www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - antifascismo - 28-05-06

La storia di Igor Dekleva


Cari compagni, alcuni giorni fa è morto a Trieste, dopo una lunga malattia, il compagno Igor Dekleva, partigiano. Lo ricordo come una persona forte e gentile assieme, che mi ha fatto capire come a volte delle scelte violente possano essere fatte anche da chi non sarebbe violento per propria indole, ma che alla fine della violenza non desiderano altro che vivere in pace. Le pagine che seguono fanno parte di uno studio sull'Ispettorato Speciale di PS, che operò nella "Venezia Giulia" tra il 1942 ed il 1945, e raccontano le vicende tragiche e paradossali che costituirono la vita di Igor Dekleva. Dato che Igor è morto prima di poter leggere quanto ho scritto su di lui, desidero rendere pubblica la sua vicenda in questo modo, per ricordarlo anche a chi non l'ha conosciuto.

Saluti resistenti

Claudia Cernigoi - Trieste

 

La storia di Igor Dekleva.

Un paio d’anni or sono scrissi un articolo sulla vicenda di Igor Dekleva, che riprendeva quanto apparso in un libro di Gian Pietro Testa [1].


«Quello di Igor Dekleva è un caso che soltanto all’apparenza può sembrare paradossale, mentre è sintomatico. (…) Appartenente ai GAP di Trieste, Dekleva cadde in un’imboscata degli uomini dell’Ispettorato Speciale di PS il 24 aprile 1945 (…) Dekleva si difese, ci fu una sparatoria, lui rimase ferito, un brigadiere di Collotti morì. Dekleva era stato processato nel 1943 in Croazia (dov’era nato) da un tribunale degli ustascia ed espulso in Italia perché “partigiano italiano”; nel ‘45, anche dopo l’arrivo degli alleati a Trieste, egli non aveva patria e divenne ufficialmente apolide. Nel 1954, durante la festa della polizia a Palermo, Gaetano Collotti fu insignito della medaglia d’argento [2] al valor militare alla memoria. (…) Pochi mesi dopo la medaglia a Collotti, Dekleva, uno dei suoi perseguitati, fu sottoposto a processo per il reato di omicidio nella persona del brigadiere (…) Non subì carcere, Dekleva, perché il giudice riconobbe che il reato era coperto da amnistia. Ma moralmente il giudice, nella sua sentenza, volle condannare Dekleva, fornendo una sottile disquisizione sul valore della vita umana. Di quella del brigadiere di Collotti, naturalmente, non di quella del partigiano apolide. Legittima difesa? Azione di guerra? Neanche parlarne. L’amnistia: anche troppo per un apolide di nome sloveno, nato in Croazia ».

Qualche tempo dopo incontrai lo stesso Dekleva che mi spiegò che i fatti non si erano svolti proprio come li riferiva Testa e mi raccontò cos’era realmente accaduto [3].

Igor Dekleva non avrebbe voluto combattere. Voleva studiare per diventare medico, farsi una famiglia, avere una vita normale. Cose queste che sotto il fascismo erano impossibili per uno come lui, sloveno e comunista. La sua famiglia aveva dovuto rifugiarsi da Trieste a Zagabria, da dove era stata poi espulsa nel 1942, perché “partigiani italiani”; così ritornarono a Trieste.

La madre Vera Kalister fu uccisa in Risiera nel giugno del ‘44; il padre Stanislao fucilato per rappresaglia ad Opicina il 3/4/44 assieme ad altri settanta ostaggi; il fratello Cirillo, partigiano EPLJ del Distaccamento Litorale Meridionale, cadde il 29/7/44 a San Giacomo in Colle-Štjak [4].

