pubblicato su "Anpi Oggi" di settembre/ottobre 2002, n° 8/9
Verso il sessantesimo anniversario dell’8 settembre: una cronistoria
Di Tiziano Tussi
L’INIZIO DELLA RESISTENZA
L’8 settembre risulta essere, comunque lo si voglia interpretare, una data che
scava profondamente nel nostro vissuto novecentesco. Una data spartiacque, una
rinascita, una catarsi, una perdita di orizzonti: queste ed altre
interpretazioni rimandano a posizioni di forte analisi storica. Una parziale
dimenticanza degli studi su quel periodo si impone togliere, ed è quella che
riguarda il comportamento del nostro esercito ed il suo atteggiamento non solo
al livello di classe dirigente, di massimi responsabili, il re e Badoglio, ma
anche a livello di singole unità, di atti eroici individualizzabili con
precisione. L’analisi della situazione non deve dipendere solo dalla differenza
numerica tra gli effettivi italiani e quelli tedeschi, tra la nostra non
organizzazione e quella ben più funzionale dell’esercito del Reich. Soprattutto
ha pesato nel momento in questione l’assenza di chiari ordini che venivano dal
centro. Il 25 luglio vi fu la caduta del fascismo ma la guerra continuava, l’8
settembre, un armistizio che venne diramato alla popolazione, soprattutto a
quella in armi, in modo assolutamente approssimativo ed ambiguo. Nonostante
ciò, dal settembre tutte le classi sociali danno forze ed uomini alle lotte
contro il nazifascismo. Tutti i partiti antifascisti collaborano fra loro,
gruppi di intellettuali, operai e militari prendono la via della montagna. Non
mancano difficoltà e divergenze: prima di tutto sull’impostazione e sui metodi
di lotta. Ma sin dall’8 settembre, con riferimento al C.L.N., costituito a
ridosso dell’armistizio, a Roma, prende
consistenza una fondamentale unità morale.
Solo il 13 ottobre venne finalmente da Badoglio dichiarata guerra all’ex
alleato nazista, una guerra che verrà combattuta partendo solo da una parte del
nostro territorio nazionale dato che Mussolini aveva già resuscitato una
versione repubblicana del fascismo in Italia centro settentrionale, la
Repubblica di Salò, dove le forze tedesche superavano di tre volte quelle
dell’esercito regio.
LA “DIFESA” DI ROMA
La fuga del re e di Badoglio da Roma per Pescara subito dopo l’8 settembre
aveva voluto anche dire abbandonare ogni situazione militare nel più totale
caos, compresa la mancata difesa di Roma. Nella capitale la quantità di forze
in campo era favorevole all’esercito regio che di fronte a due divisioni
tedesche poteva schierare quattro divisioni e precisamente l’Ariete, la Piave,
la Granatieri e la Centauro. L’abbandono della piazza sostanziava l’intenzione
di Badoglio di difendere una piccola parte di territorio italiano nel
meridione, attendendo l’avanzata degli alleati che erano intanto sbarcati in Sicilia
e stavano risalendo la penisola, senza tentare sortite di turno. Badoglio forse
era intenzionato a ritentare con la tattica dilatoria della prima guerra
mondiale del dopo Caporetto, che fermò i nostri fanti alla linea del Piave, per
mesi, ad aspettare che le cose si evolvessero sugli altri fronti. Badoglio era
presente anche allora con il grado di sottocapo di Stato maggiore
dell’esercito. Il fatto militare più importante della difesa spontanea di Roma
si ha nella resistenza opposta dai granatieri all’avanzata dei tedeschi lungo
la via Ostiense, dalla Magliana a Porta S. Paolo, a cui si unirono
spontaneamente gruppi di civili. Ma proprio in quei frangenti venne ordinato il ripiegamento del corpo
d’armata motocorazzato su Tivoli, per difendere la fuga del re e dei massimi
generali dell’esercito. La decisione fu presa tra le due e le quattro di notte
del 9 settembre. Militarmente non era
ancora accaduto nulla che potesse motivare tale comportamento. In quelle ore,
dopo scontri di scarso significato, tra la seconda divisone paracadutisiti
tedesca di 15.000 effettivi, che si mosse subito verso Roma, e le nostre
truppe, il resto delle postazioni italiane non era stato neppure interessato da
confronti di sorta. Il Comando supremo decise comunque di sacrificare Roma ed
alle cinque del 9 settembre anche il
comandante della Piave, generale Tabelloni ricevette l’ordine di
ripiegare su Tivoli. Logicamente l’abbandono della capitale non poteva fare
sorgere forti resistenze in alcuni generali e tra i soldati. L’elemento
simbolico che ogni capitale gioca sul senso patriottico di ogni truppa si
faceva sentire anche in quella occasione e lasciare la “città eterna” in mano
al nemico non poteva non sollevare dubbi profondi nei militari. Ciò accadde
anche alla Piave che restò invece al suo posto ed affrontò un battaglione di
paracadutisti che era stato portato velocemente nella zona di Monterotondo.
