Di
Maria Bernetic
Tratto da “L’antifascista” rivista dell’ANPPIA - dicembre 1976 n°12 -
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Se il fascismo, fin dal suo nascere, infierì ferocemente contro il movimento
antifascista in tutto il paese, ben più e con particolare violenza scatenò il
suo furore contro le popolazioni italiane e slave delle nuove province appena
annesse all’Italia.
Bande armate saccheggiarono e devastarono fin dal 1919 in ogni luogo da
Postumia a Fiume, da Trieste a Pola. Migliaia di operai e contadini furono
bastonati a sangue, centinaia di antifascisti assassinati, villaggi interi
distrutti ed incendiati. Migliaia di cittadini furono costretti ad abbandonare
le loro case e le famiglie per andare per il mondo o in galera.
Le prigioni di Trieste, di via Tigor, dei Gesuiti e del Coroneo erano gremite
di perseguitati antifascisti, che si opponevano alle violenze squadriste per
difendere i diritti acquisiti nei lunghi anni di lotta per la loro
emancipazione. Erano operai, giovani e donne.
In breve tempo il fascismo distrusse patrimoni immensi, culturali, politici,
economici e sociali.
Come il terrore delle squadre e bande armate fasciste, anche la emanazione
delle leggi eccezionali e l’istituzione del Tribunale speciale si riveleranno
incapaci di soffocare nelle masse popolari l’aspirazione alla libertà ed alla
emancipazione.
Gli antifascisti continuano ad opporsi al fascismo, cambiando il metodo e le
forme di lotta. Si passa dalla lotta di scontro frontale alla lotta clandestina.
La resistenza sarà attiva e conseguente nei suoi ideali di democrazia e
progresso sociale.
Il segretario dei giovani comunisti, italiani e sloveni di tutta la Venezia
Giulia, il compianto compagno Albino Vodopivec, ci teneva le riunioni che erano
molto animate. Decidemmo che bisognava passare dell’attività semiclandestina a
quella della lotta illegale clandestina. Ma purtroppo l’entusiasmo giovanile
spesso prevaleva sulle regole cospirative, che il più delle volte non venivano
osservate. Per queste ragioni il nostro gruppo fu ben presto scoperto e già
dopo la prima più significativa azione.
Il primo maggio del 1927, Trieste era stata inondata di giornali e manifestini.
I giornali andavano nelle fabbriche; nelle piazze e nei principali caffè
cittadini apparivano i manifestini. Allora si stampava con mezzi primitivi:
inchiostro, telaio, rullo. Molti giovani vennero mobilitati e nei punti più
visibili della città e sull’altopiano triestino, furono esposte le bandiere
rosse con la falce e il martello.
L’apparizione di questi simboli antifascisti, influì positivamente su larghi
strati della popolazione e animò gli operai e le operaie dei cantieri e delle
fabbriche triestine e i contadini sull’altipiano carsico.
I capi della squadra fascista di Trieste erano inferociti. I seviziatori
Gavazzi, Biscazza e Paletti, erano sicuri di aver soppresso l’organizzazione
del partito comunista con gli arresti del 1926. Incominciarono la caccia
all’uomo, le perquisizioni domiciliari, fermi ed arresti.
La nostra più grande preoccupazione, in quel momento, era di mettere in salvo i
documenti, la macchina da scrivere, gli strumenti per continuare a stampare e
di far sparire ogni materiale compromettente.
Mentre i poliziotti stavano facendo la prima perquisizione in casa della compianta
compagna Angela Juren, grazie alla presenza di spirito di una vicina di casa,
venne calato un sacco di materiale compromettente dalla finestra che dava
sull’altro lato della strada. È da notare che il fatto non venne denunciato da
coloro che videro questa impresa e il materiale fu salvo.
Ma la maggioranza dei compagni finirono in galera. Quando ci trovammo nelle
loro mani, gli sbirri, si vendicarono caricandoci di botte e ci mandarono al
Tribunale Speciale. I sei compagni subirono le condanne maggiori, dai tre ai
dodici anni. A due anni di reclusione fummo condannate io e la Juren.
Anche nelle più difficili circostanze, l’attività antifascista proseguì. I
condannati politici reduci dalle galere, dal confino, dall’esilio che
legalmente o illegalmente tornavano in Italia, riprendevano il loro posto di
lotta. I comunisti erano gli animatori e gente di vari ceti sociali si univa ai
nostri compagni. Così con grande precauzione si allargava la schiera
organizzata dell’antifascismo. Naturalmente si pagava sempre un alto prezzo,
come documentano le sentenze del tribunale speciale. Io venni nuovamente
arrestata nella primavera del 1939 e deferita al Ts con un gruppo di 25
compagni accusati di “condurre un’efficace attività su tutto il territorio
nazionale”. La condanna inflittami fu di sedici anni. Il processo durò cinque
giorni. Nel paese la situazione era molto tesa, il regime fascista si preparava
ad entrare in guerra e ciò si ripercuoteva nell’aula giudiziaria. I discorsi
che facevano i giudici fascisti erano intenzionalmente fatti per demoralizzare
gli imputati antifascisti in attesa di giudizio. Quando il presidente mi chiese
le generalità, stizzito dal mio non intimorito comportamento soggiunse:
“inutile chiederle. È tempo perso”. Intendeva alludere che ero
“incorreggibile”.
