Da Fulvio Grimaldi per L’Ernesto, aprile 2003
Meccanismi e strategie dell’informazione nella costruzione del nemico e del
conflitto.
Precedenti e caso Iraq.
La guerra dei Sei Giorni
Era il giugno 1967. Allo scoppio della guerra dei Sei Giorni tra arabi e
israeliani, con pochissime eccezioni l’opinione pubblica, fortemente
condizionata da media che subivano la pressione dalla lobby ebraica e
riflettevano il profondo senso di colpa e di compassione nei confronti dei
sopravvissuti all’olocausto, era convinta delle buone ragioni degli israeliani,
“aggrediti da un oceano arabo e minacciati di essere ributtati in mare”.
L’esperienza di chi scrive, inviato per Paese Sera, e della maggioranza dei
corrispondenti, fu diversa e vide il confronto impari tra un esercito che già
allora, rifornito di tutto dagli USA, spazzava via armate arabe sottoarmate e
sottoequipaggiate e ulteriormente indebolite da vent’anni di lotta
anticoloniale. La formula del premier israeliano, Golda Meir, di “un popolo
senza terra per una terra senza popolo” fu smentita dalla comparsa del popolo
palestinese e dalla graduale conoscenza di un terrorismo ebraico che ne aveva
ridotto di due terzi, a forza di villaggi dinamitati ed espulsioni di massa, la
presenza demografica. Fu la prima volta che la televisione, non ancora
rigorosamente controllata, partecipo’ a un evento bellico e ne riferì con
relativa onestà. Il risultato fu una progressivo, seppur sempre parziale,
limitato essenzialmente alle sinistre, rovesciamento del giudizio su torti e
ragioni del conflitto israelo-palestinese.
L’Irlanda del Nord
Un processo analogo ebbe luogo negli stessi anni a proposito della
guerra imperialista contro la libertà e l’autodeterminazione dei popoli
indocinesi, provocando un movimento mondiale di solidarietà che s’ allargò a
comprendere la contestazione degli assetti di potere, politici, sociali e
culturali esistenti. La lezione di questi sviluppi fu appresa per primi e molto
rapidamente dai britannici in Irlanda del Nord, dove l’antagonismo,
inizialmente pacifico, delle comunità cattolico-repubblicane verso il dominio e
l’apartheid di protestanti e unionisti, nel ruolo proconsolare del colonialismo
di Londra, venne rappresentato come un irrazionale scontro confessionale e,
successivamente, all’atto della lotta di liberazione, come terrorismo tout
court. L’esempio più rappresentativo della deformazione politico-mediatica di
quel conflitto si ebbe a Derry, in occasione della “Domenica di sangue” del 30
gennaio 1972. Fui, insieme a un fotografo francese, unico testimone di quella
strage a sangue freddo. Per la prima volta dal dopoguerra, in un’occasione di
portata storica e di rilievo internazionale, ai giornalisti fu preventivamente
inibita la presenza all’evento. Cavalli di frisia, cancellate e reparti militari
bloccarono l’intera zona. Giornalista povero, avevo avuto la fortuna di
trovarmi già all’interno del ghetto, ospitato non negli alberghi del centro, ma
da una famiglia cattolica. Ciò mi permise di assistere allo svolgersi degli
eventi e di documentarli, dall’inizio del corteo di 20.000 cittadini inermi,
alla conclusione dell’assalto da parte di un battaglione di parà britannici
che, senza la minima provocazione, falciarono a fucilate 14 cittadini innocenti
in fuga e ne ferirono altri 16. Nel tg della BBC alle 18 di quel giorno,
comandanti su piazza e ministri del governo di sua maestà affermarono che i
militari erano stati attaccati, prima da hooligans
(teppisti) e, successivamente, con le armi da “terroristi” dell’IRA. Una
versione confermata per 25 anni, nonostante i miei documenti audiovisivi e
centinaia di testimonianze oculari, da tutti i media, da una commissione
d’inchiesta, dalle autorità. Fu solo l’ostinazione della comunità di Derry, che
non smise di invocare e documentare la verità, che Tony Blair fu costretto nel
1997 a decidere una nuova inchiesta, tuttora in corso e in via di
insabbiamento. Credo che la mistificazione di “Bloody Sunday” abbia segnato una svolta radicale nel controllo
dell’informazione da parte delle “Grandi Democrazie”.