Tale lancio non ebbe fortuna proprio perché la reazione della Piave, supportata
dalla popolazione in armi, fece subire ai tedeschi 400 perdite, su mille uomini
in totale della formazione. La vittoriosa battaglia però non impedì l’arrivo di
un ordine per iscritto che confermava l’ordine telefonico di recarsi a Tivoli,
abbandonando la difesa di Roma.
Anche Cadorna che era alla guida dell’Ariete ricevette nelle stesse ore lo
stesso comando. Doveva ripiegare a più riprese; prima di ubbidire all’ordine
avuto impegna però battaglia con i tedeschi procurando al nemico forti perdite
di uomini e mezzi. La terza divisione di fanteria pesante corazzata nemica
riporta le seguenti perdite: circa 500 uomini abbattuti, decine di carri armati
distrutti.
In pieno caos, galvanizzati dalle notizie delle battaglie vinte si susseguono e
si incrociano ordini che partono dai capi delle divisioni. I tedeschi però
attendono oramai che le trattative per la situazione di Roma diano risultati a
loro utili e non si impegnano più in scontri locali. In questa situazione
avviene al pomeriggio del giorno 9 la firma della capitolazione della città che
fa della stessa una “città aperta”, in pratica poi occupata dai nazi-fascisti.
Il documento porta la firma di Westphal per conto di Kesserling e di Giacone
per conto, si pensa, del re. Ma per quest’ultimo la rappresentanza non è così chiara. Nessuno in effetti, da parte
italiana, vuole assumersi la responsabilità precisa della firma della
capitolazione della capitale. Roma, abbandonata dalle truppe regie, viene
occupata dai tedeschi e dai fascisti, loro alleati. Questi rimasero in città
sino all’arrivo degli alleati il 4 giugno 1944. Abbandonare al proprio destino
così larga parte d’Italia significava davvero confidare solo nelle capacità
offensive degli alleati. Lasciare che la guerra la svolgessero gli “altri”,
senza fare leva sul malcontento della popolazione e sulla volontà di rivincita
del nostro esercito, che in molte situazione aveva covato, nel periodo
fascista, una sorta di “odio” verso il
regime e che perciò, lasciato libero dalle pastoie politiche e dalle alchimie di
equilibrio fra i vari livelli del potere dello stato, avrebbe potuto dimostrare
la propria propensione a lottare contro la presenza tedesca in Italia. Tale
presenza si configurava ormai, specialmente dopo il 25 luglio 1943, come una
invasione, debolmente motivata dal rapporto stretta alleanza, ma in realtà di
sudditanza, con il costituito regime fascista repubblichino.
Nella stessa giornata del 9 settembre si sostanziano alcuni tentativi di
organizzare la difesa della città da parte di esponenti dei partiti
antifascisti della capitale. Mentre la divisione Granatieri era impegnata a
tenere il ponte della Magliana, sia Bonomi che Ruini si recano al Viminale e lì
apprendono la notizia della fuga del re. Anche una rappresentanza
dell’Associazione Combattenti aveva fatto la stessa scoperta, chiedendo una
distribuzione di armi per poter combatter di fianco all’esercito.Tale richiesta viene respinta e si capisce bene
perciò che il sospetto verso il popolo, a maggior ragione quando armato, non
aveva abbandonato gli esponenti del potere centrale rimasti a Roma, anche dopo
gli ultimissimi accadimenti. Ed è in quella situazione che in città nasce il
Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), che vede la luce alle 14.30 dello
stesso giorno: ”Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in
Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in
Comitato di Liberazione Nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla
resistenza e per riacquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso
delle libere nazioni.”[1] Tale
costituzione venne a trovarsi subito in mezzo alla formazione di gruppi di
armati che facevano capo ai partiti della sinistra: i comunisti con a capo
Longo, i socialisti con Pertini e Lussu, per gli azionisti. In pratica le anime
politiche che militarmente sorreggeranno con maggior impegno la lotta armata
resistenziale. Con grande foga confusione ed alcuni incidenti con la polizia,
gruppi di civili si armano e si dirigono, animati da uno spirito che ricorda
quello del Risorgimento, in zone controllate da reparti di militari italiani,
come era al bivio dell’Ardeatina e dell’Ostiense. Anche il Montebello, di cui
periranno, in queste giornate, moltissimi ufficiali e che lascerà sul campo
anche molto materiale pesante, si porta, unitamente ad altri spezzoni di altre formazioni,
sull’Ostiense. Anche questo ricompattarsi ricorda il 1848 e l’alleanza
naturale, come nei moti italiani di quella situazione, fra militari e popolo
civile in armi. L’odio verso il nemico invasore fa cadere ogni separazione e
distacco tra militari e popolo. Si crea un nuovo affratellamento. Tale spinta
alla lotta riscatta la nostra capitale da una capitolazione senza resistenza
voluta dal re e da Badoglio e semina una volontà di resistenza che darà buoni
frutti nei venti mesi successivi, sino alla fine della guerra, il 25 aprile
1945. Gli scontri a fuoco, un po’ in tutta Roma, fanno intravedere quello che
succederà a breve, durante la lotta partigiana.