Igor Dekleva “Miha”, a Trieste faceva parte del comitato circondariale della Zveza Slovenske Mladine (ZSM, Unione della Gioventù slovena) e militava nei GAP; « dopo gli arresti del novembre e dicembre l’associazione della gioventù slovena ottenne un notevole rinforzo con la venuta a Trieste dei noti compagni Igor Dekleva-Miha e Carlo Šiškovič-Mitko. Quando tutte le compagne che costituivano il comitato circondariale dovettero trasferirsi nella zona già liberata, perché continuamente pedinate dalla polizia, tutta l’organizzazione della gioventù rimase in mano dei compagni Miha e Mitko » [5].

La sera del 24 aprile 1945 Dekleva andò ad una riunione clandestina in un appartamento di via Gatteri, ma quando fu sul pianerottolo si rese conto che nell’appartamento c’era la polizia che lo stava aspettando. Gli agenti Ernesto Cenni e Raimondo De Franceschi aprirono la porta e spararono addosso a Dekleva; lui rispose al fuoco gettando una bomba e ferendo a sua volta gli agenti e scappò giù lungo le scale. Davanti al portone trovò un poliziotto, Giuseppe Foti.

« Foti non era della banda Collotti, semplicemente abitava in quel palazzo. Mi puntò contro la pistola perché voleva arrestarmi. Non fare il cretino, lasciami andare, gli dissi, non sei neanche in servizio. Niente da fare, non mi avrebbe lasciato andare. Io ho dovuto sparare, se non sparavo io mi avrebbe ammazzato lui ».

Dekleva scappò in strada ed in via Ginnastica trovò un milite della Decima, Attilio Riva, che cercò di fermarlo. Dekleva gli sparò e l’altro rispose, colpendolo.

« Mi sparò addosso perché non aveva scelta. O io o lui. Era la guerra ».

Dekleva fu ricoverato all’ospedale, gravemente ferito.

« Arrivò un’ambulanza militare che mi prese su per portarmi all’ospedale. Quelli dell’Ispettorato volevano ammazzarmi subito, ma l’autista glielo impedì, mi condusse all’ospedale, e loro con me. Nell’atrio presero a picchiarmi, ma fu lo stesso portiere a prendere le mie difese, li bloccò. “Questo è un ospedale, disse loro, dove credete di essere?” e quelli mi lasciarono stare. Poi venne Collotti in persona, per arrestarmi, ma i medici non gli permisero di portarmi via, il dottor D’Este, che aveva già salvato molte persone, gli mostrò le mie lastre, dove si vedeva che avevo una scheggia nell’addome e gli disse che ero in fin di vita. Per inciso, quella scheggia, ce l’ho ancora, non è che fossi in fin di vita per quel motivo, ma evidentemente a Collotti la cosa fece impressione e lasciò perdere. Per alcuni giorni quindi mi piantonarono per portarmi via appena possibile, ma per fortuna arrivarono gli ultimi giorni di aprile e tutta la “banda” scappò da Trieste perché stavano arrivando i partigiani. Io rimasi in ospedale due mesi, perciò ho un alibi di ferro se qualcuno vuole imputarmi qualche “infoibamento” in quei giorni; uscii dall’ospedale dopo che gli jugoslavi lasciarono il posto agli angloamericani », concluse Dekleva con un pizzico di amara ironia.

Il 26/4/45 presso l’Ospedale Maggiore di Trieste fu steso dal giudice istruttore Ferruccio Bercich il seguente « processo verbale di esame testimoni in via informativa » [6].

« Covacich Giovanni fu Luigi ab. via Giulia 24 presentemente ricoverato all’Ospedale. L’Ufficio dà atto che gli agenti di PS Attanasio Sante e Jerovasi Giuseppe dell’Ispettorato Speciale, addetti al piantonamento del ferito Giovanni Covacich (…) hanno dichiarato che per precise disposizioni ricevute dal dott. G. Collotti (…) non sono autorizzati a permettere che il Covacich venga esaminato. A richiesta dell’Ufficio l’agente ausiliario di PS Moretti Gaetano, pure dell’Ispettorato Speciale, dichiara di essersi messo in comunicazione telefonica col dott. Collotti e di aver ricevuto conferma dell’ordine retroindicato con la precisazione che il divieto di esaminare il ferito si estende altresì all’autorità giudiziaria, qualora manchi l’autorizzazione dell’autorità germanica di polizia ».

