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Giorno della memoria o giorno della cancellazione della memoria?

Riflessioni su memoria e oblio

di Adriana Chiaia

13 febbraio 2006

 

Nel 2000 una legge dello Stato italiano istituiva “la giornata della memoria” da celebrarsi il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione dei prigionieri sopravvissuti nel campo di sterminio di Auschwitz.


In questa ricorrenza i mezzi di comunicazione di massa hanno usato, negli scorsi anni, espressioni del tipo: “27 gennaio 1945: cadono i cancelli di Auschwitz” oppure: “I cancelli di Auschwitz sono stati aperti dagli alleati, cioè dagli inglesi, statunitensi e francesi. E ancora, britannico è il carro armato del tanto osannato  film La vita è bella di Benigni, premio Oscar 1999.


Abbiamo protestato facendo ricorso alla testimonianza di Primo Levi, sopravvissuto di quel campo,  che descrive così l’arrivo dei liberatori:

«… La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio del 1945. […]. Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. […] Quattro uomini armati, ma non armati contro di noi, quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo. Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota […]: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono…»[1]

Recuperata così la memoria, in seguito si è ammesso che, sì, ad Auschwitz erano arrivati i russi.

Ma perché tante amnesie? Perché, proprio nel giorno della memoria, fare torto a quei giovani soldati?

Perché altrimenti si sarebbe dovuto riconoscere nel loro sgomento, nel loro incolpevole senso di vergogna, il simbolo che Auschwitz assumeva davanti al loro sguardo attonito: il crinale, l’invalicabile confine tra due opposte concezioni del mondo che venivano a contatto. Da una parte la concezione del mondo  basata sull’ideologia fascista dell’odio e del razzismo, sulla perversa ideologia revanscista della conquista delle terre altrui, attraverso l’eliminazione o la riduzione in schiavitù delle popolazioni considerate inferiori, in nome di un osceno culto della superiorità di una razza eletta. Dall’altra la concezione del mondo basata sugli ideali del comunismo, sulla fratellanza tra gli uomini, sull’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla sostituzione della schiavitù del lavoro salariato con la libera associazione dei produttori.


Di questo non si vuole parlare
, dato che, al contrario, e più frequentemente negli ultimi tempi, è invalso l’uso dell’ignobile equazione tra l’una e l’altra visione del mondo: comunismo = nazismo, e che recentemente l’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa a Strasburgo ha discusso una condanna dei regimi comunisti su proposta del Partito Popolare Europeo, lo stesso che un anno addietro  aveva chiesto che, insieme ai simboli del nazismo, fosse proibito quello di falce e martello!


Di quei giovani soldati dell’Armata rossa, lanciati nell’offensiva vittoriosa attraverso l’Europa dell’est, che li avrebbe portati fino a Berlino ad issare la rossa bandiera dell’URSS sul Reichstag non si vuole parlare, perché altrimenti bisognerebbe ricordare il prezzo di quella vittoria: oltre 20 milioni di morti,  circa la metà dei quali civili e prigionieri di guerra uccisi e torturati dai nazisti nei territori sovietici occupati e più di 40 milioni di feriti e mutilati. I nazisti distrussero 1710 città e cittadine, oltre 70.000 paesi e villaggi, 32 mila imprese industriali,  98 mila kolchoz, 1876 sovchoz. Fecero saltare 65 mila chilometri di linee ferroviarie, danneggiarono o portarono via 16 mila locomotive e 428 mila vagoni.


Bisognerebbe ricordare lo sterminio sistematico dei cittadini sovietici nei territori occupati e nelle città assediate. «…nella sola Leningrado, assediata per 900 giorni, si calcola che i morti per fame siano stati 632.258…e, sempre a Leningrado, i morti  in seguito ai bombardamenti, esclusi i militari, furono 16.747 e 33.782 i feriti.»[2]

Bisognerebbe ricordare che per i prigionieri di guerra sovietici «… in generale valse il principio, enunciato in varie ordinanze tedesche, secondo cui “il soldato sovietico ha perso ogni diritto di essere trattato come un onesto soldato”. Il che significò […]: eliminazione istantanea dei feriti e di quelli che non reggevano alle marce di trasferimento; utilizzazione dei prigionieri validi nei lavori forzati e loro uccisione quando giungevano allo stato di esaurimento…»[3]


Bisognerebbe ricordare che «dei 16 mila prigionieri sovietici inviati al campo di Auschwitz ne furono trovati vivi, il giorno della liberazione del campo, solo 96.»[4]

Bisognerebbe inoltre ricordare che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti rimandarono reiteratamente la promessa apertura del secondo fronte nell’Europa occidentale (lo sbarco delle truppe anglo-americane in Normandia avvenne nel giugno del 1944), privilegiando la conquista di posizioni strategiche in altre parti del mondo e lasciando che l’URSS sostenesse da sola la maggior forza d’urto messa in campo dalle forze armate naziste. Il grosso della Wehrmacht era infatti stato schierato contro i sovietici: 179 divisioni tedesche, 16 divisioni ungheresi ed altre truppe (in totale più di 3 milioni di uomini), mentre contro inglesi e americani si schierarono 107 divisioni. Di questo non si vuole parlare, perché equivarrebbe a riconoscere che il popolo sovietico, con la sua dedizione e con il suo sacrificio, ha salvato l’Europa dal pericolo nazista.


Di questo non si vuole parlare
, altrimenti si darebbe la misura dell’ammirazione nei confronti dell’epica resistenza delle città assediate e della controffensiva dell’Armata Rossa che prese le mosse dalla liberazione di Stalingrado (2 febbraio 1943), ammirazione espressa anche dai nemici storici della società socialista: dallo stesso Churchill (che a suo tempo aveva esortato a “soffocare il comunismo ancora nella culla”),  dal re Giorgio di Gran Bretagna che donò a Stalingrado una  “Spada d’Onore” e dal presidente degli Stati Uniti, Roosevelt, che consegnò un “diploma d’onore” agli eroici difensori della città, divenuta simbolo della riscossa contro il nazismo.


Di questo non si vuole parlare
 perché bisognerebbe soprattutto ricordare che la sconfitta dei nazisti a Stalingrado incoraggiò la resistenza dei partigiani nei territori europei occupati e ridiede speranza ai popoli oppressi dal nazismo.

