www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - linguaggio e comunicazione - 21-04-03

Da Fulvio Grimaldi per L’Ernesto, aprile 2003


Meccanismi e strategie dell’informazione nella costruzione del nemico e del conflitto.
Precedenti e caso Iraq.


La guerra dei Sei Giorni

Era il giugno 1967. Allo scoppio della guerra dei Sei Giorni tra arabi e israeliani, con pochissime eccezioni l’opinione pubblica, fortemente condizionata da media che subivano la pressione dalla lobby ebraica e riflettevano il profondo senso di colpa e di compassione nei confronti dei sopravvissuti all’olocausto, era convinta delle buone ragioni degli israeliani, “aggrediti da un oceano arabo e minacciati di essere ributtati in mare”. L’esperienza di chi scrive, inviato per Paese Sera, e della maggioranza dei corrispondenti, fu diversa e vide il confronto impari tra un esercito che già allora, rifornito di tutto dagli USA, spazzava via armate arabe sottoarmate e sottoequipaggiate e ulteriormente indebolite da vent’anni di lotta anticoloniale. La formula del premier israeliano, Golda Meir, di “un popolo senza terra per una terra senza popolo” fu smentita dalla comparsa del popolo palestinese e dalla graduale conoscenza di un terrorismo ebraico che ne aveva ridotto di due terzi, a forza di villaggi dinamitati ed espulsioni di massa, la presenza demografica. Fu la prima volta che la televisione, non ancora rigorosamente controllata, partecipo’ a un evento bellico e ne riferì con relativa onestà. Il risultato fu una progressivo, seppur sempre parziale, limitato essenzialmente alle sinistre, rovesciamento del giudizio su torti e ragioni del conflitto israelo-palestinese.

L’Irlanda del Nord

Un processo analogo ebbe luogo negli stessi anni a proposito della guerra imperialista contro la libertà e l’autodeterminazione dei popoli indocinesi, provocando un movimento mondiale di solidarietà che s’ allargò a comprendere la contestazione degli assetti di potere, politici, sociali e culturali esistenti. La lezione di questi sviluppi fu appresa per primi e molto rapidamente dai britannici in Irlanda del Nord, dove l’antagonismo, inizialmente pacifico, delle comunità cattolico-repubblicane verso il dominio e l’apartheid di protestanti e unionisti, nel ruolo proconsolare del colonialismo di Londra, venne rappresentato come un irrazionale scontro confessionale e, successivamente, all’atto della lotta di liberazione, come terrorismo tout court. L’esempio più rappresentativo della deformazione politico-mediatica di quel conflitto si ebbe a Derry, in occasione della “Domenica di sangue” del 30 gennaio 1972. Fui, insieme a un fotografo francese, unico testimone di quella strage a sangue freddo. Per la prima volta dal dopoguerra, in un’occasione di portata storica e di rilievo internazionale, ai giornalisti fu preventivamente inibita la presenza all’evento. Cavalli di frisia, cancellate e reparti militari bloccarono l’intera zona. Giornalista povero, avevo avuto la fortuna di trovarmi già all’interno del ghetto, ospitato non negli alberghi del centro, ma da una famiglia cattolica. Ciò mi permise di assistere allo svolgersi degli eventi e di documentarli, dall’inizio del corteo di 20.000 cittadini inermi, alla conclusione dell’assalto da parte di un battaglione di parà britannici che, senza la minima provocazione, falciarono a fucilate 14 cittadini innocenti in fuga e ne ferirono altri 16. Nel tg della BBC alle 18 di quel giorno, comandanti su piazza e ministri del governo di sua maestà affermarono che i militari erano stati attaccati, prima da hooligans (teppisti) e, successivamente, con le armi da “terroristi” dell’IRA. Una versione confermata per 25 anni, nonostante i miei documenti audiovisivi e centinaia di testimonianze oculari, da tutti i media, da una commissione d’inchiesta, dalle autorità. Fu solo l’ostinazione della comunità di Derry, che non smise di invocare e documentare la verità, che Tony Blair fu costretto nel 1997 a decidere una nuova inchiesta, tuttora in corso e in via di insabbiamento. Credo che la mistificazione di “Bloody Sunday” abbia segnato una svolta radicale nel controllo dell’informazione da parte delle “Grandi Democrazie”.

