A cura del Centro Studi Biologia Sociale - Acireale-CT
Tra scienza e utopia…
di Carmelo R. Viola
La medicina ha due
dimensioni complementari: la ricerca e l’applicazione. Il suo primo compito è
conoscere com’è fatto l’organismo vivente, come funziona, come cresce, come si
ammala, come muore. Il secondo scopo è quello di conoscere come e con quali
mezzi si possano prevenire e curare le varie patologie, come e con quali mezzi
conservare la salute in misura ottimale e quanto più a lungo possibile, infine,
come conservare, e se possibile, anche modificare in meglio il patrimonio
genetico della specie. La scienza medica ci offre il paradigma di come dovrebbe funzionare qualunque studio
finalizzato alla causa concreta del bene reale dell’uomo - di ogni uomo: sapere per potere, conoscere la
realtà biologica dell’uomo per favorirne e migliorarne l’esistenza nel rispetto
rigoroso delle leggi della vita.
Il fine ultimo della medicina è la felicità di ogni essere umano
compatibilmente con la finitezza legata allo stesso scorrere della vita sulla
morte. In altre parole è la liberazione dell’uomo dall’aggressione ambientale
(in ispecie batterica e virale) e dal dolore superfluo dipendente dal cattivo
uso che il soggetto fa di sé stesso e dei mezzi (perfino farmaceutici) sempre
più potenti, di cui dispone. Tale fine è, per propria natura, universale cioè
al di sopra di ogni barriera politica e di ogni diversità etnica e culturale
perché “gli altri” - tutti gli altri - sono un fattore fondamentale di
quell’ambiente - o habitat biologico - dentro cui vive ogni individuo. Questo
significa che chi vive in mezzo a chi sta male, se antropologicamente
abbastanza evoluto, vive male egli stesso e che la salute dell’ambiente è parte
e condizione della salute di chi ci vive dentro.
Una medicina, portata alle estreme ma logiche conseguenze, ci darebbe
un’accezione onnicomprensiva dentro cui sarebbe possibile trovare, a condizione
di volerlo, perfino i termini della vera economia, della vera pedagogia, delle
migliori attività ricreative, insomma le modalità biosociocompatibili di ogni
comportamento dell’uomo. La medicina, infatti, è la biologia del corpo
dell’uomo in rapporto all’ambiente circostante esattamente come la scienza del
pesce (per fare un esempio) è la biologia del pesce in rapporto all’elemento
vitale dentro cui vive e di cui vive e senza del quale semplicemente muore
quando non ha il tempo di cessare di essere un pesce per diventare un anfibio.
In atto alla medicina è impedito di essere tutta sé stessa: basti notare come
la ricerca è legata alla carità e insieme al profitto del privato e come la
fruizione dei suoi prodotti è condizionata dal mercato per cui non solo è
oggetto di speculazione industriale e parassitaria ma, nella misura in cui è merce,
raggiunge solo coloro che possono comprarsela. Pertanto, se la medicina non dà
a tutti e a ciascuno quanto promette, la colpa non è della medicina stessa ma
degli uomini e più precisamente di coloro che mantengono un sistema con essa
incompatibile.
Analogamente alla medicina la biologia del sociale si distingue in due momenti:
la ricerca, che è appunto quanto abbiamo appena detto e l’applicazione che si
configura in una specie di ingegneria (biosociale appunto). L’oggetto del suo
studio è il corpo-società, che è un organismo vivente sui generis. Di questo
analizza e classifica l’anatomia, la fisiologia, la patologia e così via fino
alle condizioni e ai mezzi utili per la migliore crescita e il migliore stato
di salute. Come per la medicina, non la si può tacciare di ideologismo e di
utopismo anche se si fa anche “politologia” ed anche se promette risultati che
“sembrano” irrealizzabili solo perché lontani dalle tradizioni e dai costumi
attuali. Scienza medica e scienza biosociale descrivono delle realtà viventi
intercomunicanti e annotano quanto è necessario per la loro migliore
conservazione sempreché i diretti interessati, considerati nel loro insieme -
gli uomini - se ne facciano carico ciascuno per le competenze che riveste.
