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Breve storia della nozione di cooperazione nell'evoluzione biologica (seconda parte)

Johan Hoebeke - Etudes marxistes | marx.be
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

2015

Questa analisi è tratta da una presentazione tenuta il 1° ottobre 2014 a Strasburgo al simposio Cooperation as a third pillar of biological evolution, organizzato dall'USIAS (University of Strasbourg's Institute for Advanced Studies)

(prima parte)

Dalla simbiosi all'endosimbiosi: le nostre cellule come risultato della cooperazione

Il termine simbiosi era ancora sconosciuto all'epoca in cui Darwin scrisse il suo L'origine delle specie. La parola in greco significa "vivere insieme" e fu usata per la prima volta dal botanico tedesco Heinrich Anton de Bary (1831-1888), che spiega come i licheni derivino dalla necessaria convivenza di due organismi differenti: i cianobatteri, attraverso la fotosintesi, forniscono nutrienti al fungo, mentre il fungo protegge i cianobatteri con i suoi filamenti e fornisce loro un posto cui ancorarsi dove l'umidità è costante. I due componenti sono così dipendenti l'uno dall'altro che non possono sopravvivere separatamente. Oggi il termine simbiosi è generalmente definito come la coabitazione di due specie diverse. Pierre Joseph Van Beneden (1809-1894), professore a Leuven, in seguito limitò la definizione di questo termine alla coabitazione in un interesse comune, per distinguerla dal commensalismo (coabitazione vantaggiosa per uno e senza beneficio o svantaggio per l'altro) o dal parassitismo (un organismo che vive a spese dell'altro). È solo negli ultimi vent'anni che i ricercatori si sono dedicati allo studio di questo tipo di cooperazione. Come dice Nancy Moran in un articolo sulla simbiosi: "I simbionti sopravvivono avendo effetti importanti sui loro ospiti. Quindi, anche se appena percettibili e spesso trascurati, sono fattori critici per l'avvenire dei processi evolutivi ed ecologici. Ora è chiaro che giocano un ruolo chiave nella diffusione adattativa, nell'evoluzione di ceppi e nella diversificazione ecologica. Allo stesso modo, è probabile che giochino un ruolo nei limiti evolutivi e nell'estinzione dei loro ospiti" [12]. Oggi sappiamo anche che la simbiosi è all'origine di tutte le cellule eucariotiche (cellule che presentano una struttura complessa).

Dopo l'annessione dell'Alsazia durante il Secondo impero tedesco (1870), Heinrich Anton de Bary ottenne una cattedra all'Università di Strasburgo. Non sorprende quindi che fu uno dei suoi studenti, l'alsaziano Andreas Frans Wilhelm Schimper (1856-1901), il primo a formulare l'ipotesi che le cellule vegetali siano in realtà endosimbionti, cioè cellule formate dalla fusione di una singola cellula con un batterio fotoautotrofo, che è stato trasformato in un cloroplasto (l'organo intracellulare responsabile della fotosintesi nelle piante verdi) [13]. Fu il botanico russo Constantin Merejkovski (1855-1921) che, studiando i licheni, formulò l'ipotesi generale che le cellule complesse siano in realtà il risultato della simbiogenesi, ovvero la fusione di diverse cellule primitive [14]. Vari botanici russi, francesi e americani cercarono di provare sperimentalmente questa ipotesi separando cloroplasti da cellule vegetali per farle riprodurre in vitro, ma senza successo. Il fatto che Merejkovski fosse un antisemita di estrema destra, condannato per pedofilia e truffa, e che si sia suicidato in modo spettacolare in un hotel svizzero, è anche uno dei motivi per cui la sua ipotesi è stata dimenticata. Oggi sappiamo che i tentativi di far crescere i cloroplasti separatamente sono falliti perché gran parte del genoma cloroplastico primitivo (la base dell'ereditarietà) si è trasferito nel nucleo cellulare (il genoma della cellula vegetale).