ALTRI EPISODI DI RESISTENZA NEL RESTO DEL PAESE
Se Roma venne difesa e contemporaneamente abbandonata in mezzo a disordine e
contrasti di ogni tipo nel resto del paese la confusione ed il pressappochismo
fece danni anche più gravi. La situazione delle nostre divisioni non era tale
da potere risultare ovunque in piena efficienza e perciò la mancanza di ordini
chiari andava ad incidere su un panorama logistico alquanto deficitario. La
memoria operativa 44 diramata da Badoglio ai comandi militari in Italia
prevedeva un successivo ordine che avrebbe meglio specificato le disposizioni.
Ordine che fu dato solo l’11 settembre, lasciando quindi nel caos più completo
le truppe per tre giorni. Ecco perché fu immediato quel grido di “tutti a casa”
che molto spesso guidò, così come fece la volontà di sopravvivenza a Caporetto,
i nostri soldati. Gli ordini comunque stigmatizzavano una possibile iniziativa
individuale dei vari reparti come un pericolo per l’equilibrio della
situazione, e richiedevano perciò una sorta di attendismo, tuttavia pericoloso
per gli uomini in arme che avevano di fronte un ben più motivato, e chiaramente
indirizzato, esercito tedesco. Si faceva leva sulla sudditanza dei generali
dell’esercito che il fascismo aveva ottenuto sino a quel momento ed
evidentemente Badoglio pensava si potesse ottenere ancora, anche in presenza di
ordini di poca logica apparente. Badoglio del resto dichiara che era disposto a
sacrificare “mezzo milione di uomini” pur di portare a buon fine l’armistizio e
l’entrata, solo successiva, in guerra contro i tedeschi. Il suo esercito venne
da lui stesso considerato pertanto alla stregua di un elemento della
spericolata politica della casa Savoia che doveva in qualche modo volgersi da
una situazione di alleanza con i tedeschi ad un’altra di non-belligeranza
contro “tutti”, sino a giungere al completo giro di valzer per uno scontro
frontale con le armate del Reich. Questi passi implicavano tempo che si
tramutava così automaticamente in morti tra le nostre file. Una politica di più
veloce risultato non era nel dna della casa Savoia che sempre nel corso della
sua storia ha operato passaggi di campo più o meno traumatici. Anche in epoche
lontane, basti ricordare le guerre di successione settecentesche. Ma sempre
nelle situazioni più disastrose il popolo italiano, in divisa e non, ha saputo
vivere momenti di grande eroismo a dispetto della sua classe dirigente.
Al Nord si verificano diversi atteggiamenti tra i generali comandanti dei
reparti in armi. In quelle zone Mussolini aveva fondato giusto il 13 settembre,
dopo solo un giorno della sua “liberazione” dal monte Gran Sasso, un “novello”
stato repubblicano fascista.
Il 10 settembre il generale Ruggero comandante della piazza di Milano pubblica
un “proclama ai milanesi” nel quale si legge, fra l’altro: “Chiunque userà le
armi contro chiunque sia, sarà senz’altro passato per le armi sul posto. Da
questo momento sono proibite nel modo più assoluto le riunioni anche in locali
chiusi, salvo quelle del culto nelle chiese. All’aperto non potranno aver luogo
riunioni di più di tre persone. Contro gruppi di numero superiore sarà senza intimidazioni
aperto il fuoco della forza pubblica.” Chiaramente alcuni generali erano anche
fascisti e politicamente quindi tendevano a seguire una immediata alleanza con
il tedesco. Anche se non ancora formalmente operante la Repubblica Sociale, che
sarebbe nata però poco dopo, pure a Torino il generale Adami-Rossi consegnò la
città ai tedeschi con motivi banali, quali evitare stragi di sangue tra
esercito italiano e popolo in armi che si sarebbero potuti opporre ai nazisti.
In altre situazioni invece, in centri minori vi furono resistenze armate ed
attacchi inaspettati: Cuneo, Ancona, la zona di Gorizia, sono solo alcuni tra
gli scontri più significativi in Italia.