Prima guerra del Golfo e
Jugoslavia
Si trattava, fino ad allora, a prescindere dagli agenti tradizionalmente
infilati nelle redazioni e nelle case editrici, eminentemente di una
subalternità fisiologica – non senza “giri di valzer” di qualche firma
autorevole - garanzia di credibilità per l’impostazione tendenziosa - dei
grandi media al potere costituito, elargitore di pressioni, ma anche di
prebende e prestigio. Successivi perfezionamenti tecnico-politici del
meccanismo di oscuramento e intossicazione furono applicati nella Guerra del
Golfo del ’91, con inviati ristretti nelle basi USA sparse per la Penisola
Arabica che, indecorosamente, accettarono di riecheggiare i briefing quotidiani del portavoce, o
comandante alleato, di turno, e poi in Somalia, in Jugoslavia e in Afghanistan.
In questi casi si mise in moto, in modo più scientifico e massiccio che in
passato, la demonizzazione preventiva dell’avversario (già sperimentata nei
confronti di nemici come Fidel, o Ho Ci Min), principalmente nella sua
leadership, ma anche relativamente a un’intera popolazione “storicamente tarata
dalla sopraffazione e dalla violenza nazionalista”. Le smentite documentate
circa i “tesori” di Milosevic, la sua “dittatura” e una pulizia etnica cui si
arrivò ad attribuire 400.000 vittime albanesi kosovari (così, ancora giorni fa,
Giovanna Meandri), rimasero schiacciate in ambiti di ricerca specialistica e
permettono tuttora a un D’Alema di vantarsi dell’”intervento umanitario”. Il
dato di 2800 morti di tutte le etnie
nel corso della guerra civile kosovara e di 78 giorni di micidiali
bombardamenti sui civili, e di nessuna fossa comune reperita, non emerse in
Italia che in una pagina interna, a taglio basso, dell’Unità. Persistono
tuttora le fandonie circa gli attentati al mercato di Sarajevo (attribuite ai
serbi, ma provate dall’ONU come opera di Izetbegovic), i lager serbi (costruiti
dall’emittente ITN), Sebrenica (massacro operato da bande musulmane in
competizione), in gran parte diffuse da un corpo di 50 giornalisti delle
maggiori testate riuniti a Bruxelles e imbeccati quotidianamente dal portavoce
Nato Jimmy Shea.
La nuova aggressione
In vista della nuova aggressione nel Golfo, furono riattivate le agenzie
di disinformazione al soldo del Pentagono, come la Ruder & Finn, o la
Hill& Knowles, già operanti, sul libro paga del Pentagono, del Kuwait, di
Pristina, nella prima guerra (con storie come quella dei bambini kuweitiani
strappati alle incubatrici dagli invasori iracheni e gettati per terra a
morire, raccontata piangendo da una presunta infermiera testimone, che risultò
essere la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, mai mossasi da lì).
Ma si provvide negli USA a inserire nel lavoro anche le istituzioni. Al
Pentagono fu affidato il compito maggiore, con suoi “esperti” collocati presso
le redazioni dei maggior media, a controllo della “linea”, degli intervistati e
dei servizi in arrivo; con la convocazione, dopo l’11 settembre, dei direttori
ed editori presso Condoleeza Rice, Consigliera per la Sicurezza Nazionale, per
ricevere intimazioni di obbedienza e conformità con le direttive
propagandistiche del governo, in particolare sulla versione ufficiale degli
attentati e del fenomeno terrorismo; con l’istituzione dell’ “Ufficio di
Influenza Strategica” presso il Pentagono, incaricato di diffondere posizioni
ed “invenzioni” in armonia con gli obiettivi politici e strategici della
mobilitazione “antiterroristica” e della “guerra permanente e, se del caso,
preventiva”. Ufficio poi formalmente abolito su proteste di settori liberal, ma subito riattivato
informalmente da Rumsfeld. Ai giornalisti angloamericani presenti a Baghdad
fino a poco prima dell’aggressione, veniva intimato dal governo di andarsene.
