www.resistenze.org - osservatorio - mondo - politica e società - 24-01-22 - n. 814

Scienze sociali e menti colonizzate

Prabhat Patnaik | peoplesdemocracy.in
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

23/01/2022

Una componente importante del sistema imperialista è la colonizzazione delle menti del terzo mondo, fenomeno che ne favorisce la difesa. Sebbene questa colonizzazione sia pervasiva, qui discuteremo solo della colonizzazione accademica e di quella relativa alle scienze sociali.

Le scienze sociali sono di importanza vitale perché i problemi del terzo mondo sono soprattutto problemi sociali, e poiché la colonizzazione delle menti del terzo mondo ha l'effetto di inculcare loro la convinzione che l'imperialismo di epoca coloniale non avesse nulla a che fare con tali problemi (al contrario, ha avuto semmai un impatto benefico) e che invece l'imperialismo dell'epoca attuale nemmeno esista, impedisce al terzo mondo di pensare alle soluzioni di questi problemi sociali, di andare cioè oltre la situazione data.

Il primo passo di questa colonizzazione è la diffusione di una narrativa sullo sviluppo sociale, sia nei paesi colonizzati che, necessariamente, anche nelle metropoli, che non vede assolutamente alcun ruolo del colonialismo o dell'imperialismo in tale sviluppo. Un esempio dall'economia chiarirà questo punto. La teoria più influente della crescita economica sotto il capitalismo secondo l'approccio dominante, sviluppata da Robert Solow del MIT (Massachusetts Institute of Technology), è quella che la intende come limitata da (e quindi uguale a lungo termine) un tasso di crescita della forza lavoro nazionale, a prescindere da tutto il resto; nonostante approcci più recenti alla crescita (che ancora evitano qualsiasi riferimento all'imperialismo), questa teoria continua a rimanere prevalente, come è evidente dall'accettazione di Thomas Piketty nel suo recente e acclamato libro Il capitale nel XXI secolo.

Questa teoria della crescita rende però incomprensibile il massiccio movimento di schiavi, almeno venti milioni, dall'Africa al "Nuovo Mondo" nella prima metà del XIX secolo. Rende incomprensibile il massiccio movimento di lavoratori "coolie" e "indentured" [servitù debitoria] rispettivamente dalla Cina e dall'India, per un totale di circa cinquanta milioni di persone, nella seconda metà del "lungo XIX secolo" (tra il 1850 e il 1914). Rende incomprensibile il massiccio spostamento di lavoratori nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale dall'India, dal Pakistan e dalle Indie Occidentali verso la Gran Bretagna; dall'Algeria e da altre ex-colonie francesi verso la Francia; dalla Turchia verso la Germania; e così via. In breve, il capitale ha storicamente spostato milioni di persone in tutto il mondo per soddisfare il suo bisogno di forza-lavoro; non se ne sta tranquillamente a casa, ritoccando verso il basso la sua accumulazione in caso di carenza di manodopera all'interno dei suoi confini. Eppure questo è precisamente ciò che ci dice la teoria della crescita "dominante".

Anche se lasciamo da parte l'esercito di riserva di forza lavoro che il capitalismo ha sempre avuto, esso ha accesso all'intera offerta mondiale di manodopera ogni volta che se ne presenti la necessità. L'idea che sia limitato dalla carenza di manodopera perché la forza lavoro interna non cresce abbastanza rapidamente è semplicemente ridicola. Eppure questo è ciò che suggerisce l'economia "mainstream".

Così, la teoria della crescita "mainstream" più influente in economia è palesemente, sfrontatamente e sfacciatamente in contrasto con i fatti, con la storia reale del modo di produzione capitalista. Come è possibile questo? Ovviamente, perché questa teoria è "accettabile" in quanto dipinge un quadro abbellito del capitalismo, in cui non c'è spazio per l'imperialismo, la conquista, il sequestro o la violenza. E questo è vero per tutte le teorie sul funzionamento del capitalismo che costituiscono l'economia "mainstream"; la loro validità è dovuta alla loro "accettabilità" piuttosto che al loro potere esplicativo.

Tutto questo, naturalmente, non deve renderci ciechi di fronte alla straordinaria intelligenza che c'è in queste teorie, la grande genialità che le sottende. Ma dietro tutta questa genialità, questo abbagliante virtuosismo tecnico, c'è una totale mancanza di potere esplicativo.