Il generale Vercellino, comandante la IV° armata con un suo ordine proclama lo
scioglimento proprio mentre la stessa stava a cavallo tra la Francia e
l’Italia, provocando così, come conseguenza, la deportazione in Germania di
tutti coloro che incappavano nei posti di blocco nazisti sul confine
italo-francese.
Un momento importante si ebbe a Piombino verso cui si prospettava la
possibilità, in mezzo ad un deserto di ordini dal centro, di uno sbarco di
tedeschi dalla Corsica. Popolo e soldati occuparono la città, porto e
fabbriche. Marinai, soldati ed operai, si scontrarono con i tedeschi e li sconfissero
procurando loro seicento morti e facendo duecento prigionieri fra le file del
nemico. Nel meridione invece, che attendeva da vicino l’avanzata degli alleati,
vi furono, in mezzo ad un disfacimento dell’esercito nella sua maggioranza,
episodi di grande valore. Il generale Gonzaga, comandante di una divisione
costiera a Salerno, preso prigioniero da un pattuglia tedesca, rifiutò di
ordinare la resa al nemico ai propri uomini e venne con loro ucciso, sul posto;
anche a Nola si verificò una episodio simile, ed in alcune caserme di Napoli ed
in Puglia; a Bari la difesa del porto unì marinai, soldati ed operai. In
Sardegna, grazie alla sua posizione defilata rispetto al centro dello scontro
politico-militare in Italia, fu più agevole sconfiggere le truppe tedesche ivi
stanziate. Nell’isola i militari italiani erano soprattutto sardi e ciò
permetteva una maggior coesione socio-culturale verso il tedesco. Il fatto
d’arme più rilevante avvenne alla Maddalena tra l’8 e l’11 settembre quando la
stessa fu conquistata da marinai ed operai sardi. In ogni caso l’intera isola
mediterranea venne controllata dalle truppe e dalla popolazione autoctona
purtroppo in modo tale però da lasciare andare via, sempre a causa di ordini
confusi che venivano dal continente, i tedeschi che vi erano stanziati.
L’8 SETTEMBRE DELLA MARINA
Anche la marina ebbe serie ripercussioni negative dall’8 settembre.
L’aeronautica era già stata fortemente colpita considerando che già le
posizioni di partenza, all’inizio della guerra, non erano state certo floride:
vi erano infatti solo 1400 velivoli, molti dei quali antiquati e con scarsa
autonomia di volo.
La marina regia aveva una tradizione di sincera fedeltà verso la monarchia, e
per questo è sempre stata considerata come un luogo in cui il fascismo attecchì
molto meno che negli altri corpi armati. Ma è da notare che se una differenza è
possibile riscontrare con l’esercito può essere dovuta al fatto che sia la
maggior specializzazione di questo genere di “soldati del mare”, sia la
derivazione professionale degli equipaggi, ha lavorato in quella direzione che
stiamo indicando. I marinai semplici erano da civili, per la stragrande
maggioranza, operai specializzati e maestranze artigianali che svolgevano a
bordo attività altamente professionali portando anche in mare le proprie
simpatie politiche di avversione al regime. Episodi di confronto radicale con
il fascismo si ebbero a La Spezia, dove una bandiera rossa sventolò assieme a
quella nazionale, e dove scritte inneggianti allo scontro con i nazisti
apparvero sui muri degli arsenali. Stesse scritte anche a Taranto. Mentre a
Napoli, nel porto, si preparò una accoglienza calorosa a coloro che rientravano
dal confine di Ventotene. La marina ebbe comunque l’ordine di partire per
Malta. La flotta che era alla fonda a Taranto riesce a compiere l’operazione
facilmente; molti più problemi l’ebbero le navi che partirono da la Spezia,
dove vi era la parte più rilevante del nostro naviglio. Si verificarono
affondamenti e morti in quantità. Al largo della Maddelena un attacco aereo
tedesco colpiva in pieno la “Roma” inabissandola con 1500 uomini di equipaggio
ed il loro ammiraglio Bergamini. Ma anche l’Italia, il Vivaldi e il Da Noli
ebbero molti guasti dovuti agli scontri con il nemico od a mine galleggianti.
L’8 SETTEMBRE ALL’ESTERO
Già il 10 settembre i tedeschi diramavano un comunicato che rivendicava in
pratica la scomparsa delle forze armate
italiane. Abbiamo già visto che se però così non si poteva dire già per la
Sardegna, pure in Corsica si ebbero scontri che si rivelarono perdenti per i
tedeschi. Ad esempio a Bastia la notte del 9 settembre. Lì le divisioni Cremona
e Friuli in coordinazione con reparti francesi, sbarcati in Corsica qualche
giorno dopo, il 13 settembre, si scontrarono a lungo con i reparti tedeschi del
presidio corso, rinforzato da reparti della 90° divisione che proveniva dalla
Sardegna. La Corsica fu definitivamente presa solo il 4 ottobre. I nostri soldati combattendo con i francesi
riscattavano così la proditoria “pugnalata alle spalle” alla stessa Francia del
1940. Le perdite furono rilevanti ammontando a circa 3000 uomini. Del resto
altri italiani stavano già combattendo nella Francia continentale, con i
“maquis”. Ma è il fronte orientale che dava sostanza alla comunicazione tedesca.
