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Dal potere intelligente alla guerra non convenzionale

Jorge Autié González | cubadebate.cu
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

03/07/2014

Se siete fra quelle persone interessate a mantenersi ben informate sugli eventi politico-militari che hanno luogo nel "nostro mondo", vi sarete imbattuti qualche volta nell'ampia gamma di definizioni che, con maggiore o minore successo, vengono utilizzate da alcuni mezzi di informazione per descrivere le distinte modalità che gli Stati Uniti adottano per esercitare oggi la loro ambizione all'egemonia mondiale.

Non è strano vedere, ascoltare o leggere notizie o commenti che si riferiscono al "potere intelligente" (smart power), alla "impronta leggera", ai "golpe dolci", alla "guerra non convenzionale", "irregolare" o di "quarta generazione".

Il problema si complica se l'interesse verte intorno alla "guerra non convenzionale", la cui mancanza di "convenzionalità" serve da stimolo all'immaginazione.

Sottigliezze che fanno la differenza

Molti di questi concetti sono collegati, fanno parte di altri, sono inerenti o subordinati, alludono ad aspetti specifici di fenomeni di maggiore o minore portata, ecc. Influiscono anche la lingua, la cultura, il profilo professionale e perfino la posizione politica di chi li utilizza. In molti casi, le sottigliezze fanno la differenza.

Se non siete specialisti in materia o non disponete degli strumenti necessari per fare luce su questi aspetti, i vostri sforzi potrebbero indurre a confusione.

La storia comincia più di vent'anni fa, quando il crollo socialista in Europa e la marcia dell'Unione Sovietica verso il suo dissolvimento facevano interrogare molti sulla forma che, a partire da quel momento, avrebbe preso quello che alcuni osano chiamare eufemisticamente "ordine mondiale". Cioè, la situazione derivante dall'interazione tra le potenze dominanti e tra queste e quelli che si intende dominare.

Il tema acquisiva una speciale importanza per gli Stati Uniti, i quali si vedevano eredi indiscussi al trono mondiale e davanti ai quali il resto della plebe del "villaggio globale" doveva inchinarsi o essere disposta a pagare dazio alla sua nobiltà. Sostenevano questa messianica ambizione il "potere ineguagliabile" del loro esercito, capace di fare sentire il "tuono della loro ira" in qualunque angolo del pianeta, per terra o per mare, nell'aria, nello spazio e, perfino, in quella nuova dimensione dell'esistenza umana che è il ciberspazio.

E' in mezzo a questo dibattito che, nel 1990, si pubblica negli Stati Uniti un libro dal titolo "Destinati a comandare: la natura mutevole del potere statunitense", [Bound to Lead: The Changing Nature of American Power] nel quale l'autore, il politologo Joseph Nye espone il concetto di "soft power" [potere dolce], inteso come l'abilità di "attrarre altri dalla nostra parte, senza coercizione".

Nel suo testo, Nye sosteneva la tesi che, da solo, il potere militare sarebbe stato insufficiente a condurre con successo la politica estera di Washington. L'autore osservava che la politica mondiale stava assumendo una forma che rendeva "impossibile alla potenza mondiale più poderosa dai tempi di Roma, raggiungere alcuni dei suoi obiettivi internazionali più importanti" senza l'aiuto di altri o senza per questo pagare. Nye qualificava questo fenomeno come "il paradosso del potere statunitense".

Considerava quindi che l'impiego di strumenti culturali e ideologici, di una diplomazia di nuovo tipo, di strategie di informazione e del "potere dell'esempio", tra le altre cose, avrebbero aumentato la capacità degli Stati Uniti di raggiungere i loro obiettivi per mezzo della "attrazione", invece che mediante l'uso delle tradizionali strategie di pressione.