«I successi sovietici nella guerra, la vittoria di Stalingrado, il suo peso decisivo dal punto di vista militare, hanno avuto una eco diffusa a livello di grandi masse e nel mondo politico internazionale. L’ammirazione e la simpatia per l’Unione Sovietica, la stima per Stalin, sono diventate sentimento e patrimonio dell’antifascismo, anche di quello non comunista.»[5]


Di questo non si vuole parlare
. Altrimenti bisognerebbe ricordare che questa ammirazione e questi riconoscimenti furono ben presto liquidati. Già la conferenza di Potsdam (luglio-agosto 1945), che avrebbero dovuto decidere dell’avvenire della Germania sconfitta e porre le basi per una pace durevole, segnò invece una brusca svolta nell’atteggiamento che gli Stati Uniti, forti del successo della prima esplosione nucleare avvenuta in quei giorni a Fort Alamo, assunsero nei confronti dell’URSS.


Bisognerebbe ricordare che l’inutile (l’imperatore del Giappone aveva avviato contatti diplomatici per trattare una resa) e quindi doppiamente criminale bombardamento nucleare, che cancellò le città di Hiroshima e Nagasaki e fece al momento e in seguito 300 mila morti, fu un avvertimento all’Unione Sovietica. E non solo. La supremazia nel possesso delle armi nucleari,  almeno fino a quando gli Stati Uniti ne ebbero il monopolio, fu alla base dei piani segreti di distruzione dell’URSS, che furono orditi tra il 1948 e il 1957 dagli stati maggiori del governo degli Stati Uniti, con il sostanziale appoggio della Gran Bretagna.[6]


Bisognerebbe ricordare la guerra fredda, ufficialmente dichiarata nel 1946 con il celebre discorso di Churchill a Fulton, USA («Da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico, una cortina di ferro si è abbattuta sull’Europa») e definitivamente sancita dal messaggio al Congresso degli Stati Uniti nel quale il presidente Truman lanciò la famosa teoria sulla divisione tra il mondo “libero” (cioè quello delle democrazie borghesi) e il mondo soggetto “ad un potere dispotico imposto dal terrore” (cioè quello degli Stati ad ordinamento socialista).

Bisognerebbe ricordare il blocco militare, economico, culturale cui fu sottoposta per molti anni l’Unione Sovietica, accerchiamento che rese estremamente più difficile il lavoro di ricostruzione della sua economia.


Perciò di tutto questo non si vuole parlare

 

2

 

In occasione del “giorno della memoria” anche quest’anno si sono moltiplicate le iniziative per celebrarlo e, se la maggior parte di esse è stata dedicata alla  Shoah, si è  cominciato a ricordare gli “stermini dimenticati”. Così  la Camera del Lavoro di Milano ha ricordato, in una serata nella sua sede,   la strage dei Rom e dei Sinti nei lager nazisti. Una iniziativa lodevole, specialmente in una città così poco ospitale nei confronti di quelle minoranze, cacciate da un accampamento all’altro, mediante l’incendio doloso o la demolizione delle loro improvvisate baracche o lo sgombero “manu militari” da parte delle “forze dell’ordine”.


Tuttavia, il loro non è il solo sterminio dimenticato. Secondo le statistiche dell’ANED (Associazione Nazionale ex Deportati politici nei campi nazisti), i deportati italiani nei campi di sterminio nazisti furono circa 44.000. Di questi 8000 erano ebrei, 12.000 erano operai (molti delle fabbriche torinesi, di Sesto San Giovanni e delle vetrerie di Empoli e dintorni) arrestati e deportati in seguito agli scioperi del 1944, 2750 erano donne (le lombarde 600). Fecero ritorno in 4000 circa, meno del 10% del totale.

Perché i 12.000 operai, più di un quarto del numero complessivo dei deportati, nel giorno della memoria non sono stati ricordati in alcuna celebrazione ad essi espressamente dedicata?


Non se ne vuole parlare
forse perché, come dice e ripete un trito luogo comune, la classe operaia è una categoria obsoleta? (Tranne poi, in un sussulto di resipiscenza, essere costretti a prendere atto della sua esistenza, quando decine di migliaia di metalmeccanici invadono le piazze e bloccano le vie di comunicazione per rivendicare la chiusura del loro contratto, scaduto da tredici mesi).


Non se ne vuole parlarne
soprattutto perché  altrimenti bisognerebbe ricordare che: «… è stata la classe operaia, sono stati i lavoratori a dare alla Resistenza il più grande contributo di sacrificio, di sangue, di idee. I lavoratori si trovarono ad essere i protagonisti, le forze principali della Resistenza, non per caso, ma perché la loro posizione nella società italiana li portò ad essere alla testa della grande battaglia contro il fascismo per riconquistare le libertà, per il rinnovamento sociale dell’Italia…»[7]


Con gli scioperi del 1943 e con lo sciopero generale del 1944 la classe operaia ha dato una spallata determinante all’occupazione nazista e al collaborazionismo fascista, ha aperto la strada all’insurrezione generale del 25 aprile del ‘45.


Dei 12 mila operai deportati, nella giornata della memoria non si vuole parlare, perché altrimenti bisognerebbe ricordare che quegli stessi padroni che avevano consegnato nelle mani dei boia nazisti e fascisti le avanguardie di lotta, destinandole alle torture, alla fucilazione o alla deportazione nei campi di stermino, quegli stessi padroni, usciti dopo la Liberazione dai comodi rifugi elvetici, una volta rassicurati dal disarmo dei partigiani imposto dagli alleati, hanno isolato, perseguitato, licenziato gli stessi operai che avevano  salvato con le armi in pugno le fabbriche dalla distruzione dei nazisti in fuga e gliele avevano restituite indenni.