In queste zone i tedeschi avevano promesso il rimpatrio a tutti i reparti che
si fossero loro arresi. Naturalmente non sarebbe mai avvenuto, ma era solo un
trucco per risparmiarsi problemi e scontri armati dai tedeschi considerati
inutili e superflui. Molti comandanti italiani si erano dimostrati favorevoli a
tali falsi promesse. Forse sperando di farla comunque franca e di non andarci
di mezzo più di tanto. Il Reich avrebbe invece usato i soldati e gli ufficiali
per rimpolpare la mano d’opera schiavizzata formata dalla varia umanità che
popolava i campi di concentramento e di sterminio. La fuga da Roma del re aveva
poi favorito in alcuni generali tale tendenza verso l’accomodamento con il
tedesco. Ma è proprio a questo punto che avvennero episodi di incomprensibile
fierezza per uomini che in fondo i tedeschi consideravano inferiori e che
trattavano con sufficienza. Una razza
inferiore che non stava al gioco imposto dalla forza dell’alleato-nemico e che
cercava un riscatto senza via d’uscita, ma che avrebbe segnato una differenza
di civiltà nel ricordo dei posteri. Aveva lavorato nel profondo delle coscienze
degli italiani in armi, almeno in molti di loro, non certo nella milizia
fascista, un odio storico per l’invasore tedesco. Da secoli “italiani” e “tedeschi”
si sono scontrati, combattuti e variamente mescolati in armi, gli uni contro
gli altri. Altra questione psicologica era quella di riscattare una guerra di
totale aggressione verso popolazioni che erano state investite da armi italiane
e poi ulteriormente vessate dalla presenza dei tedeschi. Una specie di
smarcamento dall’alleato di ieri, sopportato a causa di una politica che
“altri”, i fascisti, avevano condotto, aprendo divaricazioni di fondo con al
storia secolare dell’Italia, soprattutto a livello popolare. Insomma
l’assunzione dell’equiparazione esercito tedesco-nazismo era più funzionante
dal rapporto proficuo tra esercito italiano e fascismo. Gli scontri che si
ebbero negli scenari balcanici ad esempio, possono esser visti anche come catarsi
liberatoria rispetto al comportamento pregresso. Si può così interpretare
quindi in questo modo la partecipazione di ex militari italiani alla resistenza
greca, albanese e slava. Alcuni episodi marcheranno un sacrifico che si
giungerà al suo tragico finale a Cefalonia.
Purtroppo il generale Eisenhower, comandate in capo degli alleati in Europa si
espresse chiaramente, in quei giorni, con una dichiarazione a Tunisi che
rifletteva la decisione di abbandonare alla loro sorte i presidi italiani in
armi nel Dodecanneso, i quali “non offrivano garanzie... quelle isole… non si
potevano paragonare come valore bellico al successo nella battaglia d’Italia.”[2]
Si rivelò perciò inutile il tentativo fatto dal Comando alleato per il Medio
Oriente che mandò subito rinforzi a Coo ed a Lero, il 13 settembre, quando però
era già capitolata Rodi, dove l’ammiraglio Campioni aveva già firmata la
capitolazione. L’iniziativa di Eisenhower bloccò tale tattica ed i reparti
italiani furono lasciati al loro destino.
I soldati presenti a Lero, nel Dodecanneso, combatterono per circa 50 giorni
con le poche truppe inglesi che vi erano rimaste. All’inizio di novembre si
poterono contare circa 10.500 caduti italiani
che si arresero solo perché erano terminate le munizioni, dopo avere
abbattuto 200 aerei nemici ed avere
causato 3000 perdite d’uomini nel campo avverso. Certo possiamo immaginare che
fu proprio l’odio verso chi li aveva mandati lì - il fascismo, ed i suoi
alleati nazisti - a sostenere la volontà di combattere una battaglia che non
aveva “senso” né militare né politico. Alcuni comandati di quelle postazioni,
il generale Mascherpa e il comandante responsabile dei pezzi della marina, Re,
seppero tenere alto il comportamento delle truppe. Altri momenti memorabili si ebbero a Creta, in Eubea, a Corfù. Ufficiali e soldati spesso
trovarono la morte assieme, combattendo oppure venendo fucilati al momento
dell’arresto.