Solo agli assolutamente allineati fu consentito di restare, insieme a pochi
europei, asiatici e latinoamericani. Tra questi Peter Arnett che,
coerentemente, fu cacciato non appena si azzardò a dire alla Tv nemica, non
ancora obliterata nonostante i ripetuti missili, che la guerra era stata fin lì
un sostanziale fallimento. Gli altri si ebbero le cannonate dei carri
statunitensi, non appena questi furono a tiro dell’Hotel Palestine, sede nota e
ufficiale del corpo giornalistico presente a Baghdad. Analogo avvertimento
venne somministrato a un gruppo di siriani, futuri “terroristi” da abbattere, e
all’ambasciatore russo, ferito nel convoglio che lo portava in Siria, per
l’avversione mostrata da Mosca per aggressione e protettorato coloniale USA,
subito qualificato dal coro degli embedded
“errore collaterale” o, più probabilmente, “sparatoria irachena”. Dodici erano
stati i giornalisti uccisi, tutti dagli angloamericani, alla terza settimana di
invasione. Nessuno da parte irachena e, senza voler essere particolarmente
benevoli, a noi inviati a Bagdad risultarono sistematicamente più veritiere le
notizie fornite, pur tra fiumi di retorica, dai portavoce iracheni che quelle
provenienti dal Generale Brooks a Doha.
E’ dal meccanismo costruito dal governo statunitense che si andavano
diffondendo le “informazioni” relative alla natura perversa del regime di
Baghdad, alle sue armi di distruzione di massa, alle camere di tortura
scoperte, agli stupri ed eccidi testimoniati, ai suoi collegamenti con Al Qaida
(da sempre nemico mortale del laico Saddam, oltrechè creatura dei servizi USA),
lubrificanti di un’aggressione che avrebbe mutato l’assetto giuridico,
strategico, politico e morale, non solo dell’Iraq, del mondo. Ogni imputazione
veniva decontestualizzata e quindi falsata. Assenza di democrazia di tipo
occidentale, sì, controlli sociali severi, repressione, ma anche un forte
progresso sociale ed economico. Regime monopartitico e liquidazione della
secessione curda, vero, ma dimenticando l’iniziale struttura multipartitica di
uno Stato che era stato guidato dal 1968 al 1979 (guerra con l’Iran) da una coalizione
con il Partito Arabo Socialista Baath, il Partito Comunista e il Partito
Democratico Kurdo; o, ancora, l’autonomia e l’autogoverno concesso al
Kurdistan.
Bersagli a sinistra.
Alla denuncia dell’indiscutibile
carattere dittatoriale del potere iracheno, si accostavano i “benevoli” regimi
degli sceiccati ed emirati vicini, fondati sulla schiavitù, lo sfruttamento e
addirittura privi di voto e di esistenza politico-culturale delle donne.
Giornalisti “di rango” erano pronti a immettere il loro fiato nelle trombe
della “guerra preventiva” e dell’”esportazione della democrazia”. Ridicolizzate
e definite fantocci del regime furono personalità come Dennis Halliday o Hans
von Sponeck, rappresentanti di Kofi Annan per la gestione degli aiuti
alimentari, che avevano definito il sistema statale di distribuzione gratuita
di viveri al 70% della popolazione come uno dei più efficienti e meno corrotti
della loro esperienza (a questo proposito vale la pena ricordare un’esperienza
personale con l’allora direttrice del TG3, Lucia Annunziata, appassionata
propalatrice di efferatezze irachene, che, alla mia proposta di corrispondenze
da quel paese nel 1997, mi intimò pubblicamente di non mostrare l’ombra di un
bambino sofferente, o morto per via dell’embargo, o dell’uranio, “per non
rischiare di criminalizzare l’Occidente”).
Mirata soprattutto ai settori della sinistra, suscettibili di osteggiare
l’aggressività imperialista contro la sovranità degli Stati e di ribadire il
concetto giuridico per cui spetta solo al popolo interessato, e non ad
interventi esterni, decidere sulla natura del proprio governo, si insisteva su
veri o supposti, documentati o smentiti crimini del regime. Forse i curdi
furono gassati a Halabjeh da Saddam, ma secondo i giornali del ’88 e, oggi, secondo
il capo-analista CIA della guerra Iraq-Iran, Stephen Pellettier (vedi il New
York Times del 31 gennaio scorso), forse sono state le truppe iraniane.
Varrebbe la pena di approfondire, anche per dare maggiore affidabilità a una
denuncia non inquinata da voracità petrolifera.