Solo a metà degli anni '60 la teoria dell'endosimbiosi fu riproposta da Lynn Margulis (1938-2013), che incontrò una forte opposizione da parte dei genetisti evolutivi ortodossi. Dopo quindici tentativi, riuscì finalmente a far pubblicare un articolo in una rivista scientifica in cui spiegava che la discontinuità tra procarioti (cellule con un citoplasma non strutturato) ed eucarioti (cellule con una struttura interna) poteva derivare dall'evoluzione di simbionti primitivi [15]. Passarono più di vent'anni prima che, grazie all'uso di nuove tecniche di biologia molecolare, la sua teoria fosse accettata come nuovo paradigma scientifico, ovvero che i cloroplasti e i mitocondri (organuli responsabili della produzione di energia della cellula) presenti negli eucarioti fossero la conseguenza evolutiva di processi endosimbiotici. L'importanza di questi processi non può essere sottovalutata. Infatti, prima della comparsa del mitocondrio, la vita era possibile solo sulla scala del micrometro (unità pari a un milionesimo di metro) ed era quindi limitata alle dimensioni dei batteri attuali. Questo perché le molecole energetiche possono percorrere solo una piccola distanza prima di essere consumate nelle reazioni chimiche. Il mitocondrio, che risulta dalla fusione di due procarioti chimicamente complementari (uno produce le molecole necessarie all'altro per sintetizzare le molecole energetiche), aumenterà notevolmente l'efficienza di questa sintesi. Questa maggiore produzione porta automaticamente ad un aumento della superficie di distribuzione permettendo la comparsa di esseri viventi più grandi. Non appena il mitocondrio è in grado di moltiplicarsi in una cellula endosimbiotica, il problema dell'apporto energetico in cellule più grandi è risolto e la vita può espandersi su dimensioni maggiori. La biodiversità, oggi caratteristica della natura vivente sulla terra, sarebbe stata impossibile se questa cooperazione primitiva non avesse avuto luogo diversi miliardi di anni prima. Contrariamente al darwinismo sociale, per cui la competizione è alla base della vita, ora sappiamo che è stata la cooperazione tra pochi procarioti complementari a rendere possibile la biodiversità.

Dai geni egoisti ai gruppi altruisti

La riscoperta delle leggi di Mendel sui principi dell'ereditarietà, secondo cui ogni fattore ereditario portato dai geni viene, dopo la ricombinazione, trasmesso alla discendenza, fornisce prove sperimentali alla teoria dell'ereditarietà di Darwin. Il fatto che questi geni siano esposti al cambiamento spiega anche la variabilità ipotizzata da Darwin nella sua teoria dell'evoluzione. La distribuzione e la frequenza dei geni all'interno di un dato gruppo di popolazione porta ad una nuova disciplina scientifica (genetica delle popolazioni). Uno dei fondatori di questa disciplina fu Ronald Aylmer Fisher (1890-1962). Nel suo libro The Genetical Theory of Natural Selection, ha spiegato che in grandi gruppi di popolazione, piccoli cambiamenti genetici, sotto l'influenza della selezione naturale e sul lungo termine, permetteranno alla specie di adattarsi al suo ambiente in modo eccezionale. Nei capitoli finali della sua opera, dove considera la variabilità genetica come l'unico fattore su cui la selezione naturale può esercitare la sua influenza e sviluppa questo ragionamento fino alla fine applicandolo al genere umano, descrive la necessità dell'eugenetica, una politica attiva secondo cui si dovrebbe impedire ai "meno adatti" di avere figli, perché "l'élite" tende ad avere meno figli. Questa politica fu portata all'estremo dal regime nazista, che sterminò le "razze inferiori" e istituì il programma Lebensborn, cioè l'accoppiamento di giovani donne ariane con ufficiali delle SS che fungevano da stalloni, con lo scopo di preservare la purezza della razza ariana.

