www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - linguaggio e comunicazione - 16-12-10 - n. 345

recensione al libro di Domenico Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Editori Laterza, 2010
 
La non-violenza e le sue astratte agiografie dal «Piccolo gioco» del PRC al «Grande gioco» internazionale
 
di Leonardo Pegoraro
 
La “svolta non-violenta” del PRC e le sue resistenze interne
 
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito all’interno della sinistra radicale e in particolare del PRC ad un aspro dibattito sulla non-violenza che vale la pena ripercorrere brevemente. Come si ricorderà, il dibattito si sviluppò a partire dalle dichiarazioni che Fausto Bertinotti rilasciò in occasione di un convegno sulle foibe svoltosi a Venezia nel dicembre del 2003. Per la maggioranza del PRC si trattava di imprimere al partito una una vera e propria “svolta” non-violenta, a ribadire la quale sarebbe intervenuto poi un altro convegno ad hoc, tenutosi il 28 e 29 febbraio del 2004 sempre a Venezia, nell’isola di San Servolo1. Ma non tutti i compagni del PRC apprezzarono questa “innovazione”. Essa sarebbe infatti assurta a oggetto di critica da parte delle minoranze interne del partito, a partire da quella de l'Ernesto che si impegnò così a promuovere nel giro di un mese un terzo convegno (plurale e aperto a diverse posizioni) presso la Casa della Cultura di Milano2.
 
In questa sede molti compagni sollevarono anzitutto un problema di metodo, in relazione al fatto che il convegno di San Servolo era stato organizzato “a senso unico” e aveva volutamente rifiutato un confronto tra tesi diverse3. Misero poi in luce la confusione derivante da un continuo cambiamento dell’oggetto del dibattito che, a seconda dell’esigenza della polemica, passava da un’assolutizzazione nel tempo e nello spazio dell’ideologia e della pratica non-violente a «considerazioni politiche abbastanza ovvie sulla necessità di rifiutare l’uso della violenza “qui ed ora”». Il tutto accompagnato da un confuso intreccio tra il tema della violenza e quello del potere, come se l’una coincidesse automaticamente con l’altro e viceversa4.
 
Ma a risultare, se possibile, ancora più oscuro e surreale era l’urgenza con cui la maggioranza del PRC voleva imprimere al partito questa “innovazione” culturale, come se in Occidente fosse all’ordine del giorno la presa del “Palazzo d’inverno” da parte degli oppressi. E rivendicando oltretutto «come originali» risultati che in realtà erano stati «da tempo acquisiti» e «come proprie pensate» temi che erano ormai «a dir poco classici», da tempo ampiamente metabolizzati «dalla cultura del movimento operaio» grazie anche alla preziosa lezione gramsciana5. Al convegno de l'Ernesto, l’urgenza di questa “svolta” ideologica veniva così interpretata da molti interventi come il frutto di una strumentale esigenza politica: la maggioranza bertinottiana stava cercando di operare da un lato un «aggiustamento della collocazione» del partito rispetto al movimento no global e, dall’altro, di lanciare ai settori moderati del paese un visibile segnale di «omologazione», «in vista di un accordo organico di governo nel 2006» (con la conseguente integrazione subalterna del partito nell’Ulivo). Finalità tattiche, queste, che avrebbero però potuto sconfinare sul piano della dimensione strategica, con il rischio di aprire la strada ad un cambiamento genetico del partito e, di conseguenza, ad una «nuova identità, con tutto ciò che ne deriva in termini di interlocutori sociali, modalità di lotta politica e retroterra culturale». Un’identità politica non più volta a un radicale superamento del capitalismo ma compatibilmente volta, tutt’al più, a contrastarne gli effetti, per così dire, più «odiosi» e selvaggi6. Insomma, questa “innovazione” si preannunciava come una tappa fondamentale di un (forzato) processo di decomunistizzazione in atto nel PRC ad opera della sua stessa maggioranza.
 
Due diverse scuole di pensiero a confronto: idealismo vs. materialismo storico
 
Le differenze tra le varie scuole di pensiero aumentavano quando ci si addentrava nel merito della discussione. Per i teorici della non-violenza si trattava di ribadire l’argomento principe di quest’ideologia: per dirla con Marco Revelli, è «inevitabile» che il mezzo dell’azione politica «assuma, nel corso del tempo, un’importanza crescente fino a prevalere sul prodotto stesso» dell’azione7. Non c’è dubbio, conferma Bertinotti, che il fine è già contenuto nel mezzo e anzi «vive nel mezzo stesso»8; di conseguenza, se si vuole superare il capitalismo per costruire una società migliore e pacifica, occorre innanzitutto non perdere mai di vista la coerenza, l’omogeneità e la convergenza tra i due elementi, pena l’eterogenesi dei fini. Si tratterebbe infatti di un «principio pragmaticamente dimostrato dalla storia»9. Un’argomentazione inaccettabile per i critici dell’ideologia non-violenta, ai quali risultava piuttosto facile dimostrare come questa regola generale rivelasse tutta la sua inconsistenza e il suo dottrinarismo di fronte all’esperienza storica; a partire da quella a noi più vicina: «la resistenza italiana fece ad esempio abbondantemente uso della forza, senza per questo, nella nuova Repubblica, prendere d’assalto il Parlamento e imporre il dominio dei social-comunisti con la forza»10.
 