Prima guerra del Golfo
e Jugoslavia
Si trattava, fino ad allora, a prescindere dagli agenti tradizionalmente infilati nelle redazioni e nelle case editrici, eminentemente di una subalternità fisiologica – non senza “giri di valzer” di qualche firma autorevole - garanzia di credibilità per l’impostazione tendenziosa - dei grandi media al potere costituito, elargitore di pressioni, ma anche di prebende e prestigio. Successivi perfezionamenti tecnico-politici del meccanismo di oscuramento e intossicazione furono applicati nella Guerra del Golfo del ’91, con inviati ristretti nelle basi USA sparse per la Penisola Arabica che, indecorosamente, accettarono di riecheggiare i briefing quotidiani del portavoce, o comandante alleato, di turno, e poi in Somalia, in Jugoslavia e in Afghanistan. In questi casi si mise in moto, in modo più scientifico e massiccio che in passato, la demonizzazione preventiva dell’avversario (già sperimentata nei confronti di nemici come Fidel, o Ho Ci Min), principalmente nella sua leadership, ma anche relativamente a un’intera popolazione “storicamente tarata dalla sopraffazione e dalla violenza nazionalista”. Le smentite documentate circa i “tesori” di Milosevic, la sua “dittatura” e una pulizia etnica cui si arrivò ad attribuire 400.000 vittime albanesi kosovari (così, ancora giorni fa, Giovanna Meandri), rimasero schiacciate in ambiti di ricerca specialistica e permettono tuttora a un D’Alema di vantarsi dell’”intervento umanitario”. Il dato di 2800 morti di tutte le etnie nel corso della guerra civile kosovara e di 78 giorni di micidiali bombardamenti sui civili, e di nessuna fossa comune reperita, non emerse in Italia che in una pagina interna, a taglio basso, dell’Unità. Persistono tuttora le fandonie circa gli attentati al mercato di Sarajevo (attribuite ai serbi, ma provate dall’ONU come opera di Izetbegovic), i lager serbi (costruiti dall’emittente ITN), Sebrenica (massacro operato da bande musulmane in competizione), in gran parte diffuse da un corpo di 50 giornalisti delle maggiori testate riuniti a Bruxelles e imbeccati quotidianamente dal portavoce Nato Jimmy Shea.

La nuova aggressione

In vista della nuova aggressione nel Golfo, furono riattivate le agenzie di disinformazione al soldo del Pentagono, come la Ruder & Finn, o la Hill& Knowles, già operanti, sul libro paga del Pentagono, del Kuwait, di Pristina, nella prima guerra (con storie come quella dei bambini kuweitiani strappati alle incubatrici dagli invasori iracheni e gettati per terra a morire, raccontata piangendo da una presunta infermiera testimone, che risultò essere la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, mai mossasi da lì). Ma si provvide negli USA a inserire nel lavoro anche le istituzioni. Al Pentagono fu affidato il compito maggiore, con suoi “esperti” collocati presso le redazioni dei maggior media, a controllo della “linea”, degli intervistati e dei servizi in arrivo; con la convocazione, dopo l’11 settembre, dei direttori ed editori presso Condoleeza Rice, Consigliera per la Sicurezza Nazionale, per ricevere intimazioni di obbedienza e conformità con le direttive propagandistiche del governo, in particolare sulla versione ufficiale degli attentati e del fenomeno terrorismo; con l’istituzione dell’ “Ufficio di Influenza Strategica” presso il Pentagono, incaricato di diffondere posizioni ed “invenzioni” in armonia con gli obiettivi politici e strategici della mobilitazione “antiterroristica” e della “guerra permanente e, se del caso, preventiva”. Ufficio poi formalmente abolito su proteste di settori liberal, ma subito riattivato informalmente da Rumsfeld. Ai giornalisti angloamericani presenti a Baghdad fino a poco prima dell’aggressione, veniva intimato dal governo di andarsene. Solo agli assolutamente allineati fu consentito di restare, insieme a pochi europei, asiatici e latinoamericani. Tra questi Peter Arnett che, coerentemente, fu cacciato non appena si azzardò a dire alla Tv nemica, non ancora obliterata nonostante i ripetuti missili, che la guerra era stata fin lì un sostanziale fallimento. Gli altri si ebbero le cannonate dei carri statunitensi, non appena questi furono a tiro dell’Hotel Palestine, sede nota e ufficiale del corpo giornalistico presente a Baghdad. Analogo avvertimento venne somministrato a un gruppo di siriani, futuri “terroristi” da abbattere, e all’ambasciatore russo, ferito nel convoglio che lo portava in Siria, per l’avversione mostrata da Mosca per aggressione e protettorato coloniale USA, subito qualificato dal coro degli embedded “errore collaterale” o, più probabilmente, “sparatoria irachena”. Dodici erano stati i giornalisti uccisi, tutti dagli angloamericani, alla terza settimana di invasione. Nessuno da parte irachena e, senza voler essere particolarmente benevoli, a noi inviati a Bagdad risultarono sistematicamente più veritiere le notizie fornite, pur tra fiumi di retorica, dai portavoce iracheni che quelle provenienti dal Generale Brooks a Doha.