John Burdon Sanderson Haldane (1892-1964) fu uno dei fondatori di quello che oggi si chiama neodarwinismo. Il fatto che sia passato da biologo a genetista, e non da statistico come Fisher, spiega perché abbia adottato un approccio più sfumato nel combinare la teoria della selezione naturale di Darwin con la genetica di Mendel. Secondo lui, la selezione naturale è la causa principale della variabilità in un gruppo di popolazione. Ha intitolato il suo libro The Causes of Evolution (Le cause dell'evoluzione) per sottolineare il fatto che altri fattori possono aver giocato un ruolo. Si oppose anche all'idea che solo i cambiamenti adattivi passino attraverso il filtro della selezione naturale e dimostrò invece che i tratti che non sono adattivi possono essere trasmessi. Fu anche il primo a chiedersi come l'altruismo, una caratteristica che danneggia l'organismo individuale a beneficio del gruppo, possa essere sopravvissuto come tratto mendeliano. Ne dedusse che: "I vantaggi biologici del comportamento altruista superano gli svantaggi solo se una proporzione sufficientemente grande del gruppo si comporta altruisticamente... Se negli esseri umani si trovano comunemente geni che favoriscono un comportamento biologicamente svantaggioso per l'individuo [...] ma vantaggioso per la comunità, questi geni devono essersi diffusi in un periodo in cui gli esseri umani erano divisi in piccoli gruppi endogami" [16]. I dati più recenti sulla comparsa dell'uomo indicano che questi gruppi sono proprio quelli che hanno dato origine a l'Homo sapiens. Haldane fu anche il precursore della nozione di selezione parentale (kin selection ), di cui parleremo più avanti. Con il suo famoso commento "Sono disposto a gettarmi al fiume per due dei miei fratelli o otto dei miei cugini", voleva dimostrare che il numero di geni nel rapporto di consanguineità sarebbe stato decisivo per il comportamento altruista [17].

Fu uno dei suoi studenti, John Maynard Smith, che per primo definì la selezione parentale come l'evoluzione di un tratto che favorisce la sopravvivenza dei parenti vicini al portatore del tratto, attraverso processi che non richiedono alcun cambiamento nella struttura riproduttiva del gruppo [18]. L'articolo di Maynard Smith è una risposta allo zoologo Vero Copner Wynne-Edwards (1906-1997) che, nel suo libro Animal Dispersion in Relation to Social Behaviour (Dispersione animale in relazione al comportamento sociale), si oppone ai meccanismi maltusiani (scarsità di cibo, malattie dovute alla sovrappopolazione, sterminio reciproco) che limitano il numero di individui in un dato gruppo, e difende invece l'idea di un equilibrio omeostatico (equilibrio controllato) a cui è soggetto il gruppo. Secondo lui, "per capire la selezione di gruppo dobbiamo prima riconoscere che i gruppi di popolazione locale hanno principalmente antenati comuni, che si riproducono e che quindi sono potenzialmente immortali... Ciò che conta, allora, è se il gruppo può sopravvivere o se è destinato a scomparire. Se il comportamento sociale del gruppo non viene adattato, il numero di individui inizialmente diminuirà e il gruppo alla fine scomparirà... È attraverso questo meccanismo che i tratti caratteriali del gruppo si evolvono lentamente" [19]. Come vedremo più avanti, i biologi evolutivi contemporanei mostrano un nuovo interesse per la selezione di gruppo e Wynne-Edwards può quindi essere riconosciuto come un precursore che ha rotto con il pensiero unico della genetica.

Il pensiero unico della genetica dominerà tutto il pensiero evoluzionista a metà del XX secolo, dopo la decifrazione della struttura del DNA, la base chimica del gene, e dei meccanismi coinvolti nell'eredità e nella traduzione del genotipo (l'insieme dei geni di un organismo) nelle strutture proteiche, alla base del fenotipo (l'aspetto di un organismo). I processi biochimici e fisiologici, così come il comportamento psicologico e sociale, sono ridotti ad una funzione puramente genetica. William Donald Hamilton (1936-2000) traduce la selezione parentale in una formula matematica (rB > C) dove r è il coefficiente di consanguineità tra l'attore e il beneficiario, B è la somma dei benefici per tutti gli individui interessati dal comportamento, C è il costo per l'individuo che compie l'azione [20]. Robert Ludlow Trivers (nato nel 1943) va oltre esprimendo l'altruismo reciproco in termini genetici. Secondo lui, "ogni individuo ha tendenze altruiste e di tradimento, la cui espressione è sensibile alle variabili di sviluppo e che sono selezionate per un equilibrio che adatta queste variabili agli ambienti sociali ed ecologici locali [21]. Questo riduzionismo porterà all'assurda teoria che tutti gli organismi sono vasi passivi il cui ruolo è trasmettere materiale genetico, come descritto in The Selfish Gene (Il gene egoista) di Richard Dawkins (1971) e in Sociobiology di Edward Osborne Wilson (1975), il cui primo capitolo tratta della "morale del gene" [22]. Le aspettative erano quindi molto alte riguardo alla realizzazione del progetto genoma umano, il cui scopo era quello di sezionare il genoma completo dell'Homo sapiens e, in questo modo, arrivare ad una conoscenza completa dell'uomo. Solo sessant'anni dopo la scoperta della struttura a doppia elica del DNA e dieci dopo la decifrazione del genoma umano, questo ragionamento riduzionista fu messo a tacere. L'evidenza sperimentale dimostrava che il dogma secondo cui esiste un legame lineare tra il gene, l'espressione del gene in una proteina e il fenotipo era totalmente obsoleto. E come ammette Philip Ball nel suo commento, bisogna riconoscere che ancora non sappiamo come funziona l'evoluzione a livello molecolare [23], per non parlare del livello individuale o di specie. Come possiamo allora pretendere di capire il comportamento psicologico e sociale attraverso la conoscenza del genoma?