Del tutto idealistico risultava essere l’approccio degli ideologi della non-violenza nel momento in cui postulavano che era sempre e ovunque possibile scegliere tra mezzi violenti e mezzi nonviolenti, come se gli uomini siano, per così dire, storicamente indeterminati, avulsi dalla realtà concreta in cui vivono e agiscono. È vero il contrario: per dirla con Karl Marx, «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». È a partire da questo presupposto che anche la «leniniana “analisi concreta della situazione concreta”, la conoscenza il più possibile oggettiva dello stato di cose presente, della machiavelliana “verità effettuale”, dei gramsciani “rapporti di forza” ci spiegano che non è sempre possibile scegliersi il terreno dello scontro»11.
 
Qualche anno più tardi, e su questa stessa lunghezza d'onda (cioè sempre all'interno di un approccio materialistico), Toni Muzzioli avrebbe elaborato a tal proposito una sorta di “regola generale” che vale la pena citare nella sua interezza:
 
la lotta per la giustizia sarà anche domani una lotta “in situazione, storicamente circostanziata; dunque non sarà – come non è stata mai in passato – solo la volontà dei soggetti coinvolti a decidere come si esprimerà e con quali mezzi, ma anche il peso delle circostanze esterne. In linea del tutto teorica non si può non convenire che sarebbe bene che i mezzi prefigurassero il fine – e possiamo senz’altro adottare questa come “linea di condotta” generica -, ma un simile argomento non può essere assolutizzato, se non in una situazione “da laboratorio”; nella realtà in qualche misura i mezzi saranno sempre influenzati dal contesto entro il quale sono stati scelti e adottati.12
 
Tutto ciò, va ribadito, non significa che sia giusto ritenere «che si possa fare qualunque cosa in vista della santità del Fine». Ma non ha senso neppure «l’estremo opposto»: e cioè l’«attenzione estrema per il “mezzo”, per il qui ed ora dell’agire, per la qualità etica delle azioni […], al prezzo di sacrificare tranquillamente il fine». Saremmo in questo ultimo caso in presenza, continua Muzzioli, di una «forma di “manicheismo etico” con la quale si comprime l’agire storico e politico sulla sua immediata conformità a norme morali»13
 
Un Gandhi fuori dal mito
 
Ad offrirci altri spunti di riflessione utili ad una critica sistematica dell’ideologia non-violenta e del suo irriducibile dottrinarismo è intervenuto di recente Domenico Losurdo (La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Editori Laterza, 2010, pp. 287, euro 22,00) 14. Dopo il breve excursus sul dibattito interno al PRC nell’anno della “svolta”, conviene così passare in rassegna i contenuti del suo ultimo libro.
 
Entrando subito nel merito, è chiaro che uno studio sulla non-violenza non poteva evitare di fare i conti con una grande personalità storica quale è Mohandas Gandhi, che, infatti, riveste un ruolo centrale in tutto il ragionamento di Losurdo. Ma già a partire dal secondo capitolo del libro ci si accorge facilmente che ci troviamo in presenza di un ritratto del leader indiano a dir poco differente rispetto a quello a cui siamo da sempre abituati.
 
L’Autore, infatti, inizia subito facendo notare che, in una prima fase, Gandhi aspira a conseguire per l’India lo statuto di dominion e non la piena indipendenza del paese. Un desiderio di cooptazione (anche razziale) che lo conduce di conseguenza ad appoggiare le guerre dell’Impero britannico nella speranza di ottenere la sua riconoscenza: prima la repressione spietata (le cui infamie vengono denunciate da Lenin senza mezzi termini) della rivolta anticoloniale dei Boxer in Cina; poi la guerra contro i Boeri in Sudafrica; e infine la repressione della rivolta degli Zulù nel Natal. Ma a far riflettere (e indignare) è soprattutto il comportamento tenuto dal presunto campione della non-violenza in occasione della Grande guerra: al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi è impegnato per sua stessa entusiastica ammissione come «reclutatore capo» di mezzo milione di indiani per l’esercito britannico. Il tutto accompagnato da una retorica celebrazione della guerra e della violenza in virtù della sua funzione pedagogica. Gandhi ritiene infatti che la violenza, indipendentemente dagli obbiettivi perseguiti, è di per se stessa sinonimo di eroismo, coraggio e virilità! (pp. 28-37).
 