Certo l’episodio più importante, e recentemente tolto dall’oblio della
dimenticanza, fu quello di Cefalonia dove già il 13 settembre si ebbe il primo
scontro tra gli italiani sull’isola ed alcune zattere tedesche che tentavano
uno sbarco, ad Argostoli.
La divisione Acqui che era sull’isola, si comporterà come un sol uomo quando,
dopo un referendum tra la truppa, che viene effettuato nella notte tra il 13 ed
il 14 settembre e nel quale è chiesto ai soldati ed agli ufficiali quali
dovesse essere il comportamento da tenere in quel confuso frangente. La
risposta unanime fu la prosecuzione della lotta, ma contro i tedeschi. Il
risultato della consultazione viene fatto subito conoscere dal comandante
generale Gandin al tedesco : “la divisione Acqui non cede le armi”. Si crea
subito negli accampamenti un fervore di resistenza che si avvale anche della
vicinanza psicologica ai partigiani greci. La truppa cerca il riscatto e gli
ufficiali sono con la truppa. Nel pomeriggio del giorno 15 iniziarono i
bombardamenti tedeschi con gli stukas che andò avanti per sette giorni. L’Acqui
non poteva rispondere adeguatamente dato che non aveva contraerea. Oltre alle
bombe i tedeschi fecero scendere sugli accampamenti italiani volantini di
propaganda disfattista rispetto alla volontà di resistere pronunciata dagli
italiani: “Italiani i vostri capi vi vogliono vendere agli inglesi… seguite
l’esempio dei vostri camerati di Grecia e Rodi che hanno deposto le armi e
stanno già rientrando in Italia…deponete le armi…la via dell’Italia vi sarà
aperta dai vostri camerati tedeschi.” Logicamente gli italiani rifiutarono
questa palese trappola ed i tedeschi si imbestialirono ancora di più,
sfogandosi, a battaglia finita, sui superstiti arresisi. Il 22 settembre, a
scontri terminati, vengono infatti massacrati circa 4500 tra soldati ed
ufficiali. Altre morti nei giorni seguenti, finché restano in vita solo 37 ufficiali mentre i soldati rimasti, che erano stati
messi in mare, vennero ulteriormente decimati dalla reazione inglese e
trovarono la morte nell’affondamento delle navi che li stavano portando verso
la Germania. I morti sull’isola, circa 8.500, non vengono neppure sepolti dai
tedeschi che giudicano tale fatica inutile. Lo faranno i greci. Coloro che
proprio l’esercito italiano aveva attaccato, spinto dalle illusioni
mussoliniane di “spezzare le reni” alla Grecia. L’epopea di Cefalonia, dove vi
furono in totale quasi 10mila morti,
rimane come una esempio massimo nella serie di accadimenti che in quelle
zone hanno riscattato il nostro comportamento colonialista. La sua tragica
vicenda riassume e sintetizza il dramma dei militari italiani dislocati
all’estero. Il comportamento della truppa e degli ufficiali dimostra che sotto
divise e regolamenti agisce sempre una spinta etica che contrasta con la
brutalità della guerra.
La situazione delle 30 divisioni tra i Balcani e la Dalmazia vive un caos
collettivo e comune agli altri scenari di guerra. Anche qui sbandamenti e comportamenti non omogenei sono il
segnale di un disfacimento del potere centrale in Italia. La volontà di tornare
a casa è comune al mezzo milione di uomini in armi della zona. Diversamente che
nelle isole greche era forse possibile pensare di varcare il mare per tornare a
casa.
La confusione in cui vengono lasciati i comandi in quelle regioni permette anche rapporti di smobilitazione e di
resa da parte di alcuni comandanti. Accade in Grecia con il comando dell’XI°
armata che fin dal 10 settembre firma un accordo con i tedeschi nella speranza
di essere portati in Italia dopo due settimane. L’accordo firmato sarà però
subito vanificato dai tedeschi e significò la disgregazione dell’armata, lasciando
spazio a comportamenti di disperazione ma anche di resistenza al tedesco.
Intere divisioni come la Casale e la Forlì si sciolgono, ma, ad esempio,
all’aeroporto di Larissa, tra l’8 ed il 9 settembre, si svolge uno scontro che
voleva impedire ai tedeschi di controllare lo scalo. La divisione Pinerolo
regge la battaglia. Il generale Infante, a capo della divisione, guida le
operazioni e firma l’11 settembre un accordo di cooperazione con i partigiani
dell’ELAS. Su questo piano troverà collaborazione con gli inglesi che
diventeranno ufficialmente nostri alleati circa un mese più tardi. Anche nella
Macedonia orientale si hanno accordi simili. Le alleanze si interromperanno poi
a causa degli scontri intestini nella Resistenza greca. Le truppe che potranno ritorneranno
in Italia meridionale, per quel periodo territorio libero dai nazi-fascisti.