E’ dal meccanismo costruito dal governo statunitense che si andavano diffondendo le “informazioni” relative alla natura perversa del regime di Baghdad, alle sue armi di distruzione di massa, alle camere di tortura scoperte, agli stupri ed eccidi testimoniati, ai suoi collegamenti con Al Qaida (da sempre nemico mortale del laico Saddam, oltrechè creatura dei servizi USA), lubrificanti di un’aggressione che avrebbe mutato l’assetto giuridico, strategico, politico e morale, non solo dell’Iraq, del mondo. Ogni imputazione veniva decontestualizzata e quindi falsata. Assenza di democrazia di tipo occidentale, sì, controlli sociali severi, repressione, ma anche un forte progresso sociale ed economico. Regime monopartitico e liquidazione della secessione curda, vero, ma dimenticando l’iniziale struttura multipartitica di uno Stato che era stato guidato dal 1968 al 1979 (guerra con l’Iran) da una coalizione con il Partito Arabo Socialista Baath, il Partito Comunista e il Partito Democratico Kurdo; o, ancora, l’autonomia e l’autogoverno concesso al Kurdistan.

Bersagli a sinistra.

Alla denuncia dell’indiscutibile carattere dittatoriale del potere iracheno, si accostavano i “benevoli” regimi degli sceiccati ed emirati vicini, fondati sulla schiavitù, lo sfruttamento e addirittura privi di voto e di esistenza politico-culturale delle donne. Giornalisti “di rango” erano pronti a immettere il loro fiato nelle trombe della “guerra preventiva” e dell’”esportazione della democrazia”. Ridicolizzate e definite fantocci del regime furono personalità come Dennis Halliday o Hans von Sponeck, rappresentanti di Kofi Annan per la gestione degli aiuti alimentari, che avevano definito il sistema statale di distribuzione gratuita di viveri al 70% della popolazione come uno dei più efficienti e meno corrotti della loro esperienza (a questo proposito vale la pena ricordare un’esperienza personale con l’allora direttrice del TG3, Lucia Annunziata, appassionata propalatrice di efferatezze irachene, che, alla mia proposta di corrispondenze da quel paese nel 1997, mi intimò pubblicamente di non mostrare l’ombra di un bambino sofferente, o morto per via dell’embargo, o dell’uranio, “per non rischiare di criminalizzare l’Occidente”).

