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Le patologie del capitalismo

Zoltan Zigedy | mltoday.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

10/11/2015

Il capitalismo deve la sua resistenza alla capacità di ideare nuove tattiche per deviare, distorcere e sgonfiare i movimenti di resistenza. Anche a fronte di un crescente numero di vittime del capitalismo globale, i faccendieri del capitalismo sono riusciti a incanalare l'insoddisfazione e la delusione pubblica verso una diminuita autostima e un'autodistruttività privata.

Katrina Forrester, critico che scrive per il London Review of Books, ha riassunto in una battuta questa insidiosa strategia: di fronte all'oppressione e allo sfruttamento, "non iscriverti a un sindacato, prendi una pillola". Nella sua recensione (22 ottobre 2015) di The Happiness Industry: How the Government and Big Business Sold Us Wellbeing (L'industria della felicità: come il governo e big business ci hanno venduto il benessere) di William Davies, denuncia la consuetudine di definire un comportamento ribelle o atteggiamenti negativi come disturbi psicologici: "... Se non sei felice, se desideri che le cose fossero diverse o se trovi difficile adattarti alle condizioni della vita moderna, corri il rischio che ti venga diagnosticata una malattia mentale".

Sempre più spesso, gli accademici e i terapisti hanno accettato l'idea che depressione o comportamenti disfunzionali siano indice di problemi mentali, indipendentemente dalle cause del comportamento o dell'atteggiamento. Loro, scrive Forrester, "... pensano all'infelicità come una patologia, uno stato psicologico o mentale che andrebbe curato con un intervento comportamentale o medico. Questa è la logica che sottende alla crescita del 'settore felicità'". Così, ad esempio, se una madre irachena perde due figli che combattevano un esercito occupante straniero, se la sua sicurezza personale è costantemente minacciata e le sue condizioni di vita continuano a peggiorare, risulta affetta da un'infelicità patologica. Non sono le condizioni orrende della sua vita (condizioni che avrebbero potuto essere evitate o che potrebbero essere modificate), ma i suoi sentimenti "negativi" che devono cambiare.

Come fa notare Forrester: "Molte persone sono infelici per buone ragioni, ma generalmente queste ragioni non vengono prese in considerazione dalle nuove pratiche terapeutiche del settore felicità".

E continua: "Mentre una volta la soluzione all'infelicità per le condizioni di lavoro veniva risolta con una riforma sociale e l'azione collettiva, ora la soluzione è l'allontanamento e la 'resilienza' individuale; quando vogliamo resistere, invece di iscriverci ad un sindacato, telefoniamo alla ditta per cui lavoriamo per metterci in malattia. Se perdiamo il lavoro e ci sentiamo demoralizzati alla prospettiva di cercarne uno nuovo, anche questo potrebbe essere una condizione diagnosticabile".

Forrester riferisce che nel Regno Unito si è cominciato a ridefinire la disoccupazione come un disturbo psicologico e "l'atteggiamento al lavoro" della persona disoccupata viene usato per determinare il diritto al sussidio.

Nonostante il suo giudizio del libro in esame sia positivo, Forrester critica l'autore per la sua risposta debole all'industria felicità. Piuttosto che riconoscere che l'ossessione per la felicità serve al capitalismo in quanto banalizza la natura distruttiva di questo sistema, William Davies vede il capitalismo come una minaccia alla democrazia. Proponendo "la democratizzazione" dei luoghi di lavoro, Davies si unisce a tutti i socialdemocratici evitando assiduamente di ricondurre le patologie del capitalismo al capitalismo stesso. E Forrester vede questo difetto chiaramente: "La felicità e la depressione sono legate al capitalismo in modi di gran lunga più concreti di quelli riconosciuti da Davies".

Conseguenze patologiche
Non è un segreto che i bianchi sono spesso stati il gruppo demografico più malleabile dal punto di vista sociale. I bianchi di mezza età sono oggi inclini ad aggrapparsi alla narrazione ideologica dominante e ad appoggiare "le verità" della classe dirigente. Ma stanno pagando un caroprezzo per la fiducia che hanno riposto nei ricchi e potenti.

Uno studio recente, Rising morbidity and mortality in midlife among white non-Hispanic Americans in the 21st century (L'incremento nella morbilità e nella mortalità tra gli statunitensi bianchi non-ispanici di mezza età nel 21° secolo), dimostra che i bianchi, soprattutto quelli meno istruiti, di età compresa tra i 45 e i 54 hanno subito un drammatico aumento della mortalità dal 1999 a oggi. Gli autori, i professori Case e Deaton, sostengono che in gran parte questo è dovuto a un aumento di oltre quattro volte delle overdose per droga ed eccesso di alcol, un incremento superiore al 50% dei suicidi e un aumento di 25% della malattia epatica cronica. Inoltre, la loro ricerca collega questi abusi ai problemi di salute mentale e problemi nella gestione di difficoltà personali, soprattutto stress economici.

Case e Deaton ipotizzano che l'aumento della mortalità può aver causato 488.500 morti che avrebbero potuto essere evitati tra il 1999 e il 2013, ciò che i cremlinologi anti-sovietici della Guerra Fredda chiamerebbero "morti non-necessarie".

Mentre c'è molto allarme tra gli operatori nei servizi sociali e tra gli studiosi che appoggiano il capitalismo, ci sono poche teorie su come questa "infelicità" di massa sia insorta e su come arrestarla.

Ma è davvero così difficile discernere le cause di questa epidemia di salute mentale?

Dovrebbe forse sorprenderci che i bianchi che sono diventati adulti durante e dopo gli anni di fanatica auto-promozione statunitense dell'epoca reaganiana, che sono cresciuti in un periodo in cui tutte le questioni sociali venivano risolte con il mantra "TU non stai meglio adesso?", e hanno imparato che "il successo" personale era più importante delle relazioni sociali e delle responsabilità sociali, si siano imbattuti in una delusione, persino nella disperazione a causa delle crisi inesorabili del ventunesimo secolo?

Il capitalismo ha favorito una tendenza ancora presente di alienazione, isolamento e soggettivismo che ha accelerato in modo drammatico negli ultimi quaranta anni. La competitività esasperata per un posto di lavoro, lo status sociale e il potere ha nutrito il virus dell'egoismo e dell'insensibilità. Nello stato di natura hobbesiana affermatosi, molti sono stati consumati dalla spietata concorrenza, dalla lotta per il successo. I "perdenti", e ci devono essere dei perdenti se ci sono vincitori, sono stati privati della loro autostima.

Quando nel primo decennio del ventunesimo secolo, due crisi economiche devastanti hanno scosso la promessa di prosperità senza confini e l'ideologia dell'autopromozione, i più devoti a questo dogma sono stati annichiliti. La dura realtà ha avuto il soppravvento sulle fiabe raccontate dagli apologeti del capitalismo. Per coloro che non vedevano alcuna alternativa, l'alcool, le droghe e il suicidio sono diventati la risposta.

Ma le cause di questa epidemia non si trovano nell'anima o nella mente, ma nel capitalismo. E le soluzioni non si trovano sul divano del terapeuta, in sessioni di terapie di gruppo, in farmacia o nella bottiglia, ma nella creazione di un mondo in cui ognuno abbia un posto accogliente, utile e soddisfacente. Quel posto non esiste dove regna il capitalismo.


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