Ma allora come fanno queste teorie ad essere accettate? Non necessariamente in quanto gli autori di queste teorie agiscano consapevolmente in malafede, o siano addirittura consapevoli del ruolo apologetico delle narrazioni che vanno tessendo. Il termine "menti colonizzate" non si applica solo alle menti del terzo mondo, ma anche a quelle delle metropoli: se la minaccia di esclusione da incarichi accademici, promozioni, pubblicazioni, premi e fama, è paventata agli accademici metropolitani nel caso in cui osino indagare la verità, nel caso in cui oltrepassino i limiti "dell'accettabile", allora essi convergono semplicemente alla "linea" e rapidamente; i neofiti, terrorizzati dalle conseguenze derivanti dal trasgredirla, sviluppano essi stessi l'abitudine a difenderla, costringendo gli altri a fare altrettanto. Non c'è necessariamente cattiva volontà in tutto questo; diventa semplicemente una "cosa da fare".

Ma allora come spiegare che anche gli accademici del terzo mondo seguono la "linea"? Dopo tutto, durante la lotta anticoloniale c'era stato un certo scrollarsi di dosso, per quanto timido e incerto, della "colonizzazione della mente". Non ci sarebbe stata, altrimenti, alcuna lotta anti-coloniale. Allora come si spiega una ricolonizzazione della mente nel terzo mondo?

Una ragione importante sta nell'introduzione su larga scala di accademici del terzo mondo nelle facoltà delle università metropolitane, che era estremamente rara nei tempi precedenti la guerra. Tale introduzione, o la sua stessa possibilità, fa sì che molti accademici del terzo mondo si adeguino alla "linea". E questo si aggiunge al fatto che con la produzione di un gran numero di accademici nei paesi ex-coloniali dopo la decolonizzazione, il loro molto naturale desiderio di riconoscimento all'interno della "cerchia professionale", che continua a essere dominata dagli accademici metropolitani, li porta automaticamente sotto l'influenza delle teorie metropolitane.

Detto diversamente, la decolonizzazione politica non ha significato un cambiamento nel rapporto di potere all'interno della professione, che ha continuato ad essere dominata dagli accademici metropolitani. L'avanzamento di carriera all'interno di questa struttura di potere significava accettare volenti o nolenti le teorie prevalenti nella metropoli. L'esitante decolonizzazione della mente che si era verificata durante la lotta anticoloniale si è invertita di conseguenza.

Ora, sotto il neoliberalismo, anche il problema stesso della colonizzazione della mente si è completamente perso di vista. Infatti, al contrario, il lavoro accademico è visto come un'attività completamente omogenea: l'idea che una nazione del terzo mondo debba avere una comprensione, per esempio, dell'economia che può essere diversa da quella che prevale nella metropoli sembra stravagante anche per l'istituzione educativa del terzo mondo stesso. Per esempio, Dadabhai Naoroji o Romesh Chunder Dutt, che hanno esaminato meticolosamente il meccanismo dello sfruttamento coloniale, non sono, abbastanza comprensibilmente, presi sul serio nelle università metropolitane, e non se ne sente nemmeno parlare. Se poi guardiamo la disciplina come omogenea, allora ne consegue che anche noi non li prenderemo sul serio, scivolando quindi nuovamente in una situazione di menti colonizzate. E ora, con la Commissione Nazionale per l'Educazione che chiede una sincronizzazione dei corsi e dei curricula tra le università indiane e quelle straniere, questa colonizzazione della mente viene pienamente istituzionalizzata.

Ne consegue che una decolonizzazione della mente non significa l'adozione di un atteggiamento sciovinista Hindutva, che ne è agli antipodi. Quest'ultimo al contrario rafforza la colonizzazione della mente. Non si preoccupa dell'offuscamento della verità che è una caratteristica delle scienze sociali metropolitane; la sua unica preoccupazione è quella di ottenere una sorta di certificazione, preferibilmente dalla metropoli stessa, che le teorie che costituiscono tali scienze sociali hanno avuto origine nell'antica India! In effetti, la sua acredine si manifesta nella deliberata distruzione di qualsiasi istituzione educativa superiore di valore costruita sotto i precedenti governi del paese. Così, mentre mortifica ogni creatività che non obbedisca all'Hindutva, in realtà incoraggia l'importazione, senza alcuna critica, di idee dalla metropoli, quindi la loro egemonia.

La decolonizzazione della mente non richiede quindi un rifiuto delle scienze sociali come disciplina, ma al contrario un'inflessibile esercizio delle scienze sociali come disciplina in opposizione a ciò che passa per "scienze sociali" nella metropoli, che è contaminato dall'offuscamento dell'imperialismo. Karl Marx credeva che la borghesia, dopo un periodo iniziale, non avesse necessità della scienza economica, quanto piuttosto dell'ideologia e che l'attività scientifica avrebbe potuto d'ora in poi essere svolta solo dalla prospettiva di classe del proletariato. Lo stesso si può dire dell'atteggiamento della metropoli nei confronti delle scienze sociali. È solo dal punto di vista dei colonizzati che si possono sviluppare autentiche scienze sociali che non siano semplici apologie.


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