«La fabbrica non dev’essere una prigione», denunciava Pietro Secchia in un discorso tenuto al Senato il 13 marzo 1953. «A Milano, la società Montecatini ha assoldato centinaia di guardie armate dalla polizia e dalle ex brigate nere, le quali vengono impiegate negli stabilimenti per perquisire gli operai all’entrata e all’uscita, per frugare nei loro cassetti alla ricerca di un manifestino sindacale, comunista o socialista, per impedire che la commissione interna durante le ore di lavoro possa parlare con gli operai, per ascoltare se gli operai parlano di politica, per controllarli persino quando vanno al gabinetto. A Milano, nel dicembre scorso, un proprietario di un’azienda cittadina, cittadino straniero per giunta, ha licenziato due operaie motivando il provvedimento apertamente e sfacciatamente perché avevano partecipato al Congresso della Camera del Lavoro.[…] Ma questo è fascismo che torna.»[8]. Ma di questo non si vuole parlare.

 

3

 

Quando si parla di deportati nei campi di annientamento è giusto ricordare gli omosessuali (i “triangoli rosa”), che in essi sono stati sottoposti ad indicibili sofferenze e spesso vi hanno trovato la morte, tanto più giusto nel momento in cui il Vaticano include questi cittadini nelle sue rinnovate scomuniche e ne vuole limitare i diritti civili.


Ma c’è un’altra “categoria” di internati nei campi, i “triangoli rossi”, i detenuti politici, a volte genericamente e pudicamente qualificati come “oppositori dei regimi” o non ricordati affatto. Delle centinaia di migliaia  di detenuti nei campi di concentramento e nelle carceri fasciste e naziste, di torturati e condannati a morte, di fucilati, di impiccati e perfino di ghigliottinati non si parla o si parla a denti stretti: gli antifascisti, i comunisti, i partigiani che dovunque in Europa riscattarono l’onore del loro paese invaso, occupato, governato da servi collaborazionisti. È un’infamia denigrarli e una viltà dimenticarli.


È un dovere parlarne per onorarli. Partiamo dalla situazione più difficile in cui essi furono costretti ad operare: la Germania nazista. Il nazismo, che ha il primato nel numero dei lutti e nell’entità delle rovine che causò nei paesi occupati, aveva già instaurato un regime di terrore nel proprio paese.


È necessario anzitutto ricordare che, nel macabro elenco dei campi di concentramento e annientamento i cui nomi sono diventati tristemente famosi in tutto il mondo, spesso non vengono inclusi i campi di concentramento dai nomi meno noti che costellarono il territorio di molti paesi, sia quelli a regime fascista, che quelli occupati dai fascisti e dai nazisti.[9]

I più importanti di essi sorsero in Germania fino dall’ascesa al potere di Hitler.


«I primi campi di concentramento spuntarono come funghi durante il primo anno del governo di Hitler: già alla fine del 1933 ve n’erano una cinquantina, quasi tutti istituiti dalle SA per dare alle loro vittime una buona bastonata, e farle quindi riscattare dai parenti o dagli amici per una somma proporzionale alle loro possibilità.»[10]. «Poco dopo la purga di Röhm[11], Hitler mise i campi di concentramento sotto controllo delle SS (Schutz-Staffeln, “Squadre di Protezione”), che si dettero a organizzarli con l’efficienza e la spietatezza caratteristiche di questo corpo scelto. Il servizio di guardia fu affidato esclusivamente alle unità “Teste di morto”, i cui componenti venivano reclutati tra gli elementi più fanatici nazisti e  portavano la nota insegna del teschio sulla casacca nera.»[12].
«I [campi] più importanti erano (fino all’inizio della guerra, quando furono diffusi anche sui territori occupati): Dachau presso Monaco, Buchenwald presso Weimar, Sachsenhausen […] presso Berlino, Ravensbrück nel Meclemburgo (per donne) e, dopo l’occupazione dell’Austria nel 1938, Mauthausen presso Linz. Questi nomi, assieme a quelli di Auschwitz, Belsec e Treblinka, campi istituiti più tardi in Polonia, erano destinati a diventare fin troppo familiari in quasi tutto il mondo.»[13] In essi, anche se non erano ancora finalizzati allo sterminio, vigeva un regime di terrore. Ad esempio un articolo del regolamento del campo di Dachau (poi esteso a tutti gli altri campi) recitava:

«Art. 11. Sarà impiccato come agitatore, chiunque faccia della politica, tenga discorsi e comizi di incitamento, formi associazioni, si indugi con altri; chi, al fine di fornire alla propaganda dell’opposizione episodi di atrocità, raccolga informazioni vere o false sul campo di concentramento; riceva queste notizie, le conservi, ne parli ad altri, le propali di nascosto fornendole ai visitatori stranieri, eccetera.»[14]


Per soffermarsi sull’esempio Germania, si calcola che dall’inizio alla fine del regime hitleriano, ebbero luogo 32 mila esecuzioni capitali (promulgate da tribunali civili o militari) di cittadini del Reich condannati per opposizione al nazismo e alla guerra nazista o per defezione da essa. Si deve osservare che tale cifra  è una parte quasi irrilevante rispetto al numero dei cittadini fatti morire violentemente o non, per motivi politici o razziali; i detenuti nei campi di concentramento di cui circa 500 mila non fecero ritorno; i soppressi dalla Gestapo, dalle SS, dalle SA, ecc., uccisi sul luogo stesso dove venivano sorpresi, o durante gli interrogatori; i militari, nei vari paesi occupati, giustiziati per essersi uniti alle forze partigiane.[15]


Nei libri di storia e nella pubblicistica borghese non si manca di citare il tentativo di rovesciare il regime nazista per mezzo di un colpo di stato a cui avrebbe dovuto dare il via un attentato per uccidere Hitler. È il noto complotto del 20 luglio 1944, ordito da alte gerarchie militari e da esponenti della borghesia imperialista. Come si sa, il complotto fallì e comunque, se fosse riuscito nel suo intento, avrebbe sostituito il nazismo con un regime autoritario, militarista, che mirava a ristabilire i vecchi rapporti di alleanza con le potenze imperialiste alleate in chiave antisovietica.