Un tema, quello della «virilità» e del maschio coraggio, che si ritrova più volte negli scritti di Gandhi (pp. 98-99, 159) e che, tornando alle tesi del convegno di San Servolo, cozza clamorosamente con il tentativo degli ideologi della non-violenza di coniugare il gandhismo con il femminismo15. Essi rimuovono inoltre il fatto che l’austera etica sessuale di Gandhi - parte integrante di una dottrina volta a conservare un sistema comunitario di tipo feudale e ostacolare qualsiasi forma di industrializzazione – è in netta antitesi con l’emancipazione della donna e con la sua libertà (anche sessuale) (pp. 107-108)16.
 
Il “secondo” Gandhi e la non-violenza come espediente tattico
 
In una seconda fase della sua evoluzione Gandhi inizia invece a lottare per il riconoscimento e l’emancipazione degli indiani identificandosi appieno nel movimento anticolonialista mondiale. A maturare questa consapevolezza contribuiscono sostanzialmente due eventi: da un lato, spiega Losurdo, «la rivoluzione d’ottobre e la diffusione dell’ideologia comunista nelle colonie e nella stessa India» che «costituiscono un formidabile colpo di piccone all’ideologia della piramide razziale e fanno apparire obsoleta l’aspirazione alla cooptazione nella razza bianca o ariana»; dall’altro lato, il massacro di Amritsar nella primavera del 1919, «che non solo costa la vita a centinaia di indiani inermi, ma comporta altresì una terribile umiliazione nazionale e razziale, con l’obbligo per gli abitanti della città ribelle di doversi trascinare a quattro zampe per tornare a casa o uscirne» (pp. 86-88).
 
Ma è bene osservare che il passaggio, per così dire, dal primo al secondo Gandhi non comporta affatto una svolta sul tema della non-violenza. Si pensi a tal proposito alla «piena collaborazione allo sforzo bellico» che Gandhi offre al governo di Londra nel 1944 in cambio dell’immediata indipendenza dell’India (pp. 122-123). O all’invito che Gandhi rivolge al suo popolo a resistere passivamente alla repressione delle forze dell’ordine in occasione delle manifestazioni e anzi di offrirsi in sacrificio (bambini compresi). Ecco allora che, continua Losurdo, «piuttosto che essere ispirata da preoccupazioni puramente morali, la non-violenza di Gandhi rivela una consumata abilità politica»: essa va cioè considerata come una formidabile tecnica di produzione dell’indignazione morale (pp. 92-95). Un «problema etico» in cui ci si imbatte di nuovo osservando il comportamento che assumerà in situazioni simili un grande protagonista del movimento antirazzista e pacifista statunitense (Martin Luther King): «è il problema relativo a una non-violenza incline a stimolare, in modo più o meno indiretto, la violenza dell’avversario contro vittime innocenti e indifese e a produrre così l’indignazione morale necessaria per screditare e isolare l’avversario» (p. 140).
 
Losurdo non manca poi di rivelarci altri aspetti di Gandhi a dir poco indigeribili, dovuti alla sua incapacità di orientarsi nel corso delle grandi crisi storiche e di gerarchizzare le diverse forme di violenza che le caratterizzano. È solo così che possiamo comprendere meglio la simpatia che a tratti il leader indiano mostra nei confronti di personalità quali Benito Mussolini e Adolf Hitler, definendo il primo «salvatore della nuova Italia» e dicendo del secondo: «non credo che Hitler sia così cattivo come lo dipingono. Sta dimostrando un’abilità stupefacente, e sembra che ottenga le sue vittorie senza grandi spargimenti di sangue» (pp. 109-110, 120-124). Ma nonostante l’Autore si impegni a smontare la mitizzazione in chiave apologetica di Gandhi è bene osservare come, nel complesso, dal suo studio non emerga affatto un ritratto di Gandhi esclusivamente negativo o la volontà di liquidarlo buttando via, per così dire, il bambino con l’acqua sporca. E non si tratta solo di riconoscere il ruolo storico che il leader indiano ha giocato nella fase più matura della sua vita nel movimento anticolonialista internazionale. C’è dell’altro: il «merito di aver cercato di conciliare gli elevati principi morali con l’azione politica concreta» o, visti i modesti risultati conseguiti per questa via, di aver comunque sollevato questo problema (p. 113). E ancor più simpatetico risulta il giudizio complessivo che Losurdo esprime nei confronti di un altro ideologo della non-violenza e cioè il grande scrittore russo Lev Tolstoj, il cui notevole contributo alla condanna del militarismo e del connesso colonialismo non può comunque essere ignorato (p. 54).
 
Il marxismo-leninismo come sinonimo di violenza e il gandhismo come sinonimo di non-violenza?
 
