www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - linguaggio e comunicazione - 14-09-10 - n. 331

da Cubadebate - http://www.cubadebate.cu/opinion/2010/09/12/a-los-clasicos-hay-que-leerlos-en-original/
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org  a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
I classici vanno letti in versione originale
  
di Arleen Rodriguez Derivet
 
12/09/2010
 
I migliori accademici normalmente esigono dai loro alunni che studino i classici dalle opere originali. Niente manuali ed un occhio critico alle versioni. Le interpretazioni, come le sintesi o riassunti, sebbene accorcino la strada verso la comprensione delle idee più complesse, includono anche il rischio di semplificarle o decontestualizzarle, tanto che, nonostante non sia quello il proposito, possono finire con il falsarle o perfino trasformarle nel loro contrario.
 
Il più grande e triste esempio giace tra i resti del cosiddetto socialismo reale, sostenuto teoricamente da tanti manuali, che perse tutte la sua essenza originaria. Al limite dello sbadiglio e dell’allontanamento che ci provocavano negli anni universitari.
 
Alcuni preferiranno i manuali per il fatto che “i classici sono difficili” - un pregiudizio che sparisce al primo contatto con la fonte - o perché non tutte le traduzioni fanno loro giustizia. Altri più onesti riconoscono che li spaventa la dimensione dei testi.
 
Rimane ovvio, che giustamente, la complessità delle idee che espongono, obbligano gli autori a perfezionarli con argomenti e contestualizzazioni che si perdono in riassunti e versioni. In altre parole, nessuno che sia capace di creare un corpo di idee trascendente, scrive tanto per scrivere.
 
Il giornalismo forse è la professione nella quale diventa più visibile il rischio delle interpretazioni e delle versioni. E quanto più si è giornalista, cioè, quanto più si accumula professionalità, tanto più normalmente si pretende di fungere da mediatore - manipolatore?- tra la fonte ed il ricettore. Come se ci disturbasse scomparire nel momento in cui le due si incontrano.
 
Non avete mai sentito a volte, leggendo una determinata intervista, che il giornalista si appropria dell’intervistato reale per dargli - migliorato o peggiorato, perché c’è di tutto - la versione che il giornalista stesso vuole di quella persona e delle sue parole, sottovalutando la vostra capacità di leggerlo ed interpretarlo senza suggerimenti?
 
Deve essere colpa dell’affascinante eredità di Oriana Fallaci, la mitica intervistatrice che amava ed odiava i suoi intervistati, spingendo i suoi lettori alle stesse passioni. Basta ricordare i suoi celebri dialoghi con Golda Meir e con Yasser Arafat, entrambi così tendenziosi da generare compassione o disprezzo.
 
Chi fino a qui abbia letto, si domanderà sorpreso se questa è una diatriba contro il mestiere del quale vivo da 28 anni.
 
Si e no. Ho sempre creduto che siamo dei privilegiati ma a volte anche sofferenti praticanti di una delle più nobili, ma anche più terribili, professioni che esistano. Si è già detto che il medico seppellisce i suoi errori e che il giornalista li pubblica. Bisognerebbe aggiungere che le conseguenze, nel nostro caso, non finiscono, ma cominciano quando l’errore diventa pubblico.
 
Perdonatemi per questo lungo preambolo, ma cercavo solo di richiamare l’attenzione sulle dichiarazioni decontestualizzate e fantasiose, anziché esatte, che hanno provocato le più recenti Riflessioni di Fidel Castro.
 
Non è necessario alcun conteggio per confermare che le sue frasi al giornalista di The Atlantic, Jeffrey Goldberg, estratte dal contesto ed amplificate da tutte le agenzie di stampa del mondo, hanno avuto e per lungo tempo avranno, molta più diffusione e portata che il messaggio chiarificatore dello stesso Fidel su di esse. Addirittura, proprio adesso mentre scrivo, in una televisione dell’opposizione venezuelana, il sommario del notiziario è un classico della falsificazione: “Fidel Castro si contraddice. Quando ha detto socialismo voleva dire capitalismo...”
 
