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su Liberazione del 25/08/2005

Facciamo Giovanni Pesce "Visone" senatore a vita


di Claudio Grassi


E' un libro di storia questa biografia del comandante partigiano Giovanni Pesce. A lui la Repubblica italiana deve qualcosa di più prezioso della medaglia d'oro al valor militare

Bisogna leggerlo questo libro: "Giovanni Pesce "Visone", un comunista che ha fatto l'Italia", intervistato da Giannantoni e Paolucci (Edizioni Arterigere-EsseZeta, euro 14).
La biografia di Pesce è un libro di storia: Pesce non può raccontare sé stesso se non come elemento di una vicenda collettiva, di speranza, di delusione, di partecipazione alla trasformazione dell'Italia.

Nella prima parte del libro, la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale, hanno un peso rilevante. Non sono d'altra parte, eventi decisivi nella formazione del protagonista?

Protagonista suo malgrado, perché anche queste pagine sono piene di uomini: combattenti antifascisti, aguzzini, delatori, staffette partigiane, leader dai nomi che si ritrovano nei manuali di storia e tanti, tanti caduti, assassinati, torturati, suicidi per non parlare. Persone con le quali Pesce stabilisce rapporti profondi o fugaci, della durata magari di un'azione di sabotaggio sfortunata.

Pesce non celebra eroi, piuttosto dispensa critiche per una leggerezza o giudica severamente un errore organizzativo, ma dipinge con naturalezza uomini in lotta e sé stesso come un superstite fortunato; dietro il velo della sobrietà però si avvertono l'ammirazione e la pietà sconfinate verso le compagne e i compagni decimati (tra i Gap decimare non significa uno su dieci, ma nove su dieci).

Più che fortunato, poi, il Pesce gappista è dotato di un sangue freddo eccezionale ed è un organizzatore meticoloso, un perfezionista dell'azione. Mai accecato dall'odio, Pesce sa che la sua vita e quella dei suoi compagni, o di un passante sconosciuto, sono più preziose della morte dell'ufficiale nazista o della spia repubblichina.

E' un uomo, Pesce, che ama la vita in tutte le sue forme malgrado gli sia stata così dura, ama persino la vita in miniera, che ha conosciuto poco più che bambino in Francia, perché in miniera si sente a casa tra i suoi compagni («uomo fra gli uomini, i migliori che avessi mai conosciuto») che provengono da tutta Europa. E' la prima brigata internazionale, quella dei minatori de la Grand' Combe, alla quale partecipa, giovanissimo volontario («lo decisi non appena mi iscrissi al Partito Comunista Francese»); molti di quei minatori sono esuli antifascisti, base naturale del Pcf che in quel distretto minerario è presente ed organizzato.

Pesce è un figlio del secolo breve: i suoi non si sarebbero mai conosciuti, lui piemontese lei veneta, se la prima guerra mondiale non li avesse avvicinati. Papà socialista, mamma cattolica, un pezzetto di Italia post-giolittiana che la miseria, la persecuzione politica, l'assenza di prospettive spingono verso l'emigrazione.

E' troppo piccolo, per sapere cos'è il dolore della separazione, dovrà attendere il 1929, quando lascia Medoc, il cane pastore compagno di un estate nel suo primo "vero" lavoro di pastore di mucche.

Tre anni dopo è iscritto all'Associazione dei Pionieri e poi alla Jeunesse Communiste, l'adolescente guarda alla miniera come ad un atto di solidarietà e di iniziazione, non a caso l'ingresso in Officina è simultaneo all'iscrizione al Partito. E nel Pcf, da attivista superimpegnato, vive le elezioni del '35 e del '36, in quel clima di internazionalismo antifascista che caratterizza particolarmente le regioni di immigrazione.

Giorni di festa, gli ultimi di aprile del '36. Successo elettorale del Pcf, vittoria del Fronte popolare, che qualche settimana dopo lo ospita a Parigi, tra i delegati dei giovani comunisti, per l'immensa manifestazione antifascista che vede sul palco Dolores Ibarruri e Maurice Thorez. La decisione è presa, in Spagna si combatte contro il fascismo, il nemico dei minatori, ed è lì che bisogna andare a combattere.

E' in Spagna, paradossalmente, che il giovane comunista "francese" (non parla italiano, vorrebbe combattere assieme ai francesi) conosce l'Italia: nelle pause di guerra studia la grammatica italiana, il Risorgimento, il fascismo. Suoi maestri sono antifascisti italiani, parte di un elenco straordinario di figure leggendarie che la memoria incredibile di questo ottantasettenne fa rivivere agli occhi di un lettore frastornato da una serie sterminata di note biografiche a piè pagina. Quanti di questi nomi sono stati dimenticati! La storia della più breve di quelle esistenze, è un pezzo di storia dell'Italia e della democrazia europea!