Privo di senso è quel luogo comune oggi molto diffuso secondo cui il marxismo-leninismo, al contrario del liberalismo, sarebbe sinonimo di culto della violenza. È opportuno allora ricordare che se in Marx, Engels e Lenin è assente la visione salvifica del sangue e la celebrazione della violenza in chiave esistenziale ed estetica non si può certo dire lo stesso di autori entrati a far parte del Pantheon dell’Occidente: basti pensare a questa affermazione di Alexis de Tocqueville: «Non voglio affatto parlare male della guerra; la guerra apre quasi sempre la mente di un popolo e innalza il suo animo» (pp. 70-75). Siamo in presenza di un mito surreale e ingiusto sia sul piano logico che su quello morale anche quando al presunto primato della violenza di cui godrebbe il movimento comunista, viene contrapposto un presunto primato della non-violenza cui spetterebbe invece al movimento guidato da Gandhi. È infatti insostenibile, afferma Losurdo, la «tesi che indica nell’atteggiamento assunto nei confronti della violenza il discrimine tra il partito di Gandhi e quello di Lenin» (indicando con questa espressione l’insieme delle personalità, dei partiti e delle organizzazioni che, traendo ispirazione dalla rivoluzione d’ottobre e dallo statista russo, sono impegnati anche loro nella rivoluzione anticoloniale e comunista) (p. 83).
 
A questo riguardo, tutti dovrebbero sapere che, mentre Gandhi è impegnato, come si ricorderà, a reclutare nuova carne da cannone al servizio dell’Impero britannico, i protagonisti del movimento comunista esprimono una condanna senza appello della prima guerra mondiale. Preso atto del voto a favore dei crediti di guerra da parte del movimento socialista, Lenin denuncia infatti il «tradimento perpetrato dai capi del socialismo europeo» e «gli orrori della guerra» e della «carneficina» che ne conseguono e, a guerra scoppiata, invita alla «fraternizzazione» i soldati dei diversi fronti. Si tratta senza dubbio di una condanna della guerra in chiave morale, oltre che politica, ben presente anche negli altri dirigenti del movimento comunista internazionale: Bucharin parla di «orrida fabbrica di cadaveri», Stalin di «sterminio di massa delle forze vive dei popoli», Trotskij di «barbarie cieca e svergognata» e infine Luxemburg e Liebknecht di «genocidio» (pp. 80-83).
 
Un altro mito corrente, scrive Losurdo, vorrebbe inoltre attribuire al partito di Gandhi «il merito di aver conseguito i suoi obbiettivi senza passare attraverso il bagno di sangue delle rivoluzioni promosse dal partito di Lenin». Ma è giusto considerare l’indipendenza dell’India dal giogo coloniale esclusivamente come il prodotto dell’agitazione non-violenta di Gandhi? In realtà un’analisi delle grandi campagne indiane di disobbedienza civile dimostra come esse - pur importanti per il «merito storico di aver riscattato dal letargo e dalla reclusione sociale e di aver condotto all’azione politica grandi masse di popolo» - abbiano conseguito risultati piuttosto modesti. Non si può quindi comprendere l’indipendenza dell’India se si prescinde da quei «colossali processi» che hanno agito alle spalle della rinuncia dell’Inghilterra al suo Impero, quali la prima e la seconda guerra mondiale e, soprattutto, la rivoluzione d’ottobre e il conseguente e connesso risveglio dei popoli coloniali su scala planetaria (pp. 126-130).
 
Un ragionamento simile, “a tutto campo”, ci aiuta a spiegare meglio anche altri avvenimenti storici relativamente recenti quali «il processo di desegregazione e la liquidazione dello Stato razziale negli Usa», che non possono essere compresi del tutto se vengono «separati da un contesto internazionale che vede il paese guida dell’Occidente sfidato in particolare sul tema dell’eguaglianza razziale dall’Urss e dal divampare della rivoluzione anticoloniale al livello mondiale» (p. 171).
 
Detto questo, non regge affatto alla prova della storia la regola generale elaborata dagli ideologi della non-violenza quali Johan Galtung: «Non stiamo ipotizzando che la non-violenza funzioni sempre, che sia una panacea, ma ci sono molte argomentazioni a favore dell’ipotesi che la violenza non funzioni mai!»17. Nel momento in cui apportano come esempi utili a convalidare questa regola proprio la campagna di Gandhi per l’indipendenza dell’India e la campagna di King contro l’apartheid in Usa, Galtung e l’autore che lo cita con entusiasmo (Alberto L’Abate) dimostrano come l’ideologia della non-violenza sia spesso schiava di semplificazioni e astratte agiografie.
 