Quello che invece va ricordato è che questo regime di terrore non impedì la formazione e l’azione di gruppi politici clandestini. Oltre a quello denominato della “Rosa bianca”, più noto, grazie alla sua ispirazione etico – religiosa e per la radicalità dei suoi obiettivi, per l’impatto emotivo derivante dall’estrema giovinezza e dalla determinazione che portò al sacrificio i suoi protagonisti, vi furono numerosi gruppi clandestini che operarono all’interno, in collegamento con l’emigrazione all’estero. Dei loro eroici tentativi non si parla quasi mai, avvalorando, sulla base del largo consenso di massa di cui effettivamente godette il regime nazista almeno fino alla disfatta nell’ultima parte della guerra,  il luogo comune di tedeschi = nazisti, profondamente ingiusto, nei confronti dei coraggiosi che osarono opporsi in condizioni difficilissime.


Il nazismo aveva distrutto tutte le organizzazioni della classe operaia, nonostante ciò, nei primi due anni del potere hitleriano ci furono molti scioperi nelle principali fabbriche per motivi economici (a causa della riduzione dei salari), ma anche a contenuto politico, contro i licenziamenti di operai sgraditi al regime e in solidarietà con i perseguitati politici. Il partito comunista, costretto alla clandestinità, non cessò mai di operare all’interno e, con la svolta del VII Congresso dell’Internazionale comunista, fu fautore della formazione di un “fronte unito”, con il partito socialdemocratico il quale, con il manifesto di Praga del 1934, superò il suo tradizionale anticomunismo. Il collegamento con l’emigrazione, composta soprattutto da intellettuali, che si proponevano di rappresentare davanti al mondo intero das beste Deutschland, il meglio della Germania, funzionò favorendo la diffusine della stampa illegale, prodotta all’estero, almeno fino a quando la Cecoslovacchia non fu invasa dalla truppe del Terzo Reich.


Ci furono tentativi, anche consistenti, di collegamento tra i vari gruppi della resistenza. Citiamo, a titolo esemplificativo, il più importante nucleo antinazista, di indubbia influenza comunista, che si formò anteriormente allo scoppio della guerra. Esso fu denominato dalla polizia nazista Rote Kapelle, “orchestra rossa”.


«L’ impostazione politica della Rote Kapelle si può definire di fronte popolare di largo schieramento antifascista; la sua attività fu di propaganda e di solidarietà con i perseguitati politici e razziali, ma fu anche di appoggio attivo ai movimenti di resistenza nei territori occupati dai nazisti. Dopo l’aggressione contro l’Unione Sovietica, il gruppo intensificò l’attività di propaganda e stabilì persino un contatto radio con l’URSS.»[16] La violenta repressione da parte della Gestapo, con sessanta condanne a morte, mise fine alla coraggiosa attività del gruppo.


Infine ricordiamo, sia pur brevemente, che i rovesci subiti dalle forze armate tedesche misero in crisi il consenso verso il nazismo della parte meno politicizzata e cosciente della popolazione e favorirono l’azione di propaganda contro la guerra e di sabotaggio della produzione di materiale bellico. «La sconfitta di Hitler non è la nostra sconfitta, ma la nostra vittoria!» fu la parola d’ordine di un importante gruppo comunista di Amburgo, a composizione prevalentemente operaia, il quale si fece promotore dell’organizzazione comunista centralizzata che raggruppò parecchi nuclei clandestini. Anche l’attività di questa rete fu stroncata nel settembre 1944,  con la condanna a morte dei principali dirigenti e con centinaia di condanne che ne attestano la vastità.


Ma di questo non si vuole parlare
perchél’immane sacrificio di sangue, l’eroica dedizione degli antifascisti, all’indomani della caduta di Hitler, della disfatta delle armate hitleriane, del fallimento delle ideologie naziste, avrebbe dovuto portare alla rinascita di una Germania libera e democratica. Bisognerebbe ricordare che le solenni dichiarazioni firmate a Potsdam il 2 agosto 1945 dagli alleati occidentali e dall’Unione Sovietica, che occupavano rispettivamente il territorio occidentale e orientale della Germania, sembravano riconoscere questi principi. Esse sostenevano: «Il militarismo tedesco ed il nazismo saranno estirpati e gli Alleati prenderanno di comune accordo, per il presente e in avvenire, le misure necessarie perché la Germania non possa più minacciare i suoi vicini e la pace mondiale. Non è nelle intenzioni degli Alleati distruggere o ridurre in schiavitù il popolo tedesco. L’intenzione degli Alleati è quella di dare al popolo tedesco la facoltà di rifare la propria vita su basi democratiche e pacifiche.»[17]


Questa dichiarazione implicava l’epurazione nelle istituzioni e negli apparati amministrativi della nuova Germania di coloro che avevano appoggiato il nazismo e soprattutto, poiché era chiaro a tutti che senza l’appoggio delle grandi concentrazioni industriali Hitler non sarebbe mai potuto andare al potere, i firmatari si impegnarono a: «eliminare gli attuali eccessi di concentrazione della potenza economica che [in Germania] è caratterizzata in particolare da cartelli, sindacati, trust e altri organismi a carattere monopolistico.»[18]


Di questo non si vuole parlare
perché gli accordi di Potsdam furono violati dalle potenze occidentali.

Gli esperti della commissione del Governo Militare americano in Germania, che si sarebbe dovuta occupare della “de-cartellizzazione, si dimisero, uno dopo l’altro, denunciando che le ingerenze di alti esponenti governativi e delle principali società capitaliste statunitensi avevano manovrato per impedire che la commissione conseguisse gli obiettivi per cui era stata istituita; al contrario, le loro manovre avevano impedito che i maggiori industriali e banchieri tedeschi che avevano appoggiato Hitler fossero tradotti davanti ai tribunali, in quanto si riteneva che «chi aveva aiutato Hitler sarebbe diventato il miglior collaboratore degli Americani nella lotta contro il bolscevismo.»[19]


Per quanto riguarda la denazificazione, è noto il reclutamento delle SS nei servizi di intelligence statunitensi e altrettanto nota l’operazione ODESSA (Organizzazione dei Veterani delle SS) che permise il trasferimento dei beni materiali nazisti fuori dall’Europa e creò le reti di  fuga delle SS. «Partendo da ogni angolo della Germania i sentieri della fuga portavano a Menningen, in Baviera, quindi a Roma, e poi, via mare, verso le numerose colonie per nazisti che erano state messe in piedi nell’emisfero sud.»[20]


Di tutto questo non si vuole parlare
perché bisognerebbe ricordare che la guerra fredda era stata già dichiarata e che i suoi effetti si ripercuotevano in ogni campo. Per questo, ad esempio,   nella zone occupate dagli Inglesi e dagli Americani, la stampa tedesca, per disposizione delle autorità occupanti che in pratica la controllavano, aveva assunto  toni e contenuti violentemente anticomunisti paragonabili a quelli in uso durante il regime nazista.