Dopo la sentenza venni inviata insieme alla compagna Regina Franceschino- di
Udine- nel penitenziario di Perugina. Le altre due compagne condannate insieme
a noi furono inviate a Trani.
Il fascismo entrò in guerra. Le condizioni dei condannati politici nei
penitenziari peggiorarono. Le conseguenze delle effimere vittorie come delle
vere sconfitte della guerra nazifascista si ripercuotevano nelle carceri.
Avevamo fame, ma più fame ancora avevamo di notizie di ciò che succedeva nel
mondo.
Il 7 febbraio del 1943 ebbi la lieta sorpresa: mio fratello Carlo venne a
trovarmi. Anch’egli aveva subito parecchi fermi ed arresti dal 1940 in poi. Al
colloquio, nonostante la severa sorveglianza, riuscì a trasmettermi notizie
incoraggianti. Nel nostro lessico famigliare mi raccontò che l’organizzazione
antifascista nelle fabbriche e sul Carso era attiva, lottava contro la
dittatura e la guerra. L’opposizione al nazifascismo andava allargandosi fra i
lavoratori. Nel congedarsi Carlo mi promise che a Pasqua avrei avuto nuovamente
la visita dei famigliari.
Per le feste di Pasqua, il 18 aprile, la compagna Zora Perello (studentessa
universitaria a Trieste- condannata a 18 anni di reclusione- morta in un campo
di concentramento) ed io aspettavamo la consueta visita dei parenti. Era
arrivata soltanto la madre di Zora. Io non ebbi notizie. Mi chiamarono solo in
portineria per ritirare il pacco che i miei famigliari mi avevano mandato.
Ritornando in cella notai la reticenza di tutte le mie compagne. In quell’istante
intuii che qualcosa di grave era successo ai miei famigliari. Fu un momento
penoso per tutte la cara Valeria Julg, facendosi coraggio incominciò
raccontandomi quanto segue:
Nel corso della prima metà di febbraio a Trieste una serie di atti di terrorismo
e violenze fasciste si erano svolte principalmente nel rione S. Giacomo, dove
abitava la mia famiglia. La sera del 12 febbraio due individui- uno di questi
vestiva la divisa della milizia fascista- cercarono mio fratello. Non
trovandolo a casa si presentarono all’abitazione di mia sorella, chiedendo di
Carlo Bernetti (originariamente Bernetic; i fascisti avevano imposto il
cambiamento del nome), invitandolo a seguirli al commissariato di Pubblica
sicurezza. Nell’atrio del portone ci erano altri due squadristi. Era buio
poiché vigeva l’oscuramento. Mio fratello venne immobilizzato ed in
quell’istante uno accese la lampadina tascabile e Carlo ebbe il tempo di
riconoscerlo: era il noto squadrista triestino Mario forti. Immediatamente
venivano sparati quattro colpi di rivoltella che lo colpirono ed i quattro
aggressori si allontanarono ritenendo che la vittima fosse già morta. Mia madre
e i parenti già preoccupati, sentendo gli spari, accorsero e lo trovarono in
una pozza di sangue. Mia madre ebbe il coraggio di gridare ed inveire contro
gli assassini fascisti. La gente era impaurita e un grande silenzio si fece
nella notte. Carlo venne ricoverato all’ospedale con prognosi riservata. Riuscì
a cavarsela e dopo un mese fu dimesso dall’ospedale. Ma la vicenda non era
ancora finita. Nell’aprile, sempre per misure di pubblica sicurezza, Carlo fu
arrestato e tradotto al battaglione speciale di lavoro all’Aquila, composto in
maggioranza da antifascisti giuliani, sloveni e italiani.
Ma il racconto non era finito. Zora si fece coraggio e mi dette una notizia
ancora più triste e dolorosa. Allo spargimento di sangue e alla tremenda
aggressione a suo figlio, il cuore di mia madre non aveva potuto resistere. Dal
1920 lei aveva avuto il coraggio di combattere contro tante avversità e di
superare momenti dolorosi quando gli agenti dell’OVRA arrestavano i suoi figli;
ara convinta che bisognava lottare contro il fascismo. Si sacrificava,
lavorando notte e giorno, privandosi del necessario, per aiutare non soltanto
noi ma anche altri compagni che avevano bisogno dell’aiuto materiale e morale. Era slovena ma mai ha fatto differenza per alcuno, di
qualsiasi nazionalità. Nella lotta contro il fascismo aveva dato
tutto, fino al suo ultimo respiro. Le sue ultime parole, alle mie sorelle che
le erano accanto al suo capezzale, furono: “non abbandonate e non dimenticate
Carlo e Maria, aiutateli sempre”.
Così mia madre è morta vittima del fascismo come tante altre madri che si sono
sacrificate per i loro figli nella lotta contro la violenza e l’ingiustizia
fascista.
Segnalato da B. Bellone