Lenin e Bonhoeffer: l’etica della responsabilità come alternativa all’eterogenesi dei fini
 
Per dirla con Losurdo, «la condanna incondizionata e di principio della violenza presuppone una visione dottrinaria delle grandi crisi storiche, come se esse consentissero una ponderazione a freddo dei vantaggi e degli svantaggi della lotta armata o della via pacifica, mentre in realtà si tratta di scegliere tra due forme diverse di violenza» (p. 241). Si pensi a tal proposito ai dilemmi angosciosi che vivono i dirigenti bolscevichi in occasione della prima guerra mondiale, dove si trattava infatti di optare non già tra violenza e non-violenza, bensì tra violenza bellica e violenza rivoluzionaria. Dilemmi paragonabili a quelli dei pacifisti e abolizionisti statunitensi che, di fronte al varo della legge sulla cattura degli schiavi fuggiaschi e della Guerra di secessione, anche in questo caso non sono nelle condizioni di poter scegliere liberamente tra lotta violenta e lotta non-violenta ma solo tra due diverse forme di violenza: quella intrinseca dell’istituto della schiavitù e quella della guerra contro gli stati schiavisti (pp. 61-64). Ma ecco che per salvare la coerenza formale alcuni pacifisti statunitensi procedono alla deumanizzazione del nemico e dunque ad un prolungamento e inasprimento della violenza. Come fa notare più volte Losurdo, si profila così un paradosso: il rifiuto di principio della violenza professato dai pacifisti statunitensi si rovescia talvolta nella consacrazione teologica della violenza stessa (pp. 15-24). La medesima eterogenesi dei fini - il cui rischio, sia detto per inciso, per loro stessa ammissione sembra non interessare affatto a personalità “non-violente” quali Lidia Menapace!18 – che, a ben guardare, non risparmiò neppure l'azione di Gandhi. Il grande impegno profuso da Gandhi per definire l’identità indiana a partire dalla religione induista fu di certo alla base della rottura dell’unità tra la comunità induista e quella musulmana, suggellando così il capitolo più tragico dell’India britannica. Avrebbe avuto inizio una vera e propria «guerra di sterminio» che avrebbe a sua volta portato alla formazione di India e Pakistan e che comportò, a detta di storici quali Michelguglielmo Torri, la «più grande migrazione forzata a livello mondiale del secolo» (pp. 244-246).
 
In conclusione, scrive Losurdo, se dal punto di vista dell’«etica della convinzione» gli ideologi della non-violenza possono autodefinirsi coerentemente non-violenti sulla base delle proprie intenzioni e dichiarazioni, dal punto di vista dell’«etica della responsabilità», come dimostrano gli esempi appena visti, non possiamo certo attribuire loro il merito di aver evitato o limitato il divampare della violenza nel corso della storia e, in particolare, delle sue crisi più acute (pp. 242-244). Anzi.
 
È a questo proposito che Losurdo invita a riflettere sulle parole di un grande teologo protestante (Dietrich Bonhoeffer), che pur essendo stato a sul tempo un ammiratore di Gandhi e un suo fedele seguace, di fronte al profilarsi della barbarie nazista, cospira per attentare alla vita di Hitler. Bonhoeffer giustificherà il suo gesto polemizzando così con il non-violento per principio che «sceglie l’asilo della virtù privata»: egli, «solo ingannando se stesso può mantenere pura la propria irreprensibilità privata ed evitare che venga macchiata agendo responsabilmente nel mondo» (pp. 115-116). In altre parole, citando liberamente Lenin, il ripiegamento intimistico, teso esclusivamente all’«autoperfezionamento morale» (p. 53), è un atteggiamento egoistico e opposto all’assunzione di responsabilità che gli uomini devono sobbarcarsi con altruistico senso del dovere.
 
Un Dalai Lama fuori dal mito
 
Venendo ora ai giorni nostri, l'Autore fa notare come l’Occidente liberale sia recentemente passato dalla critica e anzi demonizzazione dell’ideologia non-violenta alla sua (strumentale) apologia. Le odierne guerre dell’Impero statunitense e dei suoi alleati e l’escalation di violenza nel mondo che ne deriva, dimostrano però che si tratta di un passaggio che avviene purtroppo solo sul piano della propaganda, utile cioè all’ideologia dominante per autorappresentarsi nella sua presunta superiorità morale e, al contempo, screditare i suoi nemici. Ecco spiegato perché oggi Gandhi, Tolstoj e King assurgano al ruolo di martiri della non-violenza in antitesi ai violenti e sanguinari Mao Zedong, Ho Chi Minh, Fidel Castro, Yasser Arafat e Patrice Lumumba (pp. 182-186). Si tratta, scrive Losurdo, di un’operazione oggi utile anche - e soprattutto - ad un’ulteriore mossa all’insegna della Realpolitik: la santificazione di quello che viene descritto a destra e a manca come il più grande erede di Gandhi vivente, ossia il XIV Dalai Lama (p. 187). Ma chiediamoci: ha fondamento o è inventata di sana pianta la “tradizione” non violenta tibetana? Nel corso dell’ottavo capitolo del suo libro l'Autore affronta questo tema impegnandosi a decostruire gli stereotipi positivi e le leggende che avvolgono tutt’ora la storia di questa vasta regione cinese. A partire da una rivolta scoppiata in Tibet nel 1660 e repressa nel sangue (compresi donne, bambini e i figli e i nipoti dei rivoltosi) per ordine del V Dalai Lama, e passando per un’analisi volta a mettere in luce come la violenza investisse tutti i settori della tradizionale società tibetana (caratterizzata da una rigida struttura gerarchica, schiavitù, servaggio e leggi antimiscegenation), Losurdo ha buon gioco a dimostrare il carattere tutt’altro che pacifico e felice del Tibet lamaista oggi tanto rimpianto anche dai non-violenti nostrani.
 
