www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - antifascismo - 19-10-06

A proposito del pansiero, cioè il pensiero di Pansa

di Claudia Cernigoi
 
Non ho letto gli ultimi due libri di Pansa, ed ho interrotto (ho smesso perché il mio stomaco si ribellava: o era il mio animo?) la lettura del “Sangue dei vinti”, fermandomi inorridita al capitolo in cui il giornalista che rimpiange la morte di aguzzini fascisti lamenta l’esecuzione sommaria di Gaetano Collotti, pescando a piene mani per questa storia (pur senza citare la fonte) nel libro “I giorni di Caino” (Mondadori 2003) di Antonio Serena, autore che ebbe un periodo di notorietà per essersi fatto espellere dal gruppo parlamentare di Alleanza Nazionale dopo che aveva diffuso in aula il video e il libro con l’autodifesa di Erich Priebke, ed entrò poi nel gruppo parlamentare di Alternativa Sociale.
 
Perché mi ha fatto tanto effetto il capitolo dedicato alla fucilazione (sì, sommaria) di Collotti? Perché, e questo Pansa non lo spiega, Collotti era un sadico commissario di polizia, dirigente l’Ispettorato Speciale di PS a Trieste, organismo che causò la morte di centinaia di persone, tra esecuzioni sommarie, rastrellamenti, internamenti nei lager nazisti, od anche soltanto perché i prigionieri non sopravvivevano agli interrogatori condotti con la corrente elettrica, le bastonate e vari strumenti di tortura. Ai quali interrogatori spesso e volentieri Collotti non si limitava a dirigere le operazioni, ma ci si applicava di persona, come risulta dalle testimonianze di chi sopravvisse.
 
Ma allora Collotti è, secondo Pansa, un vinto, quindi una vittima, una persona per la cui fine bisogna criminalizzare la Resistenza? Ma Pansa lo sa che era un ordine emanato dal CLNAI quello di fucilare sul posto tutti i fascisti e i militari (anche i poliziotti erano militari) della RSI che non si arrendevano e venivano trovati con le armi in pugno (come fu trovato Collotti, ad esempio)?.
 
Immagino che Pansa, una volta visto dove tirava il mercato, si sia impegnato a fondo nello scrivere di quello che va di moda oggi, cioè che la Resistenza, dato che non va angelicata, come sostenne a suo tempo Bertinotti, di conseguenza va demonizzata: e una volta demonizzati i partigiani, a questo punto viene naturale di santificare i fascisti.
 
È ben vero che siamo tutti esseri umani, e che erano esseri umani sia i partigiani sia i fascisti. Detto un tanto, tagliamo la testa al toro. Chi ha preso il potere con violenza, ammazzando e torturando gli oppositori politici, il fascismo o gli antifascisti? Chi ha iniziato una guerra d’aggressione assieme alla Germania nazista contro il resto dell’Europa e del mondo, il governo fascista o gli antifascisti? La guerra e le dittature non sono un gioco, dove si vince o si perde ma si resta amici: dopo vent’anni di dittatura e cinque di guerra, il meno che possa accadere è che vi siano vendette e rese dei conti. Non è una cosa bella, ma è una cosa umana.
 
Vorrei ora raccontare due storie, due piccole storie minori, come piace raccontare a Pansa.
 
A Trieste nel 1947 sotto amministrazione angloamericana è stato celebrato un processo contro alcuni partigiani che avevano ucciso, “infoibandole”, dopo la fine della guerra, le spie che li avevano traditi, e a causa delle quali erano morti diversi loro compagni, tra i quali il padre di uno degli imputati.
 
Naturalmente farsi giustizia sommaria è un reato, e questi partigiani sono stati condannati.
 
Ma a Trieste vive anche un signore che aveva sedici anni quando è stato arrestato e torturato dai nazifascisti. Subito dopo la fine della guerra, un tribunale jugoslavo gli ha chiesto di testimoniare contro uno dei suoi aguzzini, un giovane di pochi anni maggiore di lui. Al processo vide la madre dell’imputato che piangeva, perché sapeva che il figlio sarebbe stato condannato a morte. Il torturato non se la sentì di testimoniare contro il suo torturatore, perché provò pena per la madre che piangeva, e disse che non ricordava bene.
 
Due storie simili, completamente diverse, dove la prima rientra nella “normalità” della vita, la seconda nelle eccezioni che trasformano una persona in un eroe, un santo. Ma non possiamo pretendere che tutti siano santi od eroi, e di conseguenza criminalizzare le reazioni (anche eccessive) di chi ha sofferto cose indicibili.
 
E del resto, chi siamo noi, che oggi viviamo sereni nelle nostre tiepide case, che non sappiamo cosa sia l’olio di ricino, le bastonate e le torture, che non conosciamo l’impossibilità di parlare nella nostra lingua e di dire ciò che pensiamo, noi che non abbiamo vissuto i rastrellamenti, gli incendi delle nostre case, le deportazioni ed i campi di sterminio, la fame e le esecuzioni, i genocidi, chi siamo noi per giudicare oggi chi si fece giustizia da sé, signor Pansa?