Con queste premesse, la conferenza di Londra tra le potenze vincitrici, che avrebbe dovuto trovare un accordo per il futuro della Germani, fu fatta fallire. Il progetto dell’unificazione della Germania fu accantonato e al contrario «…il 7 giugno 1948 , i ministri degli esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Belgio e Olanda decisero unilateralmente la formazione di un governo della Germania Occidentale e undici giorni più tardi procedettero a una riforma monetaria altrettanto unilaterale che rompeva l’unità economica della Germania.»[21]


Di tutto questo non si vuole parlare
perché bisognerebbe ricordare che lo spirito con cui l’URSS aveva sostenuto che non si dovesse far pagare al popolo tedesco le colpe del nazismo era lo stesso che, alla fine della prima guerra mondiale, aveva ispirato il trattato di Rapallo, non un semplice trattato commerciale tra la Germania e la Repubblica Sovietica, ma il tentativo, da parte di quest’ultima, di tendere la mano al popolo tedesco prostrato dalle condizioni capestro imposte dalla pace di Versailles, in nome del principio dell’internazionalismo proletario che doveva guidare i rapporti tra i popoli. A Potsdam, come a Rapallo, obiettivo dei Sovietici era di evitare che nella Germania sconfitta si sviluppassero i sentimenti di rancore e rivalsa e la mala pianta del nazionalismo reazionario e del revanscismo che avevano costituito il terreno di coltura del nazismo.


Di tutto questo non si vuole parlare
perché bisognerebbe denunciare le responsabilità delle potenze occidentali nel far fallire i principi affermati a Potsdam, finalizzati alla creazione di una Germania unita, democratica e pacifica che realizzasse finalmente gli ideali dei patrioti che avevano osato sfidare il regime nazista e che avevano pagato con indicibili sofferenze questa scelta.  Gli interessi dei governi occidentali e dei grandi monopoli erano prevalsi nell’intento di fare della Germania Occidentale un bastione contro l’Unione Sovietica e il comunismo.


La Germania Orientale si costituì in Repubblica Democratica Tedesca solo nel 1949 e in essa fu possibile gettare le basi di una società democratica, ispirata alla giustizia sociale e alla fratellanza tra i popoli.

 

4

 

Nell’impossibilità di farlo nello spazio di un articolo, rimandiamo all’opera più volte citata[22] per una rassegna delle forme della repressione e della Resistenza nei paesi europei occupati dai nazisti e dai fascisti durante la seconda guerra mondiale, in presenza o meno di governi collaborazionisti. Ci soffermeremo in questa ultima parte del nostro scritto sulle specificità della situazione nel nostro paese ed in questo quadro sul ruolo dei deportati politici.


In Italia si ebbero due centri di raccolta e di smistamento per le deportazioni nei campi di sterminio in Germania o nelle zone occupate dai nazisti: Borgo San Dalmazzo (Cuneo) e Fossoli di Carpi (Modena). Un lager delle SS fu allestito nella Risiera di San Sabba (Trieste), nella zona sottoposta ad amministrazione militare tedesca, dove funzionarono i forni crematori.[23]


Su 44.000 italiani deportati nei campi, 8382  deportati politici  furono uccisi o fatti morire per gli stenti e per la fatica dei lavori forzati.[24] A loro, contrassegnati dal triangolo rosso, nella giornata della memoria, non viene dedicata alcuna celebrazione particolare. Eppure essi rappresentavano nei campi la parte più cosciente della rivolta contro il fascismo, li animava non solo la disperata volontà di sopravvivere, ma la consapevolezza di aver fatto una scelta giusta e li sosteneva la speranza e la volontà di costruire una società radicalmente diversa. Come nella Resistenza armata di cui parleremo fra poco, i detenuti politici antifascisti e soprattutto comunisti, che venivano dall’esperienza della clandestinità, dell’esilio, della guerra di Spagna, del confino e delle carceri fasciste, portarono in sé, pur nel bestiale regime dei campi di concentramento la concezione della dignità umana e della solidarietà.


In quei campi, in cui ci si batteva per una carota, «… ho, nella mia mente, dei ricordi stupendi di solidarietà, quando (…) al fratello morente si dà l’ultimo pezzo di pane perché possa avere ancora un quarto d’ora di vita; quando i compagni, i comunisti in particolar modo, organizzano tra loro il “collettivo”, sono costretti, sono obbligati (è un obbligo che si assumono tra loro) a versare nel collettivo tutto il pane, tutta la zuppa che hanno e a ripartirli fra i vari compagni, in modo che chi ha di più possa farne beneficiare gli altri.»[25]


Ma queste cose non si vogliono ricordare.
Nell’ondata di criminalizzazione dei comunisti, non si deve ripercorrere la genesi della Resistenza e dell’insurrezione popolare.

«Non abbiamo avuto tuttavia – lo abbiamo detto altre volte – né a Milano, né in nessun’altra località il fenomeno che talvolta oggi si ama idealizzare, di un paese che al momento dell’invasione tedesca insorge, spezza ogni barriera frapposta da vent’anni di dittatura, prende le armi contro lo straniero e i traditori fascisti. […] Non vi fu affatto la corsa spontanea, la gara ad arruolarsi nelle formazioni partigiane e le difficoltà da vincere non erano poche, specialmente all’inizio. Il paese era occupato dai tedeschi e si sapeva di quali armi e di quale ferocia fossero dotati. Essi disponevano di tutto e noi di nulla. Senza basi di operazioni, senza armi, non soltanto senza carri armati, ma senza fucili, senza pistole…senza mezzi per cominciare ad alimentare questa guerra. […]. Il farlo sembrava una pazzia, e difatti molti ci diedero dei pazzi.»[26]


Quei “pazzi” erano i quadri del Partito Comunista Italiano, l’unico partito che durante il regime fascista aveva conservato un centro interno. I suoi quadri entravano clandestinamente in Italia,  facevano la spola tra la direzione all’estero e i gruppi di militanti rimasti nel Paese introducendo la stampa e la propaganda illegale, ritessendo le fila del Partito e del movimento sindacale disciolti dal regime fascista.