Dura poco la pausa francese, la primavera del '40 vede il crollo della Republique, i tedeschi dilagano, gli antifascisti vengono arrestati in massa. Ed è quasi subito galera, poi, dopo un anno, il confino. A Ventotene compie gli studi superiori, il corpo insegnante è superbo: Ravera, Scoccimarro, Terracini, Curiel, tra i tanti confinati comunisti. Tra mille espedienti per sopravvivere e stabilire il più semplice contatto umano, si studia sul serio! Nell'isola conosce Secchia, Longo, Di Vittorio ed una parte enorme dei futuri gruppi dirigenti della Resistenza.

Emerge anche qui un tratto peculiare della personalità di Pesce: il militante disciplinatissimo («il Partito ha sempre ragione») parla con deferenza degli "altri", i non comunisti, ma mantiene i rapporti più affettuosi con gli "eretici" della chiesa comunista.

Dagli scioperi del marzo '43, all'arresto di Mussolini, all'agosto del ritorno a Visone, il paese natale, il tempo vola nel suo ricordo. Inizia qui la parte più nota della sua storia che ha per sfondo Torino e poi Milano.

Pesce chiarisce lucidamente le differenze enormi che corrono tra la guerra per bande che si conduce nelle campagne o in montagna e l'azione militare dei Gap, che ha per teatro la città, fatta di atti di sabotaggio pericolosissimi, di attacchi improvvisi, condotti quasi individualmente, contro bersagli umani che si possono guardare in faccia.

Il pudore del narratore non fa velo all'inaudita violenza che il garibaldino di Spagna esercita su sé stesso. Notti insonni, poi determinazione assoluta, anche perché, prima a Torino poi a Milano, "Visone" è chiamato a riparare organizzazioni semidistrutte dai colpi del nemico.

Può stupire che ad una domanda precise e finale, Pesce risponda che il momento più alto della sua vita è stato la guerra di Spagna anteponendola alla Resistenza, anteponendo cioè una sconfitta tragica (ma le brigate internazionali sono state sconfitte?) ad una vittoria esaltante. Anteponendo anche l'apprendista tra tanti al protagonista della guerra in città, dove talvolta però si sente solo. La milizia di soldato semplice in un esercito di fratelli che parlano tante lingue diverse gli sta più a cuore della medaglia d'oro al valor militare così meritatamente conquistata nelle file della Resistenza.

Di straordinario interesse e illuminante è la memoria dettagliatissima, dei primi, decisivi, duri anni del dopoguerra, del complesso travaglio del mondo partigiano e del suo rapporto col Pci che si va organizzando e radicando. Anche in questo caso emergono l'equilibrio e l'autonomia critica di Pesce, d'altra parte in quelle circostanze così difficili egli utilizzò tutto il suo prestigio per svolgere un'opera di mediazione e di moderazione nei confronti delle frange più insofferenti verso le provocazioni della reazione.

Anche quando non condivide, è il caso dell'amnistia di Togliatti, prevale la disciplina, corroborata dalla comprensione degli scopi e da una fiducia profonda nel gruppo dirigente del Pci.

Pesce ha con la violenza, che ha tanto subito e praticato, un rapporto esemplare, tutto politico. La guerra è finita, si apre un nuovo terreno di confronto, democratico, presto costituzionale. Sul culto virile e l'ostentazione delle armi, sulle tentazioni giustiziere o sul sogno insurrezionale è drastico, che si tratti di Seniga o della Volante rossa o dell'amico Feltrinelli. Prima che i fatti gli diano totalmente ragione su Seniga, sbatte la porta e lascia il suo incarico di massimo responsabile della vigilanza del Partito.

Pesce risponde ai suoi intervistatori senza reticenze; dal suo osservatorio milanese viene fuori una testimonianza fresca e vivace: la rottura del '47, le elezioni del '48 e l'attentato a Togliatti, gli anni '50 e il governo Tambroni, il movimento studentesco, la strategia della tensione e la vicenda Feltrinelli. Le vicissitudini politiche e personali si alternano a schizzi incisivi di personaggi come Togliatti o a ricordi commossi come quello dell'ultimo Amendola.

Colpisce, tra uomini così diversi per estrazione, formazione ed anche, in qualche misura, orientamento politico, il rispetto, direi l'ammirazione, reciproci che li fa pari. Virtù di circostanze straordinarie vissute insieme e di quello straordinario partito che, fino ad un certo periodo, è stato il Pci. Allo scioglimento del quale tanti anziani compagni aderiranno al Pds per un malinteso "senso di fedeltà ", quasi che il nuovo Partito fosse la naturale prosecuzione del vecchio.

Pesce dà un giudizio, ancora una volta, puntuale, lucido di quella operazione e delle sue conseguenze. Sceglie di ricominciare da capo, con noi, con Rifondazione Comunista, perché più giovane di tanti giovani e perché è un combattente che non sa obbedire all'ordine di resa.

Pesce non è mai stato parlamentare, errore non irreparabile, visti i nomi che circolano per la nomina di senatore a vita. Penso che la Repubblica italiana gli debba ancora qualcosa di più del prezioso riconoscimento del valor militare. E ancor di più Rifondazione Comunista, il suo e il nostro Partito, potrebbe lavorare per questo obiettivo raccogliendo centinaia di migliaia di firme. Per la Resistenza, contro ogni revisionismo, il Comandante Pesce Senatore a vita.