Quanto ai curdi, che Khomeini aveva sanguinosamente represso in Iran, ma ai
quali aveva promesso l’indipendenza in caso di vittoria sull’Iraq, iniziarono,
con formazioni minoritarie ma sostenute dagli USA (il fondatore del Partito Democratico
Kurdo, Mustafa Balzani, morì negli USA, pensionato della CIA), un processo di
secessione che fu affrontato dall’esercito regolare, non meno di quanto
successe in Kosovo tra UCK e Belgrado. Fu repressione durissima. Ma, come in
Kosovo tra Rugova e UCK, la maggior parte di vittime si ebbero negli scontri
intertribali tra Partito Democratico Kurdo, Unione Patriottica Kurda, altre
formazioni tribali in conflitto per l’egemonia nella regione, per i profitti da
petrolio e per la benevolenza statunitense.
La questione comunista
Nel 1979, allo scoppio del conflitto
Iraq-Iran, il PCI, al potere nel Fronte Nazionale di Baghdad, si spaccò in due
fazioni: una considerò opportuno, per motivi geopolitici e per contenere il
contagio islamista nella repubbliche asiatiche dell’URSS, schierarsi con
Khomeini e andò addirittura a combattere con gli iraniani. L’altra fu sì
estromessa dal governo e andò in esilio a Damasco, ma ha poi ripreso il dialogo
con Baghdad e molti suoi dirigenti e militanti erano tornati in patria per
combattere l’invasore, “nemico principale”. Un numero imprecisato di capi della
fazione pro-iraniana furono catturati, processati e giustiziati. Ne discende
che oggi abbiamo i comunisti legati al Congresso Nazionale Iracheno di Shalabi,
con sede a Londra, ma anche quelli che, tra l’8 e il 9 febbraio a Parigi, hanno
partecipato al 2° congresso della Coalizione Nazionale Irachena che raggruppa,
oltre al Movimento Nazionaldemocratico Comunista, guidato da Ahmed Karim, altre
formazioni progressiste e patriottiche irachene, come i nasseriani, i
socialisti, il Partito per la Giustizia e la Riforma, il Consiglio Beduino
Iracheno, il Partito Nazionale Arabo, il Partito Verde e il Partito della Pace.
Il leader del raggruppamento, Abdel Jabaar al Kubaysi, dell’ala sinistra del
Baath, prima dell’aggressione stava negoziando un accordo con le autorità di
Baghdad per una lotta comune contro il nemico imperialista e per una riforma in
senso multipartitico e democratico delle istituzioni irachene.
Embedded,
“a letto con i militari”.
Delle menzogne relative alle motivazioni per l’aggressione in corso, armi di
distruzione di massa, terrorismo, rapporti con Al Qaida, ha dato ampiamento
conto, per ultimo, l’imbarazzante esibizione di Colin Powell il 5 febbraio
all’ONU, nonché il falso dossier sugli armamenti iracheni del premier
britannico, copiato da una vecchia tesi di laurea. Più difficile risulta
contrastare l’oceanica ondata di deformazioni e bugie che vengono fatte
scaturire dal campo di battaglia ad opera dei comandi angloamericani e dei loro
corifei nei media occidentali, in particolare dai giornalisti definiti senza
vergogna embedded, cioè “messi a letto” con i reparti: le
avanzate della coalizione che poi risultano sempre nella stessa posizione, le
conquiste delle città perennemente in mano irachena, i bombardamenti su
obiettivi militari che fanno carneficine di civili, o colpiscono infrastrutture
vitali come depositi di viveri o impianti elettrici e di potabilizzazione, gli
iracheni che massacrano la propria gente travestiti da militari USA, i missili
di Baghdad che ricadono sui mercati, i “ritrovamenti” delle famose armi
chimiche sfuggite a 10 anni di ispezioni. Un classico alla Timisoara, dove
“2000 vittime di Ceausescu” erano vecchie salme estratte dagli obitori e dai
cimiteri a beneficio delle telecamere, è stato la scoperta vicino a Baassora,
da parte dei britannici, di un capannone pieno di bare con scheletri ed
elencazioni. Gli embedded fecero
la loro parte strillando al ritrovamento delle vittime della dittatura,
soverchiando la notiziola che, come confermato da Teheran, si trattava di salme
di soldati iracheni e di prigionieri della guerra ’80-’88, restituite pochi