E che dire del XIV Dalai Lama? È davvero un non-violento? Per rendersi conto della costruzione mitologica che avvolge questa personalità basta considerare il suo appoggio entusiasta alla partecipazione degli Usa alla seconda guerra mondiale e alla guerra di Corea. Così come non va perso di vista l’atteggiamento bellicoso che Sua Santità assume nel 1972, passando in rassegna e arringando la Special Frontier Force (un corpo speciale di guerriglieri tibetani). O ancora, si pensi a come nel 1998 il Dalai Lama rivendicasse per New Delhi il diritto di dotarsi di un arsenale nucleare in funzione anticinese («Anche loro hanno diritto all’atomica»)! Tacendo ovviamente «del ben più poderoso arsenale nucleare statunitense, per difendersi dal quale è pensato il modesto arsenale nucleare cinese» (pp. 196-199).
 
Ma allora che cosa si nasconde dietro la celebrazione di Sua Santità quale cantore della libertà del popolo tibetano e della non-violenza? Come documenta un libro scritto da un ex-funzionario della Cia, secondo l’Autore siamo in presenza di un «Grande gioco» che si è servito (e continua a farlo) della retorica della non-violenza come di uno «schermo» utile a celare il carattere bellico della rivolta del 1959 guidata dal Dalai Lama e condotta grazie ai finanziamenti e agli arsenali provvisti generosamente dagli Usa. Si tratta di una vera e propria «guerra psicologica» che gioca sull’artificiosa e strumentale contrapposizione tra i monaci buddisti dipinti quali non-violenti, amanti della pace e della meditazione e il comunismo bollato invece come violento ed espansionistico (p. 202). Non c’è dubbio: l’incondizionato appoggio armato, finanziario, diplomatico e mediatico che l’Occidente e i suoi circoli più aggressivi garantiscono alla richiesta di indipendenza del Tibet (da secoli parte integrante della Cina) da parte di Sua Santità e alle sue false accuse contro il governo cinese rivela così il suo vero obiettivo: lo smembramento e l’amputazione della Cina, pericoloso rivale economico e geopolitico (pp. 210-219).
 
Dagli incidenti di Piazza Tienanmen alle “rivoluzioni colorate”
 
«La parola d’ordine della non-violenza ha finito col seguire la sorte delle altre “grandi narrazioni” del Novecento: non c’è ideale, per nobile che sia, che non possa trasformarsi in un’ideologia della guerra o in una parola d’ordine per rivendicare l’egemonia». Ecco allora che, continua Losurdo, «Nell’ambito del Grande gioco, se i concorrenti dell’Occidente sono l’incarnazione della violenza, i suoi amici diventano i nuovi Gandhi». Degno di nota è a tal proposito l’atteggiamento tenuto dalla stampa occidentale in occasione delle recenti e numerose contestazioni in Iran. Come si può leggere in più testate giornalistiche, Mir Hussein Mousavi, leader dell’opposizione al regime inviso all’Occidente, viene infatti definito all’unisono come il «Gandhi dell’Iran», glissando ovviamente sul fatto che nel corso delle manifestazioni del «movimento democratico gandhiano» da lui guidato anche tra le forze dell’ordine vi sono state alcune vittime (p. 224). Tornando ora alla Cina, considerazioni analoghe possono essere fatte per le dimostrazioni svoltesi a Pechino e in altre città del gigante asiatico nella primavera del 1989: è nota la denuncia che l’Occidente fece del massacro a danno dei manifestanti pacifici di cui si rese responsabile l'amministrazione cinese. Ma oggi è possibile contestare o comunque problematizzare tale versione dei fatti sulla base dei cosiddetti Tienanmen Papers, pubblicati nel 2001 ad opera di curatori statunitensi. Si tratta di documenti riservati, che ci consentono oggi di conoscere il dibattito interno al governo cinese di allora e la sua tormentata decisione di proclamare la legge marziale per reprimere la manifestazione. È opportuno far notare che l’autenticità di questi rapporti segreti messa in discussione dai dirigenti cinesi, viene invece garantita dai curatori statunitensi. Ma anche a dar ragione a questi ultimi, dalla lettura dei Tienanmen Papers emerge un quadro diverso da quello propagandato dai media occidentali (e assurto a verità anche da parte dei nostri ideologi della nonviolenza intervenuti al convegno di San Servolo)19: vediamo, da un lato, l’ordine di mantenere l’autocontrollo che il governo impone all’esercito e, dall’altro, alcuni gruppi di manifestanti tutt’altro che pacifici scagliarsi violentemente contro le forze dell'ordine e incendiare i camion dell’esercito picchiando a morte i conducenti. Non manca poi il ricorso da parte di questi sedicenti “dissidenti” ad armi vietate dalle convenzioni internazionali quali gas asfissianti e velenosi. Tutti elementi che, assieme all’edizione pirata del «Quotidiano del popolo» distribuita a piene mani dai manifestanti, dovrebbero farci capire che gli incidenti di piazza Tienanmen dell'89 non possono essere considerati solo come una vicenda interna alla Cina. Si è trattato infatti, conclude Losurdo, di un vero e proprio tentativo di colpo di Stato, dal cui fallimento l’Occidente avrebbe comunque appreso una lezione importante, come dimostrano gli strumenti ben più sofisticati (ma, s’intende, sempre all'insegna della non-violenza!) utilizzati in occasione delle cosiddette «rivoluzioni colorate» (pp. 225-228).
 
