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Lotte dei lavoratori per la pace: 1944 - 2004


Torino, 6 Marzo 2004
di Bf

Sessant’anni dopo, con rinnovato interesse rileggiamo le vicende degli scioperi della prima settimana del Marzo del‘44, durante i quali le rivendicazioni dei lavoratori, di pace, pane e libertà, si saldarono con la lotta armata partigiana; e insieme gli operai e i clandestini presero coscienza che la loro lotta aveva un’aspirazione politica, per un mutamento di orizzonte.

Già nel Marzo del‘43, di fronte alla miseria crescente, ai patimenti della guerra, ai bombardamenti, si erano verificate le prime agitazioni operaie, dopo vent’anni di sottomissione alla monarchia e al suo governo fascista. Erano vertenze a carattere economico, avanzate nell’illegalità in una società repressiva e controllata dal pensiero unico, con il sindacato fascista attento a prevenire ogni movimento, in un paese arretrato e a bassa scolarizzazione. La comunicazione democratica poteva affidarsi solo alla stampa clandestina o alle parole; affondava le sue radici nel movimento socialista del 1915 (che già allora contrastava la guerra, con le donne che si sdraiavano sui binari per impedire alle tradotte di partire verso il fronte).

Dopo l’8 Settembre, mutato il quadro politico - con la Repubblica Sociale collaborazionista a reggere il gioco all’occupazione dei nazisti tedeschi - le condizioni esistenziali si facevano sempre più dure e precarie (massima precarietà per gli uomini, che potevano essere prelevati dalla Todt per strada e deportati senza preavviso nei campi di lavoro dove ci fosse stata richiesta di braccia). Con salari del tutto insufficienti ad andare avanti, la popolazione precipitava dal ‘vitto razionato’ alla disperazione della fame. Le donne soprattutto andavano davanti alle commissioni interne a difendere la sopravvivenza.

Una situazione particolare venne a crearsi nella concentrazione industriale compresa tra Torino, Milano e Genova, per l’interesse che gli occupanti avevano a far funzionare le fabbriche, cruciali per alimentare la macchina da guerra di Hitler. Di fronte alle crescenti rimostranze operaie, gli occupanti cercarono di contenere le rivendicazioni offrendo un accordo del 30% in più sui salari, pur di salvare la produttività e preservare il meccanismo dello sfruttamento e il controllo della situazione.

Ma le rivendicazioni dei lavoratori intanto avevano trovato il supporto politico della lotta partigiana, dalla quale trassero coraggio per intraprendere la prova, dallo sbocco incerto, dello sciopero generale. Una prova che, portando ad un aperto scontro sociale, è sempre difficile ma che era addirittura pericolosa in quella situazione, in cui il detentore dei mezzi di produzione era il nemico. L’esito dello sciopero avrebbe comunque portato a un cambiamento irreversibile nelle relazione tra le parti.

Lo sciopero generale, trasformato in un conflitto sociale, fu proclamato dai Comitati della Resistenza dell’Alta Italia, con l’appoggio di comunisti, azionisti e socialisti. Fu indetto nella prima settimana del Marzo’44, e preparato nelle difficoltà di doversi muovere in clandestinità. La parola d’ordine era di non produrre più per la guerra nazifascista. I volantini facevano appello a migliori condizioni di vita, alla pace e contro il regime. Ma si poneva il problema della rivoluzione italiana contro la dottrina della disuguaglianza.

Per i nazi-fascisti lo sciopero era un atto di ostilità politica e militare; riuscire a reprimerlo significava sia impedire un danno alla gestione della guerra, tutelando il drenaggio delle risorse dal paese occupato, sia colpire sul nascere l’autentica democrazia che poteva svilupparsi a partire dai processi di produzione. La situazione era delicata, dato l’interesse alla produttività. Risultate inutili le aperture e l’esca della “socializzazione repubblichina”, si tentò di prevenire lo sciopero con la ‘messa in ferie’ per motivi tecnici in un 40% delle fabbriche legate alla produzione di guerra, nelle quali era parcellizzata la produzione delle componenti meccaniche. E con minacce di repressioni pesanti nelle fabbriche principali che dovevano continuare a funzionare, come la FIAT.

Dal primo giorno lo sciopero riuscì a Torino e a Milano; le cose si complicarono a Genova. A Torino in 200.000 bloccarono le officine, e la risposta fu la serrata totale delle fabbriche. Il 3° giorno la Guardia Nazionale arrivò a sparare raffiche sugli operai alla Grandi Motori e all’Areonautica.

L’8° giorno il lavoro riprese e fu quello della rivalsa nazi-fascista . A Torino ci furono operai prelevati direttamente in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova, destinazione Mauthausen. In 400 vennero deportati nei campi di sterminio o di lavoro, dai quali in pochi tornarono (alla FIAT,178 i deportati individuati, nome e cognome). In seguito lavorarono le camere di tortura all’Albergo Nazionale in via Roma, alla Cernaia, in via Asti. La repressione, intesa a liquidare il movimento armato, arrivò all’eliminazione del Comitato militare piemontese. Hitler scrisse parole di fuoco, minacciando la cattura del 20% dei lavoratori italiani ed espresse il suo rammarico per non aver eliminato preventivamente con il gas tutti i comunisti. La stampa fascista fece una disanima dell’intera città, valutando l’opposizione all’85% (del resto, già dagli anni Venti la città era nel mirino del regime, da quando Mussolini era passato alla FIAT tra due ali gelide di operai, senza ricevere un saluto, un applauso).

Radio Londra ed il New York Times parlarono di questo sciopero generale come del più grande movimento di massa svoltosi nell’Europa occupata

Il prezzo pagato fu altissimo. Di fronte allo sgomento, Togliatti da Salerno disse “prima vinciamo la guerra, poi parliamo”. La lotta non si fermò e i fatti cominciarono a dare ragione; il successivo 28 Giugno un altro sciopero riuscì ad impedire il trasferimento dei macchinari dalle officine della FIAT alla Germania. Gli eventi si depositarono nelle coscienze mutando l’atteggiamento della popolazione nei confronti dell’occupazione nazista, dalla convivenza rassegnata, alla contrapposizione conflittuale. I partigiani, da minoranza armata, passarono a rappresentare un’alternativa, una prospettiva politica per l’elaborazione di una nuova società, per una nuova Italia.

La scelta coraggiosa e lungimirante dei lavoratori che scioperarono contro la guerra nel 1944 è fissata dentro la nostra Costituzione, nata dal profondo bisogno del popolo di libertà, di pace e di instaurare una democrazia repubblicana (e non dalla volontà dei padroni dei partiti). Oggi i lavoratori continuano a stare alla testa dei movimenti per la pace, attualizzando la concezione appresa che dalle guerre d’aggressione possono nascere solo ingiustizie e dolore.