Tuttavia, fino agli attentati del 11 settembre 2001, gli Stati Uniti utilizzarono la forza - in forma limitata ma reiterata - in un'infinità di occasioni, incluso il combattimento, come accaduto in Iraq, Somalia, Haiti, Liberia, Bosnia-Herzegovina, Sudan e Jugoslavia, per citare solo i casi più rappresentativi.

La natura delle azioni intraprese dall'amministrazione Bush prima in Afghanistan e poi in Iraq, la violazione flagrante del diritto internazionale e il grado di barbarie derivante dall'intervento nordamericano e dei suoi alleati in quei paesi, contraddiceva qualunque traccia di "dolcezza" nell'applicazione del potere militare.

Basta segnalare che nel 2003, gli Stati Uniti intervennero in Iraq senza l'avallo dell'Onu, col pretesto di mettere fine a un programma di armi di distruzione di massa che non esisteva, per fare di quel paese un crogiolo di prosperità e democrazia che la stessa aggressione militare straniera divise e insanguinò come mai prima, calpestando una delle culture più antiche dell'umanità, vessando e torturando, assassinando famiglie innocenti, rubando e avvantaggiando le imprese nordamericane con supposti progetti di ricostruzione.

Tanto oltraggio non poteva che trasformarsi in stimolo alla resistenza per quei popoli, cosa che ha trascinato Washington in una corsa senza fine a "stabilizzare" quei paesi, termine ironico usato dalle forze armate per intendere la pacificazione, divenuta un sogno impossibile.

E' in questo contesto che nel 2007, per mano dello stesso Nye, l'idea del "potere dolce" muta in quella del "potere intelligente", una variazione che riconosce la funzione che continua a giocare il potere militare come strumento per costringere gli altri ad accettare docilmente i "richiami" dell'impero. Un riflesso cristallino del significato di questo concetto si può trovare nell'espressione "diplomazia sostenuta dalla forza".

Nella sua accezione semplice, ciò implica che in assenza di una minaccia diretta e provata ai suoi interessi vitali, il governo degli Stati Uniti dà priorità agli strumenti "dolci" del suo potere, - cioè diplomatici, economici e d'informazione - su quelli militari.

Si impiega la forza in forma più limitata e puntuale, ma non necessariamente meno letale e frequente, come dimostrano gli attacchi con i cosiddetti "droni" in Yemen o Pakistan, sia in funzione di stimolo verso i suoi alleati e soci a garanzia della loro sicurezza e di quella degli Stati Uniti, come nel caso della Nato, o di appoggio ai gruppi ribelli per combattere in luoghi dove non è possibile inviare truppe a invadere e occupare, come succede in Siria.

Impronte di millepiedi

Anche il concetto di "potere intelligente" è espresso nella forma adottata - e che a breve e medio termine continuerà ad adottare - dalla presenza militare Usa nelle diverse regioni del mondo.

Per questa strada quindi si arriva ad un altro concetto in voga tra i corridoi del Pentagono: la "impronta leggera", che si materializza attraverso l'invio a intervalli di forze militari in regioni o paesi di interesse, per svolgere azioni fondamentalmente di non combattimento, senza peraltro escluderlo.

Caratterizzano queste attività, l'utilizzo di personale, gli obiettivi e le scadenze relativamente limitate rispetto alle decine di migliaia di unità dispiegate per la guerra in Afghanistan o stanziati permanentemente nelle basi militari in Giappone.

Un esempio di questa "impronta leggera" è l'operazione "Promesa Continuada" [Promessa continuata] che i militari nordamericani stanno portando avanti in America Latina e nei Caraibi da quindici anni, con motivazioni presuntamene umanitarie. In questo senso, era inviata una nave di grande stazza della Marina da guerra a far visita a una decina di paesi nel corso di vari mesi, per offrire assistenza medica e di altro tipo alle popolazioni locali.

Non è casuale che questo programma sia sorto quando Washington constatò il riconoscimento che nella regione raccoglievano i programmi sanitari e educativi promossi dall'Alba.