In Albania, nostra colonia dal 1939, la presenza nazista si fa subito
massiccia. E già dal 9 settembre
prendono in mano rapidamente i centri e le città più importanti. Le
nostre truppe - parte delle truppe armate dell’Est e la XI° armata - debbono
recarsi verso la ferrovia bulgara per la deportazione in Germania, dato che
l’Albania praticamente non ha strade ferrate e comunque quei pochi tratti
esistenti non sono collegate con le linee europee. Ogni resistenza sarebbe
stata considerata ribellione passando per le armi quanti fossero stati trovati
in infrazioni qualsiasi. Gli alti comandi militari italiani della zona
accettarono queste condizioni, forse pensando di “salvare il salvabile”,
provocando all’opposto disastri locali.
Solo la Brennero riuscì ad imbarcarsi per l’Italia. Altre formazioni quali la
Parma e la Puglie vennero imbrigliate e disfatte. La Perugia venne attirata in
una trappola sulla costa e massacrata. Furono uccisi pure il comandante,
generale Chiminello e circa 150
ufficiali.
La Firenze si ribellò al disarmo prospettato e seguendo le indicazioni del
proprio comandante, generale Azzi, si scontrò con i tedeschi a Kruja. Erano
circa 10mila soldati e cento ufficiali. Per tre giorni continuarono gli scontri
finche gli stessi soldati ripiegarono. In Albania diversi furono gli scontri
tra parte dell’esercito italiano ed i tedeschi. Da questo confuso comportamento
si produssero poi organiche formazioni che combatterono con la Resistenza
albanese: il battaglione Antonio
Gramsci al comando di Terzilio Cardinali. Artiglieria e uomini venivano sovente
integrati alle formazioni partigiane albanesi. Da un esercito invasore, i soldati
insorti, per le motivazioni già ricordate, si trasformarono in alleati di una
lotta di indipendenza e di liberazione. Nel Montenegro ed in Dalmazia si
ripetono gli stessi comportamenti di disobbedienza alla resa che abbiamo già
incontrato.
A Zara, in Dalmazia, i partigiani slavi ed elementi della divisione Bergamo
fecero fronte comune, difendendo la città dai tedeschi sino al 27 settembre,
quando dovettero arrendersi e quando i generali Cigala Fulgosi, Pelligra e
Policardi furono fucilati assieme a 46 ufficiali ed a partigiani slavi. Anche a
Ragusa stessi episodi. Perì, tra gli altri, il generale Amico che invece di
convincere le truppe alla resa, come volevano i tedeschi, le incitò alla
resistenza. Nelle vicinanze della città si asserragliò per quattro giorni la
Messina. A Spalato si costituì il primo battaglione Garibaldi, di cui facevano
parte anche 200 ex carabinieri, che entrarono pochi giorni dopo in azione
respingendo mezzi corazzati tedeschi.
In Montenegro destini diversi: la Ferarra si sfalda; l’Emilia si imbarca per
l’Italia; la Venezia e la Tuarinense si accordano con il II° Corpo jugoslavo
iniziando significative attività belliche. In seguito alle numerose perdite,
dalle due divisioni nacque, il 2 dicembre 1943, la divisione Garibaldi. Anche
la scelta dei nomi dei nuovi reparti è importante. Garibaldi ricorda il nostro
Risorgimento, una volontà perciò di riscatto profondo.
Altra tragedia fu la deportazione di tutti i militari quelli che i tedeschi
hanno potuto e/o voluto portare in Germania. I militari italiani internati
furono più di 600mila, catturati attorno alla fatidica data dell’8 settembre.
30mila morirono in prigionia. Anche se i tedeschi avevano proposto salva la
vita a chi avesse abbracciato la causa nazista e fascista repubblichina, la
quasi totalità dei soldati in prigionia rifiutò l’offerta, che fu così
accettata da poco più dell’1%. Anche questo rifiuto di massa può ovviamente
considerarsi come un grande contributo alla guerra di Liberazione che si
sarebbe svolta in Italia.
L’8 SETTEMBRE A NAPOLI E NEL MERIDIONE
Oltre agli episodi già prima ricordati, in Puglia ed a Salerno, occorre
ricordare lo scontro per il controllo di Taranto. Ma l’epicentro della tensione
militare si indirizza verso Napoli, la grande città che risentiva della spinta
degli Alleati che stavano risalendo il meridione d’Italia ma che nello stesso
tempo era controllata saldamente dai tedeschi. Ogni tentativo, seppur sporadico
ed isolato, di risposta da parte dell’esercito regio, viene stroncato con
decisione. Quindi il 22 settembre il comandante delle forze armate tedesche
della città emana un bando di arruolamento obbligatorio per tutti gli uomini
validi tra i 18 ed i 33 anni. Il piano tedesco era quello di fare piazza pulita
della città e dei suoi abitanti, nella massima misura possibile. Si doveva proprio
iniziare con una deportazione di massa, quando i giovani napoletani si fossero
presentati all’arruolamento ”volontario”. Al posto delle 30mila persone attese
se ne fecero vive 150. Questo smacco dà al
tedesco un valido motivo per fucilare quanti più giovani possibile.
