al bando prima del 1989/91 (trotskismo, bukharinismo,
socialdemocrazia marxista di prima del 1939), ma raramente esse hanno
conquistato un posto di rilievo. Ciò riguarda anche i partiti che rivendicano
l’eredità di Stalin, i quali, salvo che in Albania, erano stati proibiti
formalmente dopo il 1956. Sono stati anche creati partiti socialdemocratici
“moderni” senza legami con i regimi di prima del 1989/91, spesso senza
successo.
Studiare i PC dell’Est dopo il 1989/91 rimanda a categorie molto diverse. Ci
limiteremo ai partiti che accettano la loro filiazione ai regimi politici
ufficialmente sconfitti nel 1989/91. Analizzeremo anche le formazioni che
ripudiano il comunismo, ma che restano segnate in modi differenti dalla sua
eredità. Menzioneremo anche i partiti esplicitamente staliniani poiché, pur non
essendo essi gli eredi diretti dei partiti di prima del 1989/91, fanno
riferimento comunque ad un’eredità che ha esercitato un’influenza fondamentale
sul funzionamento del “socialismo reale” in certe epoche.
La ricomposizione politica che ha avuto luogo negli Stati del “socialismo
reale” a partire dagli anni ’80 non è terminata, poiché la struttura di queste
società non ha ancora raggiunto una stabilizzazione relativa simile a quella
dei paesi occidentali. Già prima del 1989/91, i partiti-Stato nascondevano
realtà sociali molto differenti e l’emersione di una borghesia in questi paesi
è iniziata ben prima dello smantellamento ufficiale del “socialismo”. I partiti
politici al potere erano divisi in sensibilità sociali e politiche, in gruppi
di interesse, elemento questo che rende pertinente la tesi secondo cui la lotta
di classe esisteva nell’Est, ma in modo “sotterraneo e camuffato”, nel quadro
di strutture apparentemente monolitiche.
Le idee di destra erano d’altronde diffuse nei partiti comunisti ufficiali ben
prima della “svolta” degli anni 1989/91, in particolare tra i “notabili” e i
figli dei quadri, in particolare coloro che esercitavano attività nei settori
economici e coloro che intrattenevano contatti con le “elites” occidentali,
politiche e affaristiche. Questo pluralismo di fatto, che esisteva prima del
1989, spiega perché solo una piccola frangia dei membri dei partiti al potere
prima del 1989/91 si sia riconosciuta in seguito nelle formazioni scaturite dai
“partiti-Stato”, avendo la maggioranza di loro optato per un liberalismo “senza
complessi”.
I gruppi che si richiamano al comunismo sono andati ovunque in minoranza, salvo
che in Moldavia dove il PC ha ottenuto il 50% dei voti alle ultime elezioni, ma
ugualmente ovunque sono riapparsi partiti che si richiamano al comunismo,
incluso là dove gli eredi dei poteri di prima del 1989/91 hanno rotto con
questa ideologia per aderire all’Internazionale Socialista (IS). Nell’Europa
centrale, baltica e balcanica, le correnti che si richiamano al comunismo hanno
incontrato particolari difficoltà nella fase della rinascita, salvo che in
Cechia. Dall’Albania all’Estonia, passando per le Jugoslavie e la Polonia, gli
ex “partiti-Stato” hanno rinunciato alla denominazione comunista e al marxismo
quale fondamento teorico.
Ma esistono delle differenze rimarchevoli negli atteggiamenti tenuti nei
confronti del capitalismo tra la SLD polacca, ad esempio, e il PS serbo o il PS
bulgaro (BSP). La sola eccezione di rilievo è costituita dalla Cechia, dove un
PC importante ha riconquistato e mantenuto un posto fondamentale nello
scacchiere politico, contando tra l’altro sul fatto che i comunisti erano già
ben radicati nel paese prima del 1938. Altrove, essi non si sono imposti, se
non in occasione della Seconda Guerra Mondiale e nel periodo seguente. Nelle
repubbliche che facevano parte dell’URSS prima del 1939, al contrario,
l’affermazione di partiti socialdemocratici resta difficile, mentre partiti
comunisti consistenti si sono ricostituiti pressoché ovunque.