L'idea che la selezione naturale avvenga non solo a livello di gene, ma anche a livello di gruppo, come aveva suggerito Wynne-Edwards, fu ripresa dall'eccentrico George Robert Price (1922-1975). Price, chimico e fisico, laureatosi all'Università di Chicago, ha insegnato in varie università e lavorato per diverse industrie chimiche prima di approdare ai laboratori Bell. Dopo aver sofferto di un cancro alla tiroide, subì un'operazione che gli paralizzò parzialmente la spalla sinistra e decise di cambiare vita con i soldi dell'assicurazione sanitaria e si trasferì in Gran Bretagna. Lì prese contatti con W.D. Hamilton, al quale propose una versione corretta della sua equazione che permetteva la selezione di gruppo come covariante [24]. Questo approccio matematico al processo evolutivo ha permesso di considerare due tipi di altruismo, uno positivo e uno negativo (malevolenza). Hamilton lo incoraggiò ad approfondire le sue idee, ma Price, impegnato a dimostrare l'esistenza dell'altruismo a livello pratico aiutando i senzatetto, diede via tutto quello che possedeva e quello che non era ancora stato rubato, sprofondando poi in una profonda depressione che lo portò al suicidio. Fu il suo amico Hamilton che ne identificò il corpo all'obitorio e più tardi decise di tradurre il suo approccio matematico nella cosiddetta equazione Hamilton-Price, che è la base della teoria dell'evoluzione sociale. Questa equazione esprime che, quando il numero di altruisti in un gruppo è alto, il gruppo cresce nonostante la perdita di riproduzione tra gli altruisti finché l'altruismo si diffonde nel gruppo.

L'idea che la selezione naturale possa lavorare solo su un individuo è contestata da Wilson e Sober, che danno una definizione più scientifica alla nozione di individuo o organismo biologico [25]. Sostengono che la definizione dei termini "individuo" e "organismo", usati in modo equivoco nella biologia evolutiva, deve essere rafforzata. Un organismo, a differenza di un individuo, è una "forma di vita composta da elementi interdipendenti che supportano diversi processi vitali". Ciò che è importante in questa definizione è l'enfasi sull'organizzazione funzionale di un organismo. In questo senso, i geni negli individui, gli individui nel gruppo o le specie nella comunità sono tutti organismi su cui la natura può effettuare una selezione. Limitare l'organismo ai "geni in un individuo" è quindi una contraddizione. Se è così, allora si può studiare la selezione naturale a diversi livelli e vedere quale di questi livelli ha il maggior impatto nella selezione. Questo permette di estendere le equazioni matematiche usate nella genetica delle popolazioni per determinare la frequenza dei geni in relazione al beneficio adattivo di quel gene per l'organismo ad altri livelli di selezione, e quindi di esaminare come un individuo in un gruppo possa portare i benefici adattivi del suo gruppo all'intera comunità. Basandosi sulla definizione estesa di organismo, il biomatematico Martin Nowak (nato nel 1965) formulerà matematicamente certi fenomeni come la selezione parentale, l'altruismo reciproco (se tu mi gratti la schiena, io gratto la tua), l'altruismo indiretto (vedo che tu gratti la schiena a qualcuno, io ti gratto la schiena nella speranza che tu gratti la mia), l'altruismo di rete (i vicini altruisti formano una rete sempre più forte unendosi ed escludendo i non altruisti dalla rete) e la selezione di gruppo (un gruppo in cui domina la cooperazione ha più possibilità di sopravvivenza di un gruppo in cui non esiste cooperazione). Secondo Nowak, "i due principi fondamentali dell'evoluzione sono la variabilità e la selezione naturale. Ma l'evoluzione diventa costruttiva attraverso la cooperazione. Nuovi livelli di organizzazione si sviluppano quando entità in lotta al livello più basso cominciano a cooperare. La cooperazione permette la specializzazione e quindi promuove la biodiversità. La cooperazione è il segreto dell'indeterminatezza del processo evolutivo. Forse l'aspetto più notevole dell'evoluzione è la sua capacità di generare cooperazione in un mondo competitivo. Possiamo quindi aggiungere la 'cooperazione naturale' come terzo principio fondamentale dell'evoluzione, accanto alla variabilità e alla selezione naturale" [26]..