Nonostante la "bontà" dei programmi di questo tipo, il Dipartimento della Difesa ha scelto di limitarli, favorendo al contrario le forze per le operazioni speciali, strumento favorito per i riempire il mondo di "impronte leggere".

Se avete dei dubbi, basta guardare le cifre. Secondo il Comando per le operazioni speciali degli Stati Uniti, oltre ai distaccati in Afghanistan, sono circa 12.000 gli effettivi dispiegati quotidianamente in più di 70 paesi.

Detto in altre parole, ogni anno, la "leggerissima" impronta delle forze speciali nordamericane appare in approssimativamente la metà degli Stati membri dell'Onu.

Davanti a tali cifre, la presunta impronta "leggera" torna ad essere realmente "pesante".

Benché per l'80% degli esseri di questo mondo, che sopravvivono col 20% della ricchezza, la globalizzazione possa risultare un concetto astratto, e dotarsi di una qualunque delle "meraviglie" che offre il mercato nella forma di nuove tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni risulti un sogno impossibile, è una realtà che entrambi i fenomeni abbiano stimolato il dibattito sul carattere delle guerre presenti e future. 

L'avanzare di queste tendenze ha portato in auge teorie e terminologie che, benché non riconosciute ufficialmente come "dottrina" dalle forze armate degli Stati Uniti, sono usate con relativa frequenza da militari professionisti e personalità politiche o del mondo accademico, senza escludere dall'elenco commentatori e profani. 

Nuove tecnologie e conflitti militari 

Alcune di esse suggeriscono una relazione con la "guerra non convenzionale, come i casi della "guerra di quarta generazione" e il "conflitto ibrido". In entrambi i casi, con prospettive differenti, si combinano i nuovi progressi della tecnologia con la tattica della guerra irregolare, di cui quella non convenzionale è una forma. 

Il termine di "guerra di quarta generazione" fece la sua apparizione alla fine del decennio 1980, in seno al dibattito sulle forme che avrebbe assunto la guerra nel XXI secolo. I suoi promotori la descrivevano come quella nella quale gli avversari avrebbero duttilmente combinato il terrorismo, l'alta tecnologia e "una guerra psicologica altamente sofisticata, specialmente attraverso la manipolazione dei mezzi di informazione di massa, in particolare le notizie della televisione". 

La complessità nel distinguere lo stato di guerra o di pace sarebbe una qualità distintiva di questa quarta generazione della guerra, perché in essa non ci sarebbero fronti, né campi di battaglia chiaramente definiti e, così come prevale la complessità per distinguere tra guerra e pace, ugualmente difficile sarebbe discernere tra combattenti e non combattenti. 

La "punta di lancia" di questo tipo di guerra non sarebbero i grandi eserciti muniti di blindati e appoggiati da flotte di satelliti, navi o aerei ad alta tecnologia, bensì unità molto piccole o cellule indipendenti che si congiungerebbero in corrispondenza della missione da compiere. La leggerezza di queste strutture ridurrebbe significativamente la dipendenza logistica e favorirebbe la loro capacità di manovra. 

Tali idee non ricevettero una grande accoglienza e alcuni le criticarono. Per costoro, lungi dall'essere una "nuova teoria", la guerra di quarta generazione doveva essere vista come un'evoluzione dell'insurrezione e della contro-insurrezione nell'"era globale". 

Ancora nel 2003, il Pentagono non prestava attenzione a questa teoria. Per invadere l'Iraq, gli Usa utilizzarono circa 200mila effettivi, in maniera più o meno tradizionale, con grandi operazioni aero-terrestri, basate sulla capacità di manovrare agilmente. 

Adeguare la dottrina 

A partire da questo momento la fortuna cominciò a mutare, quando gli sforzi degli Usa per pacificare Iraq e Afghanistan cominciarono ad affrontare la realtà di dover combattere contro un avversario sfuggente, che faceva parte della stessa popolazione, che colpiva incessantemente l'occupante, senza offrirgli terreno da conquistare o un esercito da sconfiggere in una vittoria decisiva. 