La divisione socialdemocrazia/comunismo sembra da attribuire a differenze
politiche dovute al radicarsi della mentalità sovietica, anzi della tradizione
russa come tende ad affermare il presidente del KPRF che pensa che il comunismo
corrisponda alla mentalità tradizionale dell’ “uomo russo” del paese più
profondo. Tale fenomeno pone degli ostacoli all’emergere di un’autentica
corrente rivoluzionaria, ma il riferimento al marxismo, seppur solo formale, resta
emblematico e permette di stabilire la differenza tra coloro che si allineano
grosso modo al “modello occidentale” e coloro che continuano, anche se spesso
nell’ambiguità, a manifestare reticenze a tal proposito.
Riflettere su ciò è importante per scoprire, al di là delle dichiarazioni
ufficiali, quali formazioni possano essere eventualmente fautrici di progresso
sociale e di riavvicinamento dei popoli e quali siano quelle che in realtà
servono, qualsiasi denominazione adottino, gli interessi delle oligarchie, la
cui aspirazione, nei fatti, è solo quella di allargare il proprio potere
politico, sociale o economico. E’ anche nell’interesse dei comunisti
occidentali la comprensione di questo fenomeno, poiché i loro partiti, pur
mantenendo fino alla fine rapporti privilegiati con quei regimi, in virtù
dell’opinione che essi avevano dei rapporti di forza internazionali e della
necessità di trovare dei contrappesi di fronte alla potenza degli Stati Uniti e
dei loro numerosi alleati, sembrano aver subito anch’essi in molti casi, “per
procura” e di riflesso, gli effetti della demoralizzazione caratteristici della
nomenklatura.
LA PREDOMINANTE ATTRAZIONE DELLA SOCIALDEMOCRAZIA NELL’EUROPA CENTRALE, BALTICA
E BALCANICA
Tranne che in Cechia, gli ex PC hanno tutti ripudiato il riferimento al
marxismo-leninismo. In effetti ogni partito ha manifestato una propensione
diversa verso lo strappo e i discorsi variano sovente in funzione
dell’interlocutore a cui i dirigenti si rivolgono. D’altronde, non ci troviamo
solo di fronte alla scelta socialdemocratica, dal momento che alcuni partiti
sono tentati anche dalla retorica patriottica, come nel caso del PS serbo o, in
misura minore, del Fronte di salvezza nazionale romeno, divenuto in seguito un
partito socialdemocratico (PSD) “come gli altri”.
1). I partiti social-liberali: nei
partiti che sono approdati all’IS e che, in apparenza, hanno totalmente
ripudiato il “socialismo reale” persistono certe specificità in rapporto al
modello socialdemocratico occidentale. Le loro tradizioni e il fatto che
abbiano adottato rapidamente e senza riflettere modalità di funzionamento e di
legittimazione importate dall’Occidente e appiccicate ad abitudini
organizzative differenti, conferiscono a questi partiti tratti specifici.
La riconquista da parte di questi partiti di un elettorato consistente, a
partire dalle elezioni lituane del 1992 – fenomeno che è proseguito altrove –
fa leva su una certa nostalgia nella popolazione per lo “Stato protettore”
scomparso. Gli ex comunisti sono dunque indotti in permanenza ad oscillare tra
un discorso social-liberale destinato agli Occidentali, comportamenti elitisti
ereditati dal “socialismo post-feudale” di prima del 1989 e “ammiccamenti
neo-comunisti” indirizzati alla loro base elettorale. Le inchieste di opinione
che riguardano le privatizzazioni, i capitali stranieri, il periodo precedente
il 1989, ecc. dimostrano che una parte spesso maggioritaria di queste società
resta attaccata all’ideale di un modello sociale egualitario.
Gli ex dirigenti di prima del 1989/91 hanno contratto abitudini differenti da
quelle conosciute ad Ovest e le utilizzano per la “costruzione del
capitalismo”. La comprensione dei processi sociali, la capacità di costruire
organizzazioni disciplinate e cinghie di trasmissione, lo spirito di corpo
proprio dell’abitudine alla militanza in seno ad un’organizzazione
semi-segreta, i metodi di cooptazione,ecc., tutto ciò è servito enormemente
agli “ex comunisti” per rimanere nelle stanze del potere dopo il 1989.