L’estraneità totale dei tedeschi rispetto a Napoli in quelle ore serve forse a
definire il senso profondo della rivolta delle Quattro giornate, dal 27 al 30
settembre.
Il pomeriggio del 27, al Vomero, alcuni tedeschi che dovevano operare degli
arresti per la deportazione in Germania vengono uccisi da napoletani armati.
Non si fa attendere la reazione, con ritorsioni immediate ed arresti con la
tecnica della decimazione.Già al mattino seguente si hanno scontri al porto,
lontano dal Vomero, che sovrasta la città. Ogni arma viene usata dai
napoletani: armi da taglio, vecchi fucili, sassi, bottiglie di benzina. Ogni
mezzo è utile per recuperare armi ed iniziare la ribellione. Il giorno 28 si
configura come l’acme della rivolta e lo sbigottimento tedesco diviene palese.
Sorgono barricate ed iniziano scontri un poco in tutta la città. Il giorno dopo
si comincia ad organizzare la lotta che appare così meno approssimativa. Si
forma un Comitato partigiano che cerca di dirigere gli scontri. Aumentano le
barricate e si contano a decine le perdite tra i civili. Si arriva ad un
accordo con i tedeschi: questi avrebbero evacuato indisturbati la città ma
dovevano rilasciare i prigionieri che avevano intanto fatto. Tutto sembra svolgersi nei termini proposti,
ma il tedesco cerca la vendetta e cannoneggia da Capodimonte la città e
distrugge tutto quanto può della cultura napoletana. Infatti viene dato fuoco
all’Archivio storico di Napoli.
Ma comunque la città viene liberata. I tedeschi sconfitti da un popolo che crea
una sua unità proprio in quei frangenti.
L’esercito invasore sposterà allora la sua furia bestiale verso luoghi
piccoli, lontano dalle città: a Boves, sopra Cuneo, dove si compie la prima
strage nazi-fascista, con l’incendio
del paese e centinaia di militari e contadini uccisi; a Marzabotto, a Sant’Anna
di Stazzema.
Tutto il meridione è punteggiato da momenti di scontro che riscattano il
passato periodo fascista. A Matera il 21 settembre i tedeschi sono messi in
fuga. Impari episodi armati si svolgono a Capua, S. Maria Capua Vetere. 19
carabinieri sono uccisi a Teverola, provincia di Caserta. Sempre nella stessa
provincia, a Bellona, 54 civili sono uccisi per avere giustiziato un tedesco
stupratore. Sono allineati sull’orlo di un dirupo e spinti sotto con raffiche
di mitraglia. A Lanciano si hanno tre giorni di scontri, 4-6 ottobre,
sull’esempio di Napoli.
Da Boves a Piombino; dalle azioni di Roma, alla Resistenza all’estero, sino
alle Quattro giornate di Napoli; da Firenze al S. Martino; da Fossoli a Bassano
del Grappa sino alla Maiella, possiamo notare uno stesso elemento che collega
idealmente tutti gli accadimenti: la volontà di scrollarsi di dosso il
ventennio fascista, le sue scelte di sudditanza verso il tedesco che hanno
portato gli italiani in arme ed i civili a soggiacere ad ordini, leggi - una
per tutte quelle razziali del 1938 - che poco avevano a che fare con la cultura
diffusa del popolo italiano. Dall’inizio di settembre il movimento partigiano
trovò linfa vitale per svilupparsi progressivamente. Anche se il fascismo a
tratti sollevò simpatie tra la popolazione del nostro paese, la sua politica
profondamente antipopolare gli procurò una caduta ignominiosa ed al popolo
italiano una dolorosa marcia per il riscatto nazionale che solo con il
sacrificio di uomini in divisa e di civili partigiani, nel corso dei mesi
successivi all’8 di settembre, saprà riscattare il paese intero sia verso se
stesso sia nel consesso internazionale, permettendo la nascita di una
repubblica democratica e la promulgazione di una Costituzione che doveva fare
tesoro di tutto quello che accadde dall’8 settembre in poi.
[1] I componenti della direzione del CLN furono in questo primo momento: Scoccimarro ed Amendola per il PCI, i socialisti Nenni e Romita, La Malfa e Fenoaltea per il Partito d’Azione, Ruini rappresentante la Democrazia del Lavoro, De Gasperi per la DC, Casati per il Partito Liberale Italiano.
[2] D.D. Eisenhower, Crociata in Europa, Mondadori, Milano, 1949.