Mirata soprattutto ai settori della sinistra, suscettibili di osteggiare l’aggressività imperialista contro la sovranità degli Stati e di ribadire il concetto giuridico per cui spetta solo al popolo interessato, e non ad interventi esterni, decidere sulla natura del proprio governo, si insisteva su veri o supposti, documentati o smentiti crimini del regime. Forse i curdi furono gassati a Halabjeh da Saddam, ma secondo i giornali del ’88 e, oggi, secondo il capo-analista CIA della guerra Iraq-Iran, Stephen Pellettier (vedi il New York Times del 31 gennaio scorso), forse sono state le truppe iraniane. Varrebbe la pena di approfondire, anche per dare maggiore affidabilità a una denuncia non inquinata da voracità petrolifera.
Quanto ai curdi, che Khomeini aveva sanguinosamente represso in Iran, ma ai quali aveva promesso l’indipendenza in caso di vittoria sull’Iraq, iniziarono, con formazioni minoritarie ma sostenute dagli USA (il fondatore del Partito Democratico Kurdo, Mustafa Balzani, morì negli USA, pensionato della CIA), un processo di secessione che fu affrontato dall’esercito regolare, non meno di quanto successe in Kosovo tra UCK e Belgrado. Fu repressione durissima. Ma, come in Kosovo tra Rugova e UCK, la maggior parte di vittime si ebbero negli scontri intertribali tra Partito Democratico Kurdo, Unione Patriottica Kurda, altre formazioni tribali in conflitto per l’egemonia nella regione, per i profitti da petrolio e per la benevolenza statunitense.

La questione comunista

Nel 1979, allo scoppio del conflitto Iraq-Iran, il PCI, al potere nel Fronte Nazionale di Baghdad, si spaccò in due fazioni: una considerò opportuno, per motivi geopolitici e per contenere il contagio islamista nella repubbliche asiatiche dell’URSS, schierarsi con Khomeini e andò addirittura a combattere con gli iraniani. L’altra fu sì estromessa dal governo e andò in esilio a Damasco, ma ha poi ripreso il dialogo con Baghdad e molti suoi dirigenti e militanti erano tornati in patria per combattere l’invasore, “nemico principale”. Un numero imprecisato di capi della fazione pro-iraniana furono catturati, processati e giustiziati. Ne discende che oggi abbiamo i comunisti legati al Congresso Nazionale Iracheno di Shalabi, con sede a Londra, ma anche quelli che, tra l’8 e il 9 febbraio a Parigi, hanno partecipato al 2° congresso della Coalizione Nazionale Irachena che raggruppa, oltre al Movimento Nazionaldemocratico Comunista, guidato da Ahmed Karim, altre formazioni progressiste e patriottiche irachene, come i nasseriani, i socialisti, il Partito per la Giustizia e la Riforma, il Consiglio Beduino Iracheno, il Partito Nazionale Arabo, il Partito Verde e il Partito della Pace. Il leader del raggruppamento, Abdel Jabaar al Kubaysi, dell’ala sinistra del Baath, prima dell’aggressione stava negoziando un accordo con le autorità di Baghdad per una lotta comune contro il nemico imperialista e per una riforma in senso multipartitico e democratico delle istituzioni irachene.
Embedded, “a letto con i militari”.

Delle menzogne relative alle motivazioni per l’aggressione in corso, armi di distruzione di massa, terrorismo, rapporti con Al Qaida, ha dato ampiamento conto, per ultimo, l’imbarazzante esibizione di Colin Powell il 5 febbraio all’ONU, nonché il falso dossier sugli armamenti iracheni del premier britannico, copiato da una vecchia tesi di laurea. Più difficile risulta contrastare l’oceanica ondata di deformazioni e bugie che vengono fatte scaturire dal campo di battaglia ad opera dei comandi angloamericani e dei loro corifei nei media occidentali, in particolare dai giornalisti definiti senza vergogna embedded, cioè “messi a letto” con i reparti: le avanzate della coalizione che poi risultano sempre nella stessa posizione, le conquiste delle città perennemente in mano irachena, i bombardamenti su obiettivi militari che fanno carneficine di civili, o colpiscono infrastrutture vitali come depositi di viveri o impianti elettrici e di potabilizzazione, gli iracheni che massacrano la propria gente travestiti da militari USA, i missili di Baghdad che ricadono sui mercati, i “ritrovamenti” delle famose armi chimiche sfuggite a 10 anni di ispezioni. Un classico alla Timisoara, dove “2000 vittime di Ceausescu” erano vecchie salme estratte dagli obitori e dai cimiteri a beneficio delle telecamere, è stato la scoperta vicino a Baassora, da parte dei britannici, di un capannone pieno di bare con scheletri ed elencazioni. Gli embedded fecero la loro parte strillando al ritrovamento delle vittime della dittatura, soverchiando la notiziola che, come confermato da Teheran, si trattava di salme di soldati iracheni e di prigionieri della guerra ’80-’88, restituite pochi mesi prima. Un cinismo del falso che raggiunge il vertice nella pelosa commiserazione delle famiglie sterminate ai posti di blocco, che, però, “si erano avvicinate in modo sospetto”, o “si trovavano ahimè sulla linea del fuoco”. Giornalisti che, a Bagdad occupata, avvallano l’allestimento da parte degli americani di ovazioni per le truppe occupanti, che tutti potemmo scoprire urlate da giovanotti cui si erano rifilati 10 dollari a testa, in una città chiusa in se stessa, fredda, se non dichiaratamente ostile. E poi i saccheggi, i linciaggi, illustrati doviziosamente come segno della teppistica barbarie degli indigeni, tacendo come fossero i militari invasori a tollerarli, se non a incoraggiarli, per consentire agli “embedded” di illustrare lo sfacelo istantaneo dell’odiato regime. Mentre neanche un’immagine di bambini squartati dalle bombe a grappolo, del bambino cui avevano strappato entrambe le braccia e sterminato i dodici famigliari, delle efferate stragi nei mercati affollati, della dissacrazione bombarola di moschee. Segno di un razzismo di fondo della stessa caratura di quello, ontologico, che costituisce la Weltanschaung della banda Bush-Sharon. “Uragani di incongruenze, contraddizioni, menzogne, di pura e semplice propaganda del regime imperiale, prodotta da servi, vassalli, nani e ballerine televisive si abbattono sulle popolazioni del mondo intero”. Così Giulietto Chiesa.