Ma che cos'è una «rivoluzione colorata»? E come si fa? Ad insegnarlo dettagliatamente è un libro statunitense tradotto in numerose lingue e diffuso gratuitamente - il cui autore (Gene Sharp), per inciso, piace tanto agli ideologi della non-violenza qui già citati (Alberto L’Abate e Nanni Salio). Dalla lettura di questo libro, fa però notare Losurdo, emerge che, piuttosto che di un manuale che insegna a lottare contro i regimi autoritari seguendo il principio della non-violenza con coerenza, siamo invece in presenza di una sorta di «Istruzioni per il colpo di Stato». Ecco allora che la nonviolenza, da principio morale a cui attenersi severamente, diviene, più realisticamente, uno strumento di indignazione morale utile a screditare i regimi invisi ai paesi occidentali. Il manuale invita infatti questi ultimi a spalleggiare, grazie al loro potere mediatico e alle loro fondazioni (Soros ecc.), le sedicenti «rivoluzioni colorate», aiutando i “rivoluzionari” ad inventare e diffondere notizie false per screditare il regime che mirano a rovesciare. Emblematica, a tal proposito, la georgiana «rivoluzione delle rose» (pp. 228-239).
 
Per una pars costruens: democratizzazione dei rapporti internazionali e superamento del capitalismo
 
Non c'è dubbio: «Un ciclo è giunto a termine». La storia della non-violenza ha cioè subito una svolta epocale: «Per tutto un periodo storico la critica della violenza risulta strettamente intrecciata, sia pure in modo talvolta contraddittorio, alla critica dell’espansionismo coloniale e quindi alla critica della pretesa dell’Occidente di ergersi a maestro e signore del globo terrestre». Ciò vale per l’American Peace Society e la Non-Resistance Society, così come per Tolstoj, Gandhi, King e anche per gli italiani Aldo Capitini e Danilo Dolci. «Ora invece la proclamazione dell’ideale della non-violenza va di pari passo con la celebrazione dell’Occidente, che si erge a custode della coscienza morale dell’umanità e si ritiene pertanto autorizzato a scatenare destabilizzazioni e colpi di Stato, nonché embarghi e guerre “umanitarie”, in ogni angolo del mondo». Da Gandhi è stata così ereditata la non-violenza quale tecnica per la produzione dell’indignazione morale, ma dalla «forza nella verità» il principio caro a Gandhi del Satyagraha si è rovesciato nella «forza della manipolazione» (pp. 239-240). Insomma, per calcolo realpolitico la non-violenza si è trasformata da ideologia dell’antimilitarismo e della pace a ideologia della guerra!
 
Dopo aver dato ampio spazio alla decostruzione dei falsi miti che accompagnano la storia di quest’ideologia dai suoi esordi fino ad arrivare ai giorni nostri, Losurdo non manca, nelle riflessioni a conclusione del saggio, di offrirci utili spunti anche per una pars costruens. Di fronte all’intensificazione della guerra, della minaccia di guerra, della corsa al riarmo e del proliferare delle basi militari e di strumenti genocidi quali l’embargo, è necessario cioè riprendere e rilanciare la preziosa lezione antimilitarista che collega «la lotta contro i pericoli di guerra alla lotta contro lo sciovinismo e per la democrazia nei rapporti internazionali». Va quindi contrastata la pretesa odiosa di un gruppo ristretto di paesi (la sedicente comunità internazionale) di arrogarsi il diritto di decidere unilateralmente una spedizione militare punitiva. Tale pretesa, continua Losurdo, «è sul piano delle relazioni internazionali l’analogo di quello che il colpo di Stato rappresenta all’interno di un singolo paese. In questo senso, l’interventismo democratico e umanitario è il contrario della democrazia (e della pace)» (pp. 256-263).
 