Questa è l’estrema malizia della versione giornalistica dei fatti. Seguiamo sulla linea elementare della semplificazione, della tecnica di prendere solo la parte che c’interessa di alcune dichiarazioni, ignorando complementi e contesto.
 
L’intervista di Golberg è magistrale in questo senso. Secondo la convenienza, c’è chi sceglierà il riconoscimento di Fidel dell’olocausto, della sofferenza storica della diaspora ebraica e la conseguente critica verso coloro che pretendono di negarlo. Altri preferiranno le sue reiterate condanne a Israele e agli Stati Uniti.
 
Ma, perché non leggere direttamente Fidel? Come egli stesso ha detto, il suo pensiero è chiaramente esposto nelle più di 300 sue riflessioni. E se in particolare si seguono quelle degli ultimi tre mesi, si capirà meglio la sua visione che concede ragioni e discute ingiustizie, sempre da una prospettiva profondamente vicina alla storia dei conflitti passati, perché nella storia stanno le radici dei conflitti attuali.
 
Leggendolo direttamente si capirà che i concetti del leader rivoluzionario sono ben lontano dagli antipodi nei quali cercano di ubicarlo in tendenze contrastanti.
 
È così chiaro ed evidente che la posizione di Fidel è contro la guerra e l’ingiustizia, come non è il conflitto proprio per le posizioni estreme degli avversari.
 
E chi pretende vedere nella sua analisi un supposto affanno di trascendenza universale, non dovrebbe dimenticare che questa gli fu già riconosciuta e concessa molti anni fa da milioni di uomini e donne di tutto il mondo che, senza appartenere formalmente a nessun di tribunale, integrano l’immaginario dei popoli, assise molto più seria e responsabile di quella che concesse il premio Nobel della Pace a comprovati guerrafondai come Henry Kissinger o Shimon Peres.
 
Ma ritorno all’articolo di Golberg e alla sua altra frase estratta dal contesto e sfruttata con più ignoranza che misericordia da tanti media di tutto il pianeta: quella dell’ipotetico riconoscimento che il modello cubano non funziona neanche per i cubani.
 
A qualcuno, che in un primo momento mi ha domandato se era possibile che Fidel avesse detto qualcosa di simile, ho risposto con i ricordi più che vivi di una riunione di economisti latinoamericani alla quale fui presente come giornalista nel giugno del 1998.
 
In quell’occasione, dopo un lungo dibattito sulle vie alternative al capitalismo neoliberale nella regione, un delegato latinoamericano suggerì che si estendesse “il modello cubano” e ricordo che Fidel gli rispose più o meno ( i ricordi non sono appunti testuali ) la seguente cosa:
 
“Noi non possiamo essere un modello per nessuno, semplicemente perché non abbiamo potuto fare quello che volevamo, bensì quello che potevamo...” continuando poi a chiedere se sia possibile parlare di un modello economico in un paese oppresso dal blocco finanziario e commerciale dall’economia più potente del pianeta.
 
Il prestigioso economista cubano Osvaldo Martínez, in un’intervista, mi diceva alcuni giorni dopo, che “Cuba è l’antimodello” perché la sua economia si è sviluppata con formule ed iniziative molto diverse, quelle che ci permettevano, nelle varie fasi, di sopravvivere a tutte le forme del blocco.
 
Tutto questo senza parlare della permanente autocritica a cui i leader della Rivoluzione, tanto Fidel come Raúl Castro, hanno assoggettato la pratica economica socialista durante tutto il processo rivoluzionario.
 
Alla fine il ragionamento non è nuovo, ma risulta quantomeno ingannevole separare quell’autocritica da un contesto fondamentale e da un principio invariabile da qualsiasi parte lo si guardi: il riconoscimento costante per tutta la direzione rivoluzionaria e per il paese che lo difende, del fatto che solo il socialismo può spiegare che siamo sopravvissuti come nazione sovrana e come società più giusta di qualsiasi altra al mondo sottoposta al colossale assedio imperiale che ancora molti, nelle loro interpretazioni della realtà cubana, si danno il lusso di ignorare.
 
Però, a che cosa serve continuare a spiegare quello che è già stato sufficientemente spiegato?
 
Fidel, come i classici, continua ad essere meglio leggerli in versione originale.
 
 

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