Come a Belgrado, come a Ramallah, come a Kabul e poi a Bagdad la televisione Al Jazira, tra i primi obiettivi obliterati sono stati la radiotelevisione degli aggrediti, o degli imparziali e i centri di comunicazione. E fu fatto di tutto per impedire a giornalisti “incontrollati” di raggiungere Baghdad. Personalmente, nel percorrere i 400 km tra la capitale e il confine giordano, ho contato dopo due settimane 38 vetture, tra auto, fuoristrada e pullman, in arrivo da Amman distrutti da missili, con un imprecisato numero di vittime, tra cui anche scudi umani statunitensi. Ne Sharon, né Bush desiderano avere ancora tra i piedi quei rompiballe dei volontari della pace: vanno eliminati e, dunque, scoraggiati a fucilate, missili, o ruspe. Per due volte su questo tratto, la mia vettura, guidata da un indimenticabile ragazzo iracheno di nome Mehmet, si è vista sfiorare da un missile infilatosi al lato della strada e il cui spostamento d’aria ci ha buttati nel fosso.

Le vittime non devono aver voce. Spetta al movimento antimperialista e democratico internazionale ridargliela, sottraendosi a ogni subalternità ai grandi media. A partire dal rifiuto di cadere in trappole “civiliste”, come l’inaccettabile accostamento tra combattenti che si immolano nella difesa del proprio paese dagli invasori, e Osama bin Laden. Anche ricordando quella che hanno denunciato e documentato tante serie ricerche statunitensi: la contiguità tra i Bin Laden e i Bush (tra l’altro in una delle multinazionali della ricostruzione, il Gruppo Carlyle) e i misteri neanche tanto misteri di un 11 settembre che ha fornito al gruppo integralista di Washington il lasciapassare per tentare la lungamente programmata sottomissione del mondo e l’eliminazione dei “popoli di troppo”.

Resta da constatare come, tuttavia, il mastodontico apparato di controllo dell’informazione e formazione sviluppato dagli USA in trent’anni di aggressioni imperialiste, abbia potuto stavolta essere messo in crisi dal manipolo di coraggiosi e sufficientemente onesti che hanno resistito ai missili a Baghdad, nonché dalla stessa grossolanità delle falsificazioni angloamericane. Crisi determinata soprattutto dalle immagini “proibite” di Al Jazira sulle carneficine di vittime civili e partigiane, che la TV del Qatar ha calcolato in decine di migliaia (e che le è costata la sede di Bagdad e due vittime), e anche dall’emergere di un circuito alternativo di ricerca e comunicazione, con fonti professionalmente di altissimo livello, soprattutto, guarda un po’, negli Stati Uniti.