«…Ma noi restiamo in Italia, noi lavoriamo in Italia perché noi siamo il partito della classe operaia italiana e la classe operaia italiana non è in Francia, in Cina, in Australia, ma è in Italia. Noi restiamo in Italia, lavoriamo in Italia perché neghiamo che l’abbattimento del fascismo possa verificarsi all’infuori dell’intervento delle grandi masse lavoratrici e della direzione operaia di questo intervento.»[27]


Era stata una scelta giusta, che fu seguita solo dopo parecchi anni da altri movimenti antifascisti che si convinsero della necessità di riprendere la lotta organizzata in Italia.[28] Una scelta che pose le premesse del ruolo fondamentale che svolse il PCI, nel quadro del CNL, nel trasformare i gruppi iniziali di sbandati, che si erano dati alla macchia dopo l’8 settembre ‘43 per sottrarsi al reclutamento nell’esercito della Repubblica di Salò e per scampare ai rastrellamenti tedeschi, in distaccamenti, brigate e infine in un esercito partigiano.


«Si sa che i partigiani italiani furono per circa la metà dei loro effettivi di combattimento inquadrati nelle Brigate d’assalto Garibaldi; quanto ai gappisti, cioè agli audaci terroristi [sic! Evidentemente Spriano non dava al termine l’odierno significato demonizzante. Ndr.]  componenti i Gruppi d’azione patriottica, è universalmente riconosciuto che essi erano, nella misura dell’80-90% comunisti, senza dire della direzione delle lotte e degli scioperi della classe operaia. Ebbene, un esercito alla macchia di decine di migliaia di uomini venne suscitato e poi organizzato e condotto al combattimento da tale quadro comunista provato da dieci, quindici, venti anni di milizia nella clandestinità, in prigione, nell’emigrazione. Ecco il dato che pare una dimostrazione perfetta della famosa affermazione staliniana secondo cui “i quadri decidono di tutto”.»[29]


Di tutto questo non si vuole parlare
. Perché altrimenti bisognerebbe ricordare che le attuali correnti  revisioniste e reazionarie che vanno dalla criticaalla “retorica” della Resistenza alla sua denigrazione, dalla comprensione per i “ragazzi di Salò” alla condanna per l’esposizione del cadavere di Mussolini e dei suoi gerarchi a piazzale Loreto, non sono nuove, che la denigrazione e la criminalizzazione della Resistenza sono cominciate molto tempo addietro,   dallo scioglimento delle formazioni partigiane, dall’esautorazione del CLN, dalla restaurazione del potere dei monopoli capitalisti e delle forze politiche che li rappresentano. Tendenze reazionarie che, già in atto dal 1947, si fecero  tanto più marcate dopo le elezioni del 18 aprile 1948, quando con ogni mezzo propagandistico, terroristico, di corruzione e con l’appoggio del Vaticano e degli Stati Uniti, la Democrazia Cristiana conquistò la maggioranza del Parlamento e la direzione del governo del nostro  paese.


Il quadro più completo della criminalizzazione della lotta partigiana, avvalorato da una puntuale documentazione, fu disegnato e denunciato con forza  da Pietro Secchia nel suo intervento al Senato del 28 ottobre 1948, a cui rimandiamo per la completezza dell’informazione.[30]


Ne riprendiamo i punti più salienti. Pietro Secchia esortò innanzi tutto i parlamentari che sedevano sui banchi del governo ad assumersi la responsabilità degli ordini emanati dal CLN all’indomani della Liberazione, firmati dai rappresentanti di tutti i partiti che ne facevano parte.


Vale la pena, per rinfrescare la memoria degli smemorati e per informare i più giovani, di riportare per intero il decreto emanato, nella prefettura retta da Riccardo Lombardi, dal CLNAI (Comitato di Liberazione per l’Alta Italia), come primo suo atto, al momento dell’insurrezione vittoriosa e della Liberazione.


«Il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, delegato del solo governo legale italiano, in nome del popolo e dei Volontari per la Libertà, assume tutti i poteri di amministrazione e di governo per la continuazione della guerra di Liberazione al fianco delle Nazioni Unite, per la eliminazione degli ultimi resti del fascismo e per la tutela dei diritti democratici. Gli italiani devono dargli pieno appoggio. Tutti i fascisti devono fare atto di resa alle autorità del Comitato di Liberazione Nazionale e consegnare le armi. Coloro che resisteranno saranno trattati come nemici della patria e come tali saranno sterminati. (La sottolineatura è redazionale).

Firmato: il CLNAI. Dal palazzo della Prefettura 26.4.1945. Luigi Longo (Gallo) del Partito Comunista Italiano, Emilio Sereni del Partito Comunista Italiano, Ferruccio Parri del Partito d’Azione, Leo Valiani del Partito d’Azione, Achille Marazza del Partito della Democrazia Cristiana, Augusto De Gasperi del Partito della Democrazia Cristiana, Giustino Arpesani del Partito Liberale Italiano, Filippo Jacini del Partito Liberale Italiano, Rodolfo Morandi del Partito Socialista di Unità Popolare, Sandro Pertini del Partito Socialista di Unità Popolare.»[31]


I firmatari di un decreto di tale vigore, diramato in decine di migliaia di copie, ad un popolo in armi - denunciava Secchia - devono assumersene la responsabilità e difendere i partigiani che giustiziarono i fascisti, le spie, coloro che avevano collaborato con i nazisti per perpetrare i più efferati delitti. Al contrario, i partigiani venivano incriminati, arrestati, e detenuti illegalmente    nelle questure e nelle caserme dei carabinieri, dove venivano sottoposti a sevizie e torture e perfino portati a scavare le fosse dove erano seppelliti i repubblichini giustiziati. Che non si trattasse di casi isolati, lo dimostrava l’alto numero di partigiani inquisiti e incarcerati per lunghi periodi. Nella sola provincia di Modena su 18.411 partigiani combattenti in 18 mesi ne erano stati fermati e interrogati 3500, il 20%. L’accusa infamante era sempre la stessa: omicidio per rapina. Accusa da cui, nella stragrande maggioranza dei casi, gli imputati erano stati scagionati ancora in istruttoria o assolti per non aver commesso il fatto nei processi. Nessun risarcimento per le umiliazioni,  le sevizie e l’ingiusta detenzione subite dai partigiani ma, al contrario, i giornali reazionari, che si erano scatenati per infangarli, si guardavano bene dal render loro giustizia.


