www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 26-06-03

Sloveni e italiani uniti nella lotta alla dittatura

Di Maria Bernetic
Tratto da “L’antifascista” rivista dell’ANPPIA - dicembre 1976 n°12 - lire100

Se il fascismo, fin dal suo nascere, infierì ferocemente contro il movimento antifascista in tutto il paese, ben più e con particolare violenza scatenò il suo furore contro le popolazioni italiane e slave delle nuove province appena annesse all’Italia.
Bande armate saccheggiarono e devastarono fin dal 1919 in ogni luogo da Postumia a Fiume, da Trieste a Pola. Migliaia di operai e contadini furono bastonati a sangue, centinaia di antifascisti assassinati, villaggi interi distrutti ed incendiati. Migliaia di cittadini furono costretti ad abbandonare le loro case e le famiglie per andare per il mondo o in galera.

Le prigioni di Trieste, di via Tigor, dei Gesuiti e del Coroneo erano gremite di perseguitati antifascisti, che si opponevano alle violenze squadriste per difendere i diritti acquisiti nei lunghi anni di lotta per la loro emancipazione. Erano operai, giovani e donne.
In breve tempo il fascismo distrusse patrimoni immensi, culturali, politici, economici e sociali.
Come il terrore delle squadre e bande armate fasciste, anche la emanazione delle leggi eccezionali e l’istituzione del Tribunale speciale si riveleranno incapaci di soffocare nelle masse popolari l’aspirazione alla libertà ed alla emancipazione.
Gli antifascisti continuano ad opporsi al fascismo, cambiando il metodo e le forme di lotta. Si passa dalla lotta di scontro frontale alla lotta clandestina. La resistenza sarà attiva e conseguente nei suoi ideali di democrazia e progresso sociale.

Il segretario dei giovani comunisti, italiani e sloveni di tutta la Venezia Giulia, il compianto compagno Albino Vodopivec, ci teneva le riunioni che erano molto animate. Decidemmo che bisognava passare dell’attività semiclandestina a quella della lotta illegale clandestina. Ma purtroppo l’entusiasmo giovanile spesso prevaleva sulle regole cospirative, che il più delle volte non venivano osservate. Per queste ragioni il nostro gruppo fu ben presto scoperto e già dopo la prima più significativa azione.

Il primo maggio del 1927, Trieste era stata inondata di giornali e manifestini. I giornali andavano nelle fabbriche; nelle piazze e nei principali caffè cittadini apparivano i manifestini. Allora si stampava con mezzi primitivi: inchiostro, telaio, rullo. Molti giovani vennero mobilitati e nei punti più visibili della città e sull’altopiano triestino, furono esposte le bandiere rosse con la falce e il martello.
L’apparizione di questi simboli antifascisti, influì positivamente su larghi strati della popolazione e animò gli operai e le operaie dei cantieri e delle fabbriche triestine e i contadini sull’altipiano carsico.

I capi della squadra fascista di Trieste erano inferociti. I seviziatori Gavazzi, Biscazza e Paletti, erano sicuri di aver soppresso l’organizzazione del partito comunista con gli arresti del 1926. Incominciarono la caccia all’uomo, le perquisizioni domiciliari, fermi ed arresti.
La nostra più grande preoccupazione, in quel momento, era di mettere in salvo i documenti, la macchina da scrivere, gli strumenti per continuare a stampare e di far sparire ogni materiale compromettente.

Mentre i poliziotti stavano facendo la prima perquisizione in casa della compianta compagna Angela Juren, grazie alla presenza di spirito di una vicina di casa, venne calato un sacco di materiale compromettente dalla finestra che dava sull’altro lato della strada. È da notare che il fatto non venne denunciato da coloro che videro questa impresa e il materiale fu salvo.
Ma la maggioranza dei compagni finirono in galera. Quando ci trovammo nelle loro mani, gli sbirri, si vendicarono caricandoci di botte e ci mandarono al Tribunale Speciale. I sei compagni subirono le condanne maggiori, dai tre ai dodici anni. A due anni di reclusione fummo condannate io e la Juren.

Anche nelle più difficili circostanze, l’attività antifascista proseguì. I condannati politici reduci dalle galere, dal confino, dall’esilio che legalmente o illegalmente tornavano in Italia, riprendevano il loro posto di lotta. I comunisti erano gli animatori e gente di vari ceti sociali si univa ai nostri compagni. Così con grande precauzione si allargava la schiera organizzata dell’antifascismo. Naturalmente si pagava sempre un alto prezzo, come documentano le sentenze del tribunale speciale. Io venni nuovamente arrestata nella primavera del 1939 e deferita al Ts con un gruppo di 25 compagni accusati di “condurre un’efficace attività su tutto il territorio nazionale”. La condanna inflittami fu di sedici anni. Il processo durò cinque giorni. Nel paese la situazione era molto tesa, il regime fascista si preparava ad entrare in guerra e ciò si ripercuoteva nell’aula giudiziaria. I discorsi che facevano i giudici fascisti erano intenzionalmente fatti per demoralizzare gli imputati antifascisti in attesa di giudizio. Quando il presidente mi chiese le generalità, stizzito dal mio non intimorito comportamento soggiunse: “inutile chiederle. È tempo perso”. Intendeva alludere che ero “incorreggibile”.