Si ripeteva la realtà del Vietnam. La differenza si palesò con le nuove tecnologie dell'informatica e delle comunicazioni, che privarono le grandi catene informative del monopolio delle notizie. Internet e le reti sociali aprirono spazi per lo scambio delle informazioni dallo stesso teatro dei combattimenti. Un telefono mobile o una camera digitale di piccolo formato potevano raccontare al mondo "un'altra storia" della guerra, più reale e drammatica. 

Questa evoluzione obbligava il comando militare Usa a rivedere la sua dottrina per la guerra irregolare e poco dopo, come parte di questa, quella della guerra non convenzionale. Curiosamente, alcune delle idee proposte dai sostenitori della guerra di quarta generazione furono incorporate quasi in toto, cosa che portò aria nuova alle nozioni sui conflitti militari. 

Il lavoro che nel 1989 diede origine a questa teoria affermava testualmente che, in questo tipo di guerra, "la popolazione del paese nemico e perfino la sua cultura diventano degli obiettivi", idea che concorda con la definizione di guerra irregolare data nel 2008 dal Dipartimento della Difesa, che la considera una "lotta violenta (…) per la legittimità e l'influenza sulla popolazione…". 

L'interesse a considerare la popolazione un "obiettivo militare" si evince in modo più chiaro nella dottrina statunitense della guerra non convenzionale, che promuove il rovesciamento dei governi ostili agli interessi di Washington per mezzo di azioni degli stessi cittadini della nazione aggredita. In merito a ciò, la Circolare di addestramento 18-01 delle forze speciali dell'esercito sulla guerra non convenzionale raccomanda di "separare" il governo avversario dalla popolazione locale, di privarlo cioè del suo appoggio. 

Tale pubblicazione propone quindi che la sovversione scavi il potere dell'autorità, mostrandone al contempo l'incapacità a "governare" in modo effettivo. Curiosamente, anche la sfida alla governabilità è presente in ripetuti studi e in abbondante materiale di stampa sulla guerra di quarta generazione, nei quali si corrobora l'idea di sfruttare le debolezze dell'avversario e di minare le sue forze. 

Di più recente origine è il concetto di "conflitto ibrido", sorto a causa della fallita aggressione di Israele contro il Libano nel 2006 e delle esperienze tratte dalle forme di lotta usate dalle milizie del gruppo sciita libanese Hezbollah per sconfiggere l'aggressore sionista. Sebbene quest'idea scaturisca della cupola del Dipartimento della Difesa Usa, fino ad oggi non è stata adottata ufficialmente. 

Come per il concetto di guerra di quarta generazione, i promotori dell'idea del "conflitto ibrido" sottolineano che lo spazio fisico in cui si dipanano le operazioni raramente è ben definito, perché almeno uno dei contendenti non è un esercito regolare. 

Questa classificazione pretende di colmare i vuoti propri del concetto di guerra irregolare, come ad esempio l'impiego da parte dei gruppi armati irregolari di tecnologie avanzate che in altri tempi era riservato unicamente alle forze armate regolari. 

Da quanto detto fino ad ora, vorremmo si capisse che quando si citano alcuni dei termini esposti, come potere intelligente, conflitto ibrido, guerra di quarta generazione, si allude a "teorie" sulla natura della guerra in un momento storico specifico, il cui profilo è fondamentalmente descrittivo-conclusivo e, pertanto, più o meno ambiguo. 

Al contrario, quando ci imbattiamo nei termini di guerra irregolare e guerra non convenzionale, siamo dinanzi agli enunciati della dottrina promossa e utilizzata dalle forze armate nordamericane e dalle altre entità del governo di quel paese. 

State attenti amici lettori, sembrano la stessa cosa… ma non lo sono.


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