www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - scienza - 10-09-02

A cura del Centro Studi Biologia Sociale - Acireale-CT

Tra scienza e utopia…

 

Medicina e biologia sociale


di Carmelo R. Viola

La medicina ha due dimensioni complementari: la ricerca e l’applicazione. Il suo primo compito è conoscere com’è fatto l’organismo vivente, come funziona, come cresce, come si ammala, come muore. Il secondo scopo è quello di conoscere come e con quali mezzi si possano prevenire e curare le varie patologie, come e con quali mezzi conservare la salute in misura ottimale e quanto più a lungo possibile, infine, come conservare, e se possibile, anche modificare in meglio il patrimonio genetico della specie. La scienza medica ci offre il paradigma di  come dovrebbe funzionare qualunque studio finalizzato alla causa concreta del bene reale dell’uomo - di ogni uomo: sapere per potere, conoscere la realtà biologica dell’uomo per favorirne e migliorarne l’esistenza nel rispetto rigoroso delle leggi della vita.
Il fine ultimo della medicina è la felicità di ogni essere umano compatibilmente con la finitezza legata allo stesso scorrere della vita sulla morte. In altre parole è la liberazione dell’uomo dall’aggressione ambientale (in ispecie batterica e virale) e dal dolore superfluo dipendente dal cattivo uso che il soggetto fa di sé stesso e dei mezzi (perfino farmaceutici) sempre più potenti, di cui dispone. Tale fine è, per propria natura, universale cioè al di sopra di ogni barriera politica e di ogni diversità etnica e culturale perché “gli altri” - tutti gli altri - sono un fattore fondamentale di quell’ambiente - o habitat biologico - dentro cui vive ogni individuo. Questo significa che chi vive in mezzo a chi sta male, se antropologicamente abbastanza evoluto, vive male egli stesso e che la salute dell’ambiente è parte e condizione della salute di chi ci vive dentro.
Una medicina, portata alle estreme ma logiche conseguenze, ci darebbe un’accezione onnicomprensiva dentro cui sarebbe possibile trovare, a condizione di volerlo, perfino i termini della vera economia, della vera pedagogia, delle migliori attività ricreative, insomma le modalità biosociocompatibili di ogni comportamento dell’uomo. La medicina, infatti, è la biologia del corpo dell’uomo in rapporto all’ambiente circostante esattamente come la scienza del pesce (per fare un esempio) è la biologia del pesce in rapporto all’elemento vitale dentro cui vive e di cui vive e senza del quale semplicemente muore quando non ha il tempo di cessare di essere un pesce per diventare un anfibio.
In atto alla medicina è impedito di essere tutta sé stessa: basti notare come la ricerca è legata alla carità e insieme al profitto del privato e come la fruizione dei suoi prodotti è condizionata dal mercato per cui non solo è oggetto di speculazione industriale e parassitaria ma, nella misura in cui è merce, raggiunge solo coloro che possono comprarsela. Pertanto, se la medicina non dà a tutti e a ciascuno quanto promette, la colpa non è della medicina stessa ma degli uomini e più precisamente di coloro che mantengono un sistema con essa incompatibile.
Analogamente alla medicina la biologia del sociale si distingue in due momenti: la ricerca, che è appunto quanto abbiamo appena detto e l’applicazione che si configura in una specie di ingegneria (biosociale appunto). L’oggetto del suo studio è il corpo-società, che è un organismo vivente sui generis. Di questo analizza e classifica l’anatomia, la fisiologia, la patologia e così via fino alle condizioni e ai mezzi utili per la migliore crescita e il migliore stato di salute. Come per la medicina, non la si può tacciare di ideologismo e di utopismo anche se si fa anche “politologia” ed anche se promette risultati che “sembrano” irrealizzabili solo perché lontani dalle tradizioni e dai costumi attuali. Scienza medica e scienza biosociale descrivono delle realtà viventi intercomunicanti e annotano quanto è necessario per la loro migliore conservazione sempreché i diretti interessati, considerati nel loro insieme - gli uomini - se ne facciano carico ciascuno per le competenze che riveste.