La prova che la nozione di cooperazione, considerata eterodossa dai biologi evolutivi qualche decennio fa, è ora presa sempre più in considerazione in questo ambiente è senza dubbio la svolta del sociobiologo E.O. Wilson che, insieme a D.S. Wilson, ha scritto un articolo in cui riconosce in modo lapidario che "l'egoismo prevale sull'altruismo in un gruppo. I gruppi di altruisti prevalgono sui gruppi di egoisti. Tutto il resto non sono che commenti" [27]. Lo stesso Wilson pubblicò anche un articolo con Nowak in cui scrisse che "l'eusocialità, in cui alcuni individui riducono il loro potenziale riproduttivo totale per favorire la prole di altri, è alla base delle forme più avanzate di organizzazione sociale e del ruolo ecologicamente dominante degli insetti sociali e della specie umana" [28].

È quindi chiaro che il dogma ideologico secondo cui la selezione naturale implica esclusivamente lotta e competizione è solo una parte dei meccanismi evolutivi e che c'è un interesse crescente per i meccanismi cooperativi. È anche chiaro che questi meccanismi hanno giocato un ruolo preponderante nell'adattamento culturale evolutivo dell'Homo sapiens.

Note:

12. N.A. Moran, « Symbiosis », Current Biology, 16, 2006, R.866-R.871.

13. A.F.W. Schimper, « Über der Entwicklung der Chlorophyllkörner und Farbkörner », Botan. Z. 41, 1883, pp. 112-113.

14. C.S. Merejkovski, « Theorie der zwei Plasmaarten als Grundlage der Symbiogenesis, einer neuen Lehre von der Entstehung der Organismen », Biol. Zentralblatt 30, 1910, pp. 353-367.

15. L.Sagan, « On the Origin of Mitosing Cells », Journal of Theoretical Biology, 14, 1967, pp. 225-274.

16. J.B.S. Haldane, The Causes of Evolution, 1932, p. 209.

17. Il est par ailleurs intéressant de mentionner que Haldane, en tant qu'anti-impérialiste convaincu, va en 1956 démissionner de son poste de professeur à l'University College de Londres, outré par l'attaque franco-britannico-israélienne sur le canal de Suez et qu'il passera le reste de sa vie comme professeur dans diverses universités indiennes.

18. J. Maynard Smith, « Group Selection and Kin Selection », Nature 201, 1964), pp. 1145-1147.

19. V.C. Wynne-Edwards, Animal Dispersion in Relation to Social Behaviour, 1963, p. 144.

20. W.D. Hamilton, « The Genetical Evolution of Social Behaviour », Journal of Theoretical. Biology. 7, 1964, pp. 1-16.

21. R.L. Trivers, « The Evolution of Reciprocal Altruism », Quarterly Review of Biology, 46, 1971, pp. 35-57.

22. E.O. Wilson, Sociobiology, chapitre 1, 1975.

23. P. Ball, « Celebrate the Unknowns », Nature 496, 2013, pp. 419-420.

24. G.R. Price, « Selection and Covariance », Nature 227, 1970, pp. 520-521.

25. D.S. Wilson et E. Sober, « Reviving the Superorganism », Journal of Theoretical Biology, 136, 1989, pp. 337-356.

26. M.A. Nowak, « Five Rules for the Evolution of Cooperation », Science 314, 2006, pp 1560-1563.

27. D.S. Wilson et E.O. Wilson, « Rethinking the Theoretical Foundation of Sociobiology », Quarterly Review of Biology 82, 2007, pp 327-348.

28. M.A. Nowak, C.E. Tarnita et E.O. Wilson, « The evolution of eusociality », Nature 466, 2010, pp 1057-1062.


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