Pietro Secchia, fornendo nella sua requisitoria un elenco dettagliato degli arresti illegali, delle sevizie, delle torture e delle incarcerazioni,  accusava apertamente la politica del governo ed in particolare del Ministero dell’Interno, retto da Scelba di essere coscientemente responsabile della persecuzione dei partigiani.

Altrettanto ferma, sempre nel suo intervanto al Senato, la denuncia del parlamentare comunista in merito alla composizione delle forze di polizia. Dopo aver ricordato che i circa 5500 partigiani che erano stati immessi nelle forze di polizia dopo la Liberazione ne erano stati, uno ad uno, allontanati, perché ritenuti incapaci di imparzialità, Secchia denunciava che gli uomini “imparziali”, assunti dal ministro degli Interni erano, in numero notevole «… gli ex appartenenti alla polizia fascista, ex repubblichini, ex capi dell’OVRA. Vi sono cioè molte di quelle degnissime persone che per venti anni hanno fedelmente servito il regime di Mussolini, vi sono tra di loro i responsabili e gli organizzatori di innumerevoli delitti orditi e consumati durante il ventennio fascista…»[32]


Pietro Secchia concludeva il suo atto d’accusa contro il governo con la circostanziata denuncia della ricostruzione degli schedari per i politici, non solo nelle questure, ma con l’istituzione del Casellario Politico Centrale presso il Ministero degli Interni. Le voci più che eloquenti con cui venivano schedati i partigiani e i militanti comunisti e socialisti erano : “violenti, politici, capaci di atti di terrorismo”. Di tutto questo non si vuole parlare.

 

5

 

Abbiamo aperto questa rassegna di ricordi e di fatti con una data ufficiale, il 27 gennaio, stabilita per legge come “giornata della memoria”. Terminiamo con un’altra data a cui hanno dato molto rilievo, a direzione unica, i principali mezzi di comunicazione. Si tratta dell’istituzione, su proposta da Alleanza Nazionale, del cosiddetto “giorno del ricordo” da celebrarsi il 10 febbraio (data della ratifica del Trattato di Parigi del 1947, in cui l’Italia dovette cedere alla Jugoslavia gran parte dell’Istria) per commemorare la tragedia delle foibe e dell’esodo della popolazione italiana dai territori passati sotto la giurisdizione jugoslava. L’intento dei proponenti fascisti è scontato: contrapporre ai crimini nazisti (ridimensionati, se non addirittura negati) quelli dei partigiani di Tito e quindi del “regime” comunista instauratosi in Jugoslavia. In questo intento non manca una vena nostalgica di revanscismo per le “terre irredente”.


Quella che non dovrebbe essere altrettanto scontata è l’accettazione da parte del presidente della Repubblica e dei politici di ogni colore, dalla destra, al centro,  alla “sinistra” revisionista, di una storia dimezzata,  che parte dal 1945 e stende una cortina d’oblio sulla violenta opera di discriminazione e di snazionalizzazione delle popolazioni slave esercitata dai governi monarchico-fascisti nel periodo tra le due guerre e sull’invasione nazista e fascista della Jugoslavia nella seconda guerra mondiale, sulle stragi delle popolazioni slovene, sulle rappresagli delle camice nere, sulle deportazioni nei campi di concentramento, tra i quali quello famigerato di Arbe.

Questa patente falsificazione della storia finisce per avvalorare l’infame parallelismo tra nazismo e comunismo e, in nome della condanna della violenza “da qualunque parte provenga”, mette sullo stesso piano carnefici e vittime e propone una pacificazione senza verità e giustizia.

Non possiamo qui aprire un altro capitolo che ricostruisca l’altra metà della storia, strumentalmente occultata dalla maggior parte dei mezzi di informazione (con alcune lodevoli eccezioni[33]) divenuti ormai megafono della propaganda anticomunista. Dobbiamo rimandare alle numerose ricerche storiche che in questi anni hanno ricomposto il contesto storico in cui si sono svolti quei tragici eventi.

Abbiamo menzionato la data del 10 febbraio, che dovrebbe fare da contrappeso a quella del 27 gennaio, per sottolineare l’esortazione più volte ripetuta (vedi intervento di Fassino sul Corriere della sera del 9 febbraio 2006)  a costruire una memoria cosiddetta “condivisa” che, passando attraverso la condanna di tutti i “totalitarismi”, porrebbe le basi di un’Europa democratica in cui sarebbero sradicati il razzismo e le discriminazioni etniche e religiose. Insomma, l’immagine  di una società ideale, nella quale trionfi il rispetto dei “diritti umani” e nella quale i crimini e gli errori del secolo appena trascorso non si ripetano “mai più”.

Non possiamo meravigliarci che Fassino, Violante e soci, i quali hanno da tempo abiurato agli ideali comunisti, traggano questa morale dai fatti del passato. Ad altri che si dicono ancora comunisti vorremmo chiedere di astenersi da tanta ipocrisia e di guardarsi intorno, di imparare dalla realtà che li circonda qui ed ora.


Il sostegno diretto ed indiretto degli Stati dell’Unione Europea, l’avallo dell’ONU alle guerre scatenate dagli Stati Uniti in nome della pace e della democrazia, nella ex Jugoslavia prima, in Iraq poi, non hanno portato alla pacificazione di quelle zone, ma rinfocolato le divisioni etniche e religiose. Le stragi naziste si sono riprodotte nei bombardamenti “chirurgici” che hanno colpito le popolazioni civili, distrutto città, paesi, centri produttivi  e infrastrutture essenziali per la loro sopravvivenza. Le prigioni di Guantanamo e di Abu-Ghraib, i rapimenti dei presunti “terroristi”, il loro trasferimento clandestino in luoghi sconosciuti deputati alla tortura hanno fatto rivivere tutte le pratiche extra-giudiziarie, le sevizie, gli assassini extra-legali propri dei regimi nazi-fascisti. Non c’è bisogno di richiamarsi alla concezione  materialista e dialettica della storia, la realtà parla come un libro aperto.