Come per il corpo anche per la civiltà (configurata nei vari socio-sistemi o società) si considerano tre età di compimento: il punto di partenza, che si confonde con l’animalità: è tutto istinto e assenza di consapevolezza e di responsabilità come oggi le intendiamo; la scoperta del sé e del mondo circostante (l’individualismo, l’avventura, la trasgressione: animalità + ragione amorale); il compimento dell’equilibrio tra il sé e l’altro da sé. Il passaggio dalla prima alla seconda è pressoché spontaneo. Il passaggio dalla lunghissima adolescenza alla maturità (civile-sociale-morale) è problematico perché nel frattempo si sono consolidati potenti e gruppi di potere interessati, per propria convenienza, alla conservazione dello statu quo: a tal fine si sono fatti e si fanno ancora promotori di menzogne “demagogiche”, una delle quali è che il capitalismo (espressione economica dell’adolescenza) sia il punto di arrivo della civiltà e quindi un fatto naturale. Naturale il capitalismo lo è stato come superamento della prima età (come riconobbero gli stessi Marx ed Engels) e lo sarebbe ancora (alla stregua del mondo animale, quindi nonostante il sacrificio dei più deboli: in biologia non c’è pietà morale) se la strumentalità (potenziale tecnologico), oggi a crescita esponenziale, non avesse da tempo superata la soglia dell’autocompensazione, propria della giungla, esponendo il genere umano (quindi anche i cosiddetti “padroni del mondo”) al rischio sempre più conclamato di un suicidio collettivo. Pur tacendo del fatto che, mentre nel regno animale ciò che conta è la sopravvivenza della specie, nel mondo umano, è il benessere del singolo individuo (che è puntualmente “un” centro del mondo) e che il soggetto umano, una volta raggiunto il livello dell’empatia o sintonia bioaffettiva - istinto di solidarietà con i propri simili, e quindi qualcosa di molto più della responsabilità morale ragionata - non può tollerare quella sofferenza e quel dolore che la conoscenza scientifica potrebbe evitare. E per questo si batte anche nell’indifferenza generale. In termini psicologici si dice socialità, in termini politici è il socialismo vero, in termini tecnici è l’economia sociale nella versione “plenaria” (cioè coerente-consequenziale) e quindi non sperequativa, non conflittuale, non criminogena, non autodistruttiva.
Il rispetto della fisiologia della crescita della specie in termini di civiltà e di società, può dare all’umanità il massimo della pace, della solidarietà e della sicurezza. Non è utopia. La biologia sociale, al pari della medicina, è scienza naturale. Essa ci dice come una società deve diventare adulta per non morire. Non prospetta soluzioni perfette né definitive ma solo “dinamiche”, in fieri, perfino reversibili se non alimentate, nel contesto della storia, che è solo possibilità a doppio senso. L’uomo può liberarsi dall’ignoranza, dal bisogno e dall’inutile violenza reciproca ma non mai dalla necessità di restare presente a sé stesso, di vigilare su ciò che ha conquistato. Liberarsi non in senso messianico.
Le rivoluzioni sociali - da quella Francese del 1789 a quella Russa sono stati tentativi di accelerare la crescita della collettività verso il sociale forzando la resistenza dei padroni, dei loro servi e degli immaturi, non certo per creare dei paradisi terrestri (anche se qualcuno può averci creduto) ma solo le migliori condizioni possibili di vita di relazione. A tal fine Marx pensò di mobilitare la rabbia sacrosanta degli sfruttati per farne una forza d’urto e su tale base costruì la teoria del classismo. E’ il suo punto debole - o forse solo “forzato” - se è vero che egli stesso aggiunse, in funzione di “catalizzatori rivoluzionari”, le cosiddette “avanguardie”, cioè individui ritenuti socialmente maturi e capaci di “dinamicizzare” le forze socialmente inerti del proletariato. Sta di fatto che alla condizione proletaria e alla rabbia dello sfruttato non corrisponde necessariamente alcuna coscienza rivoluzionaria.