Vista la coincidenza delle date, domandai ad Igor Dekleva se sapesse qualcosa di questo Covacich. Dekleva si mise a ridere. « Certo che lo so, ero io », e mi spiegò come si erano svolti i fatti.

« Covacich era il nome che risultava sulla carta d’identità che avevo con me quando sono stato catturato, falsa naturalmente, per questo risulta nei loro verbali. Chi mi riconobbe in ospedale, invece, fu un tedesco, un certo Wolf, che mi aveva arrestato tempo addietro, ma dal quale ero riuscito a scappare. “Ci rivediamo, dunque, Dekleva”, mi disse. Ma i Tedeschi lasciarono Trieste il 26 o 27 aprile, chi rimase qui fino all’ultimo furono i banditi di Collotti, rimasero qui anche durante l’insurrezione… mi sembra che abbiano anche fucilato qualcuno negli ultimi giorni di guerra ».

Quando spiegai a Dekleva come mi fossi imbattuta nel nome Covacich, volle sapere i nomi di quelli che lo avevano piantonato e, dato che risultava dal verbale, glieli dissi. Aggiunse che durante il loro “servizio”, i due non mancavano di dargli dei colpi sulla gamba rotta, per vendicarsi del fatto che non potevano portarlo via dall’ospedale, visto che i medici lo avevano dichiarato in fin di vita.

Attanasio fu processato per collaborazionismo nel dopoguerra, condannato in primo grado e poi amnistiato. Sostenne a propria discolpa che era semplicemente andato a dare il cambio ad un collega, come se ciò non comportasse una sua partecipazione alle attività del Corpo.

Attilio Riva fu processato nel 1946; sostenne di avere sparato a Dekleva credendolo un ladro, gli fu riconosciuto che non poteva sapere di avere sparato contro un partigiano e fu assolto con formula piena. Fu assolto anche dal reato di collaborazionismo perché « il solo fatto di essere stato della Decima Mas » non comprovava il collaborazionismo.


Neppure con la fine della guerra e del nazifascismo Dekleva ebbe la vita facile, come abbiamo già visto. A parte l’arresto ed il processo per avere ucciso il brigadiere Foti e ferito gli altri due agenti, dovette lottare a lungo per ottenere la cittadinanza italiana, dato che era considerato apolide. Nonostante si fosse laureato in un’Università italiana, avesse sposato una cittadina italiana e vivesse da ventotto anni a Trieste, quando nel 1970 chiese per l’ennesima volta la cittadinanza italiana, gli risposero negativamente. « Non risulta che l’interessato si sia assimilato all’ambiente nazionale », la motivazione ufficiale. Rimase apolide per altri anni, fino al 1985, quando fu naturalizzato in base alla legge 21/4/83 (concessione della cittadinanza a stranieri che hanno sposato una cittadina italiana).

 

Dekleva è un uomo che avrebbe voluto semplicemente vivere una vita normale, non combattere ed ammazzare altri uomini, ma fu costretto a farlo. Non è anche questa un’ennesima violenza fatta contro altri esseri umani, costringere qualcuno a diventare violento anche se non vorrebbe?

 



[1] Il brano seguente è tratto dal libro di Gian Pietro Testa “La strage di Peteano”, Einaudi, 1975, p. 78, 79.

[2] In realtà la medaglia era di bronzo, come vedremo più avanti.

[3] Testimonianze di Igor Dekleva all’autrice, luglio 1998 e agosto 2002.

[4] “Caduti, dispersi e vittime civili…”, cit..

[5] In “Trieste nella lotta verso la democrazia”, op. cit., p. 73.

[6] Carteggio processuale Gueli, cit.