In conclusione, il saggio di Losurdo ci offre senz’altro un’utile controstoria della non-violenza. Ma ci offre anche una controstoria della volontà strumentale dell’Occidente di autorappresentarsi e anzi autocelebrarsi come naturale difensore e custode legittimo di questo nobile principio. Dalle sue pagine emerge infatti, in tutta la sua irriducibile contraddittorietà e irrazionalità, lo sforzo inutilmente profuso dall'ideologia dominante di conciliare la difesa teorica della non-violenza con la realtà intrinsecamente violenta dei rapporti politici, sociali e internazionali di un sistema economico protrattosi oltre il suo significato storico.
 
Note
 
1) Cfr. AA. VV., Agire la nonviolenza. Prospettive di liberazione nella globalizzazione, Edizioni Punto Rosso, Milano 2004.
2) Cfr. AA. VV., Il potere, la violenza, la resistenza. Confronto a più voci sulle forme del conflitto politico, Editrice Aurora, Milano 2004.
3) C. Grassi, Che il dibattito prosegua, senza precipitazioni a fini di lotta politica interna, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., p. 33. A San Servolo F. Bertinotti aveva liquidato la questione con questa circonlocuzione: «Prima di questo convegno, ci siamo chiesti se dovessimo portare nella nostra discussione anche approcci diversi da quello principale della nonviolenza, invitando anche relatori della tesi opposta. Abbiamo preferito di no. Non per un atteggiamento illiberale, ma per marcare una pista di ricerca giacché questo è il campo che abbiamo scelto». F. Bertinotti, in AA.VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 267.
4) P. Bernocchi, Violenza, potere, ricorso alla forza. Ma qual è l’oggetto di questo strano dibattito?, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., p. 22.
5) A. Burgio, Non per concludere ma per rilanciare, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., pp. 219-220, 225.
6) G. Pegolo, Dibattito sulla non violenza: tatticismo e discutibili caratteri strategici, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., pp. 170-1, 174, 176.
7) M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001, p. 254.
8) F. Bertinotti, in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 279.
9) N. Salio, L’efficacia della nonviolenza, in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 140.
10) P. Bernocchi, Violenza, potere, cit., p. 24.
 
11) A. Catone, Movimento operaio e teoria della violenza. Alcune note per un excursus storico-teorico, in AA. VV., Il potere, la violenza, cit., p. 108.
12) T. Muzzioli, Spettri del potere e fughe dalla storia: per una critica del paradigma della non-violenza, Marxismo oggi, Teti Editore, Milano, n° 3, 2007, p. 63.
13) Ivi, p. 60.
14) Riporterò fra parentesi e direttamente nel testo le pagine del libro alle quali farò riferimento.
15) Cfr. ad esempio B. Bianchi, Introduzione al pensiero della non-violenza (1830-1968), in Agire la nonviolenza, cit., p. 66.
16) Sugli aspetti più reazionari della dottrina gandhiana cfr. anche L’essenza di classe del gandhismo, Biblioteca Multimediale Marxista.
17) J. Galtung, cit. in A. L’Abate, Marxismo e nonviolenza nella transizione al socialismo. Riflessioni a partire da un dibattito iniziato trent’anni fa., in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., pp. 98-99.
18) L. Menapace, Nonviolenza, opzione etica e azione politica, in AA.VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 130. Scrive la Menapace: «Chiamo […] azione nonviolenta la posizione politica di chi traduce nella prassi sociale una opzione, che è certamente morale al suo inizio, ma che diventa culturale e politica, in modo da progettare, costruire e avviare una alternativa, rischiando anche l’eterogenesi dei fini, ma rimanendo aperti alla novità e all’incognita» (corsivo mio).
19) Cfr. A. L’Abate, Marxismo e nonviolenza nella transizione al socialismo. Riflessioni a partire da un dibattito iniziato trent’anni fa., in AA. VV., Agire la nonviolenza, cit., p. 98. L’Abate si spinge ancora oltre affermando addirittura che la repressione della rivolta di piazza Tienanmen è stata in realtà appoggiata «dagli Usa e dalla Cia», «contro la volontà del Partito Comunista Cinese che si era invece dichiarato a favore degli studenti manifestanti» (sic!), p. 107.
 

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