L’esempio polacco costituisce a tal riguardo un caso da manuale, per analizzare
i partiti che, del passato, hanno mantenuto le tecniche di radicamento del
leninismo, la capacità di analisi dei processi sociali del marxismo e
l’attrazione verso la modernità, ma ponendo tutto ciò al servizio del
capitalismo. Quando il Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR) ha ceduto il
potere, si è trasformato prima di tutto in Socialdemocrazia della Repubblica di
Polonia (SdRP). Il nome scelto allora è già segno di abilità. Poiché questa denominazione
costituiva un segnale per i partigiani di una socialdemocratizzazione
“moderna”, ma anche perché, agli occhi di coloro che intendevano restare fedeli
al comunismo, ricordava il partito di Rosa Luxemburg e di Felix Dzierzynski, la
“Socialdemocrazia del Regno di Polonia”. La SdRP ha, in verità, mantenuto solo
circa 60.000 dei 2 milioni di membri del PZPR, contribuendo in tal modo ad
allontanare la sua vecchia base dai centri decisionali. I dirigenti hanno
spesso ceduto i posti dell’apparato a vantaggio di loro sostituti più giovani.
Questo partito ha poi creato l’Alleanza della Sinistra Democratica (SLD), una
struttura all’inizio flessibile che raggruppava sindacati, associazioni (di
donne, di giovani, di ex combattenti,ecc.) e alcuni piccoli partiti come
l’Unione dei comunisti polacchi “Proletariato” (ZKPP). Tali “cinghie di
trasmissione” si sono rivelate efficaci al servizio della SdRP e della sua
linea “moderna” di ampio schieramento. La SLD ha in seguito aperto al Partito
Socialista Polacco (PPS), un gruppo radicale e marxista espresso dalla
dissidenza, che le ha permesso di presentarsi come ormai “al di fuori” delle
divisioni di prima del 1989. Stabilizzatosi l’elettorato e adottata, con il
consenso della “sinistra” e della “destra” polacche, una costituzione “che
proibisce i metodi fascisti e comunisti”, la ZKPP è stata spinta ai margini
della SLD, la quale è stata trasformata in un partito unificato, forzando il
PPS a scegliere tra la sua dissoluzione e una rottura che l’avrebbe condannato
all’emarginazione, in virtù della logica del “voto utile”. La creazione di una
SLD unificata, al posto di un’alleanza plurale, permette oggi ai quadri
espressi dalla nomenklatura di scegliere essi stessi a quali dirigenti
sindacali o delle associazioni satelliti offrire posti nell’amministrazione. Il
processo sta concludendosi oggi con il ritorno a posti di direzione della SLD
di vecchi quadri del PZPR che si erano ritirati in “seconda linea” nel 1989. Se
la metamorfosi ideologica degli “ex comunisti” che si richiamano al “blairismo”
è completa, la “cultura di apparato” sembrerebbe mantenere il marchio di
origine.
Molti dei polacchi di sinistra, compresi quelli che si considerano sempre
comunisti, trovano tuttavia difficile dissociarsi dalla SLD, per realismo o per
fedeltà. Anche l’Unione del Lavoro (UP), partito a caratterizzazione
socialdemocratica, creato dal dissidente Karol Modzelewski, che aveva tentato
di superare le divisioni del 1989, ha finalmente deciso di associarsi alla SLD
e di rinunciare alla propria autonomia. Simili evoluzioni sono riscontrabili
anche in Lituania, in Slovacchia, in Slovenia, ecc. Altrove, la
deideologizzazione è stata meno totale.
2). I partiti socialdemocratici
pluralisti: il BSP (Partito Socialista Bulgaro) costituisce uno dei migliori
esempi di tale tipo di partito. A differenza della SLD, l’ex PC bulgaro ha
cambiato nome, ma ha cercato di conservare il grosso dei suoi membri e ha preso
meno le distanze dal periodo precedente il 1989. Ha accettato l’esistenza di
frazioni organizzate, di cui due si richiamano al marxismo. Questo partito si è
avvicinato lentamente all’IS, pur mantenendo contatti con i partiti comunisti,
in particolare con il PC greco. Il BPS si è per molto tempo dichiarato
contrario alla politica della NATO nei Balcani. L’assenza di russofobia nella società bulgara facilita la
persistenza di correnti che cercano di salvaguardare legami stretti con la
Russia, in particolare nella diplomazia e negli affari. Il radicamento notevole
dei comunisti in Bulgaria prima del 1939 può anche spiegare questa situazione.