Come per il corpo anche per la civiltà (configurata nei vari socio-sistemi o
società) si considerano tre età di compimento: il punto di partenza, che si
confonde con l’animalità: è tutto istinto e assenza di consapevolezza e di
responsabilità come oggi le intendiamo; la scoperta del sé e del mondo
circostante (l’individualismo, l’avventura, la trasgressione: animalità +
ragione amorale); il compimento dell’equilibrio tra il sé e l’altro da sé. Il
passaggio dalla prima alla seconda è pressoché spontaneo. Il passaggio dalla
lunghissima adolescenza alla maturità (civile-sociale-morale) è problematico
perché nel frattempo si sono consolidati potenti e gruppi di potere
interessati, per propria convenienza, alla conservazione dello statu quo: a tal
fine si sono fatti e si fanno ancora promotori di menzogne “demagogiche”, una
delle quali è che il capitalismo (espressione economica dell’adolescenza) sia
il punto di arrivo della civiltà e quindi un fatto naturale. Naturale il
capitalismo lo è stato come superamento della prima età (come riconobbero gli
stessi Marx ed Engels) e lo sarebbe ancora (alla stregua del mondo animale,
quindi nonostante il sacrificio dei più deboli: in biologia non c’è pietà
morale) se la strumentalità (potenziale tecnologico), oggi a crescita
esponenziale, non avesse da tempo superata la soglia dell’autocompensazione,
propria della giungla, esponendo il genere umano (quindi anche i cosiddetti
“padroni del mondo”) al rischio sempre più conclamato di un suicidio
collettivo. Pur tacendo del fatto che, mentre nel regno animale ciò che conta è
la sopravvivenza della specie, nel mondo umano, è il benessere del singolo
individuo (che è puntualmente “un” centro del mondo) e che il soggetto umano,
una volta raggiunto il livello dell’empatia o sintonia bioaffettiva - istinto di solidarietà con i propri
simili, e quindi qualcosa di molto più della responsabilità morale ragionata -
non può tollerare quella sofferenza e quel dolore che la conoscenza scientifica
potrebbe evitare. E per questo si batte anche nell’indifferenza generale. In
termini psicologici si dice socialità, in termini politici è il socialismo
vero, in termini tecnici è l’economia sociale nella versione “plenaria” (cioè
coerente-consequenziale) e quindi non sperequativa, non conflittuale, non
criminogena, non autodistruttiva.
Il rispetto della fisiologia della crescita della specie in termini di civiltà
e di società, può dare all’umanità il massimo della pace, della solidarietà e
della sicurezza. Non è utopia. La biologia sociale, al pari della medicina, è
scienza naturale. Essa ci dice come una società deve diventare adulta per non
morire. Non prospetta soluzioni perfette né definitive ma solo “dinamiche”, in
fieri, perfino reversibili se non alimentate, nel contesto della storia, che è
solo possibilità a doppio senso. L’uomo può liberarsi dall’ignoranza, dal
bisogno e dall’inutile violenza reciproca ma non mai dalla necessità di restare
presente a sé stesso, di vigilare su ciò che ha conquistato. Liberarsi non in
senso messianico.
Le rivoluzioni sociali - da quella Francese del 1789 a quella Russa sono stati
tentativi di accelerare la crescita della collettività verso il sociale
forzando la resistenza dei padroni, dei loro servi e degli immaturi, non certo
per creare dei paradisi terrestri (anche se qualcuno può averci creduto) ma
solo le migliori condizioni possibili di vita di relazione. A tal fine Marx
pensò di mobilitare la rabbia sacrosanta degli sfruttati per farne una forza
d’urto e su tale base costruì la teoria del classismo. E’ il suo punto debole -
o forse solo “forzato” - se è vero che egli stesso aggiunse, in funzione di
“catalizzatori rivoluzionari”, le cosiddette “avanguardie”, cioè individui
ritenuti socialmente maturi e capaci di “dinamicizzare” le forze socialmente
inerti del proletariato. Sta di fatto che alla condizione proletaria e alla
rabbia dello sfruttato non corrisponde necessariamente alcuna coscienza
rivoluzionaria.