Dopo la sentenza venni inviata insieme alla compagna Regina Franceschino- di Udine- nel penitenziario di Perugina. Le altre due compagne condannate insieme a noi furono inviate a Trani.
Il fascismo entrò in guerra. Le condizioni dei condannati politici nei penitenziari peggiorarono. Le conseguenze delle effimere vittorie come delle vere sconfitte della guerra nazifascista si ripercuotevano nelle carceri. Avevamo fame, ma più fame ancora avevamo di notizie di ciò che succedeva nel mondo.
Il 7 febbraio del 1943 ebbi la lieta sorpresa: mio fratello Carlo venne a trovarmi. Anch’egli aveva subito parecchi fermi ed arresti dal 1940 in poi. Al colloquio, nonostante la severa sorveglianza, riuscì a trasmettermi notizie incoraggianti. Nel nostro lessico famigliare mi raccontò che l’organizzazione antifascista nelle fabbriche e sul Carso era attiva, lottava contro la dittatura e la guerra. L’opposizione al nazifascismo andava allargandosi fra i lavoratori. Nel congedarsi Carlo mi promise che a Pasqua avrei avuto nuovamente la visita dei famigliari.

Per le feste di Pasqua, il 18 aprile, la compagna Zora Perello (studentessa universitaria a Trieste- condannata a 18 anni di reclusione- morta in un campo di concentramento) ed io aspettavamo la consueta visita dei parenti. Era arrivata soltanto la madre di Zora. Io non ebbi notizie. Mi chiamarono solo in portineria per ritirare il pacco che i miei famigliari mi avevano mandato. Ritornando in cella notai la reticenza di tutte le mie compagne. In quell’istante intuii che qualcosa di grave era successo ai miei famigliari. Fu un momento penoso per tutte la cara Valeria Julg, facendosi coraggio incominciò raccontandomi quanto segue:
Nel corso della prima metà di febbraio a Trieste una serie di atti di terrorismo e violenze fasciste si erano svolte principalmente nel rione S. Giacomo, dove abitava la mia famiglia. La sera del 12 febbraio due individui- uno di questi vestiva la divisa della milizia fascista- cercarono mio fratello. Non trovandolo a casa si presentarono all’abitazione di mia sorella, chiedendo di Carlo Bernetti (originariamente Bernetic; i fascisti avevano imposto il cambiamento del nome), invitandolo a seguirli al commissariato di Pubblica sicurezza. Nell’atrio del portone ci erano altri due squadristi. Era buio poiché vigeva l’oscuramento. Mio fratello venne immobilizzato ed in quell’istante uno accese la lampadina tascabile e Carlo ebbe il tempo di riconoscerlo: era il noto squadrista triestino Mario forti. Immediatamente venivano sparati quattro colpi di rivoltella che lo colpirono ed i quattro aggressori si allontanarono ritenendo che la vittima fosse già morta. Mia madre e i parenti già preoccupati, sentendo gli spari, accorsero e lo trovarono in una pozza di sangue. Mia madre ebbe il coraggio di gridare ed inveire contro gli assassini fascisti. La gente era impaurita e un grande silenzio si fece nella notte. Carlo venne ricoverato all’ospedale con prognosi riservata. Riuscì a cavarsela e dopo un mese fu dimesso dall’ospedale. Ma la vicenda non era ancora finita. Nell’aprile, sempre per misure di pubblica sicurezza, Carlo fu arrestato e tradotto al battaglione speciale di lavoro all’Aquila, composto in maggioranza da antifascisti giuliani, sloveni e italiani.

Ma il racconto non era finito. Zora si fece coraggio e mi dette una notizia ancora più triste e dolorosa. Allo spargimento di sangue e alla tremenda aggressione a suo figlio, il cuore di mia madre non aveva potuto resistere. Dal 1920 lei aveva avuto il coraggio di combattere contro tante avversità e di superare momenti dolorosi quando gli agenti dell’OVRA arrestavano i suoi figli; ara convinta che bisognava lottare contro il fascismo. Si sacrificava, lavorando notte e giorno, privandosi del necessario, per aiutare non soltanto noi ma anche altri compagni che avevano bisogno dell’aiuto materiale e morale. Era slovena ma mai ha fatto differenza per alcuno, di qualsiasi nazionalità. Nella lotta contro il fascismo aveva dato tutto, fino al suo ultimo respiro. Le sue ultime parole, alle mie sorelle che le erano accanto al suo capezzale, furono: “non abbandonate e non dimenticate Carlo e Maria, aiutateli sempre”.
Così mia madre è morta vittima del fascismo come tante altre madri che si sono sacrificate per i loro figli nella lotta contro la violenza e l’ingiustizia fascista.

Segnalato da B. Bellone