Esistono nel paese due piccoli PC. Il Nuovo Partito Comunista Bulgaro (NPCB),
che si proclama staliniano e che ha rotto con il BSP al tempo del cambio del
nome, e il Partito Comunista Bulgaro “G. Dimitrov” che rifiuta i metodi
staliniani. Il nuovo PCB ha organizzato la Nuova Internazionale Comunista che
raggruppa partiti che esaltano innanzitutto l’eredità di Stalin. Alla vigilia
delle elezioni del 2001, sono stati avviati negoziati per la formazione di un
partito unificato che raggruppasse i due PC e la frazione marxista del BSP.
Secondo i sondaggi, questa formazione avrebbe potuto ottenere più del 10% dei
suffragi, ma i negoziati non hanno avuto successo e alcuni comunisti si sono
presentati candidati contro il BSP, mentre quest’ultimo faceva eleggere un
comunista nella sua lista, il primo deputato esplicitamente comunista dopo il
1989.
I partiti “ex comunisti” balcanici dei paesi di tradizione ortodossa (Bulgaria,
Serbia, Romania) manifestano una più visibile reticenza riguardo al capitalismo
rispetto ai loro omologhi di Albania, Bosnia, Croazia, Slovenia o Ungheria. In
questi ultimi paesi, in particolare il Partito Socialista Ungherese, ala
maggioritaria del vecchio “partito-Stato”, include una frazione marxista, “Alternativa
di Sinistra”. Esiste anche un PC ungherese, il Partito Operaio, la cui
influenza resta limitata. In Germania, anche il PDS rifiuta il
social-liberalismo. Si è impegnato, soprattutto dopo il suo arrivo al potere
con la SPD nel Land di Berlino, in una strategia di associazione con il Partito
Socialdemocratico (SPD) su una piattaforma prevalentemente “regionalista
est-tedesca” con concezioni “alternative” assai moderate. Un’altra corrente nel
suo seno riafferma il marxismo. L’esistenza di frazioni è autorizzata nel PDS,
il che permette ai comunisti di manifestarsi in quanto tali. E’ anche il solo
erede di “partiti-Stato”, in cui sia presente la corrente trotskista.
3). I partiti comunisti
“mantenuti”: nell’Europa Centrale, baltica e balcanica, partiti che si
definiscono comunisti si sono formati dappertutto, ma sono raramente riusciti
ad ottenere un’influenza reale, salvo che in Bulgaria, Ungheria, Lettonia
(sotto il nome di Partito Socialista Lettone, dal momento che il comunismo è
proibito nel paese) o Slovacchia, dove costituiscono una forza potenzialmente
in grado di contare. Il KSCM (Partito Comunista di Boemia-Moravia) rappresenta
un caso specifico. Costituito poco prima dello smantellamento della federazione
cecoslovacca, ha ottenuto l’11% dei voti nelle elezioni del 1998 e raccoglie
oggi dal 15% al 20% delle intenzioni di voto (20,3%
dei suffragi nelle ultime elezioni
europee del 13 giugno 2004, nota del traduttore). Ha un approccio relativamente critico
nei confronti del periodo 1948/1989, che ha spinto uno dei dirigenti di prima
del 1989, Miroslav Stepan, a creare il “Partito dei comunisti cecoslovacchi”,
che conta decine di migliaia di membri, ma che non è mai riuscito a radicarsi
elettoralmente. Sul versante opposto, le due frazioni del KSCM che hanno
tentato di rompere con il comunismo hanno fallito. Il caso della Cechia è
specifico, perché è il solo paese in cui si sia formato un partito
socialdemocratico (CSSD) potente non scaturito da correnti comuniste. Il KSCM è
attraversato da dibattiti virulenti in merito al suo progetto sociale,
all’adesione all’UE e ad un’eventuale alleanza con la CSSD. I suoi membri più
anziani esprimono spesso un orientamento più moderato, mentre quelli più
giovani propongono soluzioni a volte particolarmente radicali. Il KSCM è molto
attivo sul terreno internazionale e mantiene contatti con tutti i PC.
Traduzione di Mauro Gemma