La Rivoluzione Francese servì a spezzare il potere assoluto, a scoprire i
diritti naturali, a promuovere lo sviluppo tumultuoso dell’individualismo (oggi
giunto all’acme parossistico del neoliberismo) ma servì anche a configurare,
nella trilogia famosissima (allora perdente) “libertà-fraternità-uguaglianza” i tre pilastri essenziali,
sufficienti, insostituibili, complementari, inscindibili e interattivi, del
vero socialismo. Indipendentemente da ogni e qualsiasi circostanza e perfino
dall’eventuale inettitudine di alcuni dei suoi attori, la Rivoluzione del 1917
voleva essere il complemento di quella Francese. Essa ha dimostrato che il socialismo
è possibile anche se alla fine l’esperimento è crollato per un concorso di
concause che qui sarebbe lungo elencare. In ogni caso, il crollo di
quell’esperimento, bersaglio di un’aggressione, ora militare, ora psicologica,
ora politica senza soluzione di continuità, non sconfessa ma riconferma la necessità biologica del vero
socialismo. Ne è ulteriore prova oggettiva il fatto che dopo il crollo il
processo di degenerazione suicida del consorzio umano ha segnato
un’accelerazione e nel territorio ex sovietico e nel resto del mondo.
Le progettazioni della scienza biosociale valgono, sul piano morale, quanto le
ricette della scienza medica: ambedue operano sulla scorta dell’esperienza. E
se c’è una differenza, questa è a favore della prima. Infatti, la medicina,
come “biologia della salute dell’uomo”,
non solo continua a brancolare nel buio per il molto da scoprire che ha ancora,
non solo risente delle alienazioni del mercato ma, nella pratica quotidiana,
deve fare i conti di volta in volta con la risposta biologica che varia da
individuo a individuo. Al contrario, la biosociologia, come “biologia della civiltà”, dispone già
di una mappa fenomenologica quasi compiuta che va dalle pulsioni biologiche
costanti (che fungono da motori anche occulti della vita di ognuno e della
storia) ai possibili effetti, che seguono alle combinazioni tra istintività,
ragione amorale, lotta per l’esistenza e per il potere, diseguaglianze,
conflittualità criminale, potenziale tecnologico e così via, ed è quindi in
grado di affermare verità basilari come queste:
1 - che l’uomo non è né cattivo né buono ma solo soggetto a bisogni costanti
(il primo dei quali è espresso dalla fame) dalla cui soddisfazione o meno
dipendono la sua sopravvivenza o la sua malattia, il suo equilibro o la sua reazione distruttiva compensatrice;
2 - che la civiltà-società può sopravvivere solo se raggiunge la maturità ovvero se realizza un modus vivendi ispirato
alla trilogia del 1789;
3 - che nessuna “natura precostituita”
(che sarebbe antibiologica) si oppone alla realizzazione di tale trilogia dal
momento che gl'individui sono quello che diventano cambiando le modalità di
risposta ai bisogni costanti.
L’esperienza sovietica ha senz’altro insegnato altre due cose:
1 - che non è questione di salvare una classe contro un’altra ma l’intera
umanità da sé stessa;
2 - che una rivoluzione sociale imposta può essere una guerra in più e la
premessa di un’ulteriore sconfitta.
Gli ultimi sviluppi del capitalismo hanno confermato la precarietà del
classismo marxista e la capacità dei più forti di catechizzare-corrompere
gl’individui razionalmente immaturi, oggi con la suggestione del consumismo e
il miraggio di un possibile arricchimento. Grazie anche al potere altamente
corruttivo delle possibili vincite miliardarie, il proletario di casa nostra ha
cessato di sentirsi un “nemico di classe” del padrone per diventarne un
“concorrente”: uno che si fa complice del suo strozzino. Ed anche questa
circostanza prova non il fallimento del socialismo ma la sua accresciuta urgenza.
C’è da augurarsi che anche i vincitori finiscano per rendersi conto di essere
anche loro - davanti alla prospettiva della rovina generale - degli “uomini biologicamente falliti” e
indegni di sé stessi, prima che sia troppo tardi.
Carmelo R. Viola