mesi prima. Un cinismo del falso che raggiunge il vertice nella pelosa
commiserazione delle famiglie sterminate ai posti di blocco, che, però, “si
erano avvicinate in modo sospetto”, o “si trovavano ahimè sulla linea del
fuoco”. Giornalisti che, a Bagdad occupata, avvallano l’allestimento da parte
degli americani di ovazioni per le truppe occupanti, che tutti potemmo scoprire
urlate da giovanotti cui si erano rifilati 10 dollari a testa, in una città
chiusa in se stessa, fredda, se non dichiaratamente ostile. E poi i saccheggi,
i linciaggi, illustrati doviziosamente come segno della teppistica barbarie
degli indigeni, tacendo come fossero i militari invasori a tollerarli, se non a
incoraggiarli, per consentire agli “embedded”
di illustrare lo sfacelo istantaneo dell’odiato regime. Mentre neanche
un’immagine di bambini squartati dalle bombe a grappolo, del bambino cui
avevano strappato entrambe le braccia e sterminato i dodici famigliari, delle
efferate stragi nei mercati affollati, della dissacrazione bombarola di
moschee. Segno di un razzismo di fondo della stessa caratura di quello,
ontologico, che costituisce la Weltanschaung
della banda Bush-Sharon. “Uragani di incongruenze, contraddizioni, menzogne, di
pura e semplice propaganda del regime imperiale, prodotta da servi, vassalli,
nani e ballerine televisive si abbattono sulle popolazioni del mondo intero”.
Così Giulietto Chiesa.
Come a Belgrado, come a Ramallah, come a Kabul e poi a Bagdad la televisione Al
Jazira, tra i primi obiettivi obliterati sono stati la radiotelevisione degli
aggrediti, o degli imparziali e i centri di comunicazione. E fu fatto di tutto
per impedire a giornalisti “incontrollati” di raggiungere Baghdad.
Personalmente, nel percorrere i 400 km tra la capitale e il confine giordano,
ho contato dopo due settimane 38 vetture, tra auto, fuoristrada e pullman, in
arrivo da Amman distrutti da missili, con un imprecisato numero di vittime, tra
cui anche scudi umani statunitensi. Ne Sharon, né Bush desiderano avere ancora
tra i piedi quei rompiballe dei volontari della pace: vanno eliminati e,
dunque, scoraggiati a fucilate, missili, o ruspe. Per due volte su questo
tratto, la mia vettura, guidata da un indimenticabile ragazzo iracheno di nome
Mehmet, si è vista sfiorare da un missile infilatosi al lato della strada e il
cui spostamento d’aria ci ha buttati nel fosso.
Le vittime non devono aver voce. Spetta al movimento antimperialista e
democratico internazionale ridargliela, sottraendosi a ogni subalternità ai
grandi media. A partire dal rifiuto di cadere in trappole “civiliste”, come
l’inaccettabile accostamento tra combattenti che si immolano nella difesa del
proprio paese dagli invasori, e Osama bin Laden. Anche ricordando quella che
hanno denunciato e documentato tante serie ricerche statunitensi: la contiguità
tra i Bin Laden e i Bush (tra l’altro in una delle multinazionali della
ricostruzione, il Gruppo Carlyle) e i misteri neanche tanto misteri di un 11
settembre che ha fornito al gruppo integralista di Washington il lasciapassare
per tentare la lungamente programmata sottomissione del mondo e l’eliminazione
dei “popoli di troppo”.
Resta da constatare come, tuttavia, il mastodontico apparato di controllo
dell’informazione e formazione sviluppato dagli USA in trent’anni di
aggressioni imperialiste, abbia potuto stavolta essere messo in crisi dal
manipolo di coraggiosi e sufficientemente onesti che hanno resistito ai missili
a Baghdad, nonché dalla stessa grossolanità delle falsificazioni
angloamericane. Crisi determinata soprattutto dalle immagini “proibite” di Al
Jazira sulle carneficine di vittime civili e partigiane, che la TV del Qatar ha
calcolato in decine di migliaia (e che le è costata la sede di Bagdad e due
vittime), e anche dall’emergere di un circuito alternativo di ricerca e
comunicazione, con fonti professionalmente di altissimo livello, soprattutto,
guarda un po’, negli Stati Uniti.