La Rivoluzione Francese servì a spezzare il potere assoluto, a scoprire i diritti naturali, a promuovere lo sviluppo tumultuoso dell’individualismo (oggi giunto all’acme parossistico del neoliberismo) ma servì anche a configurare, nella trilogia famosissima (allora perdente) “libertà-fraternità-uguaglianza” i tre pilastri essenziali, sufficienti, insostituibili, complementari, inscindibili e interattivi, del vero socialismo. Indipendentemente da ogni e qualsiasi circostanza e perfino dall’eventuale inettitudine di alcuni dei suoi attori, la Rivoluzione del 1917 voleva essere il complemento di quella Francese. Essa ha dimostrato che il socialismo è possibile anche se alla fine l’esperimento è crollato per un concorso di concause che qui sarebbe lungo elencare. In ogni caso, il crollo di quell’esperimento, bersaglio di un’aggressione, ora militare, ora psicologica, ora politica senza soluzione di continuità, non  sconfessa ma riconferma la necessità biologica del vero socialismo. Ne è ulteriore prova oggettiva il fatto che dopo il crollo il processo di degenerazione suicida del consorzio umano ha segnato un’accelerazione e nel territorio ex sovietico e nel resto del mondo.
Le progettazioni della scienza biosociale valgono, sul piano morale, quanto le ricette della scienza medica: ambedue operano sulla scorta dell’esperienza. E se c’è una differenza, questa è a favore della prima. Infatti, la medicina, come “biologia della salute dell’uomo”, non solo continua a brancolare nel buio per il molto da scoprire che ha ancora, non solo risente delle alienazioni del mercato ma, nella pratica quotidiana, deve fare i conti di volta in volta con la risposta biologica che varia da individuo a individuo. Al contrario, la biosociologia, come “biologia della civiltà”, dispone già di una mappa fenomenologica quasi compiuta che va dalle pulsioni biologiche costanti (che fungono da motori anche occulti della vita di ognuno e della storia) ai possibili effetti, che seguono alle combinazioni tra istintività, ragione amorale, lotta per l’esistenza e per il potere, diseguaglianze, conflittualità criminale, potenziale tecnologico e così via, ed è quindi in grado di affermare verità basilari come queste:
1 - che l’uomo non è né cattivo né buono ma solo soggetto a bisogni costanti (il primo dei quali è espresso dalla fame) dalla cui soddisfazione o meno dipendono la sua sopravvivenza o la sua malattia, il suo equilibro  o la sua reazione distruttiva compensatrice;
2 - che la civiltà-società può sopravvivere solo se raggiunge la maturità  ovvero se realizza un modus vivendi ispirato alla trilogia del 1789;
3 - che nessuna “natura precostituita” (che sarebbe antibiologica) si oppone alla realizzazione di tale trilogia dal momento che gl'individui sono quello che diventano cambiando le modalità di risposta ai bisogni costanti.
L’esperienza sovietica ha senz’altro insegnato altre due cose:
1 - che non è questione di salvare una classe contro un’altra ma l’intera umanità da sé stessa;
2 - che una rivoluzione sociale imposta può essere una guerra in più e la premessa di un’ulteriore sconfitta.
Gli ultimi sviluppi del capitalismo hanno confermato la precarietà del classismo marxista e la capacità dei più forti di catechizzare-corrompere gl’individui razionalmente immaturi, oggi con la suggestione del consumismo e il miraggio di un possibile arricchimento. Grazie anche al potere altamente corruttivo delle possibili vincite miliardarie, il proletario di casa nostra ha cessato di sentirsi un “nemico di classe” del padrone per diventarne un “concorrente”: uno che si fa complice del suo strozzino. Ed anche questa circostanza prova non il fallimento del socialismo ma la sua accresciuta urgenza.
C’è da augurarsi che anche i vincitori finiscano per rendersi conto di essere anche loro - davanti alla prospettiva della rovina generale - degli “uomini biologicamente falliti” e indegni di sé stessi, prima che sia troppo tardi.

Carmelo R. Viola