La logica dell’imperialismo è quella insita nel modo di produzione capitalista: quella del massimo profitto. Per questo, i gruppi imperialisti statunitensi, europei, asiatici, ecc. e i loro governi sono pronti a fomentare guerre civili, ad esacerbare i conflitti etnico-religiosi nei paesi ex coloniali per meglio sfruttare le loro enormi ricchezze naturali; sono pronti a sobillare le rivendicazioni nazionaliste per creare il massimo di dipendenza economica e politica dei paesi già facenti parte dell’Unione Sovietica e del campo socialista; sono pronti ad assediare economicamente e a minare con ogni mezzo, incluso l’incitamento alla sovversione interna, l’integrità dei paesi “dell’asse del male”, cioè di quei  paesi colpevoli di rivendicare la propria sovranità nazionale e l’autonomia nelle relazioni economiche. Su di essi, su Cuba, sul Venezuela, sulla Corea del Nord incombe continuamente la minaccia dell’invasione armata. Per la Siria e soprattutto per l’Iran, i passi che preparano una nuova guerra d’aggressione sono già avviati ed ancora una volta con il tacito accordo dell’UE e con l’avallo di una ONU che, per impotenza e asservimento agli Usa,  assomiglia sempre più alla Società delle Nazioni, succube delle potenze imperialiste occidentali e fallita con lo scoppio della seconda guerra mondiale.

Per tutto questo, se è giusto ribadire la parola d’ordine: “Ora e sempre Resistenza”, se da un lato dobbiamo stroncare i rigurgiti nazi-fascisti, occorre essere coscienti che il nazismo e il fascismo non sono che la forma più estrema dell’ordinamento degli Stati capitalisti; occorre essere coscienti che resistenza oggi significa lotta antimperialista.


Nel nostro paese e in Europa significa lottare contro le forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalista, per il diritto al lavoro, alla casa, all’istruzione, alla salute, per la difesa delle libertà fondamentali. Su scala internazionale (questa volta detto a proposito, “globale”) significa lottare contro tutte le guerre imperialiste, significa schierarsi con determinazione a fianco della resistenza del popolo iracheno, del popolo palestinese e di tutti i popoli che lottano per la loro indipendenza e la loro liberazione. Nell’internazionalismo proletario rivive l’autentico spirito della Resistenza e soltanto nella vittoria contro l’imperialismo sono riposte le speranze di un futuro di pace e di giustizia sociale e la realizzazione degli ideali per cui lottarono e morirono i comunisti e gli antifascisti  nel mondo intero.

 

Adriana Chiaia

Milano, 13 febbraio 2006

 

Note


[1] Primo Levi, La tregua, Einaudi, Torino, 1963, pp. 9-11.

[2] Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Einaudi editore, 1954, p. 693.

[3] Ibidem,  p. 695.

[4] Ibidem, p. 696.

[5] Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. V. La Resistenza. Togliatti e il partito nuovo. Einaudi, Torino, 1975, p.78.

[6] Filippo Gaja, Il secolo corto. La filosofia del bombardamento. La storia da riscrivere, Maquis Editore, Milano, 1994, pp. 62 e seguenti.

[7] Pietro Secchia, “Lotta armata e lotta di massa a Milano” in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Leziomi e testimonianze, Feltrinelli, Milano, 1962, p. 610.

[8] Pietro Secchia, La resistenza accusa. 1945-1973, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1973, pp. 176-177.

[9] Per la genesi storica e la collocazione geografica dei campi di concentramento e di sterminio, vedi: Sterminio in Europa tra due guerre mondiali, opuscolo a cura della Associazione Nazionale ex deportati politici nei campi nazisti (ANED), Milano, via Bagutta 12. Riproduzione in formato ridotto di una mostra in 40 pannelli, a disposizione delle scuole e delle associazioni.

[10] William L. Shirer, Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi editore, 1962, p. 297.

[11] Röhm, comandante delle SA (Sturm-Abteilungen, Reparti d’Assalto), viene assassinato a Monaco-Stadelheim con circa 120 capi delle SA.

[12] Storia del Terzo Reich, Op. cit., p. 298.

[13] Ibidem, p.298.

[14] Ibidem, pp. 298- 299.

[15] Dati tratti da: Lettere di condannati a morte della Resistenza europea. Op. cit. pp. 240-241.

[16] Enzo Collotti, La Germania nazista. Dalla repubblica di Weimar al crollo del Reich hitleriano, Einaudi, 1962, p. 294. Opera a cui rimandiamo per un quadro più completo dell’opposizione al nazismo.

[17] Il secolo  corto,  Op. cit., p. 280.

[18] Ibidem, p. 280.

[19] Citato in: Il secolo corto, Op. cit., p. 281, a cui rimandiamo per maggiori dettagli.

[20] Ibidem, p.259.

[21] Ibidem, p.284.

[22] Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, Op. cit.

[23] Sulla particolarità di questo lager, sulle sue molteplici funzioni, tanto da essere definito “un microcosmo” delle diverse forme di repressione nazista, rimandiamo alla relazione “La deportazione dalla Risiera di San Sabba”, di Tristano Matta in: Atti del convegno di Trieste sulle tragedie del Confine orientale, convegno tenutosi in conclusione al XIII Congresso dell’ANED, Trieste, settembre 2004.

[24] Secondo i dati dell’Enciclopedia Italiana, Appendice II, voce “Campi di concentramento”.

[25] Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, Op. cit., Testimonianza di Piero Caleffi: “I campi di sterminio”,  p.435.

[26] Ibidem, Testimonianza di Pietro Secchia: “Lotta armata e lotta di massa a Milano”,  p.601.

[27] Palmiro Togliatti, “Il nostro partito” in Lo Stato operaio, n.3, marzo 1928. Citato in La Resistenza accusa, Op. cit., p.364.

[28] Dei 4671 condannati dal Tribunale speciale, 4030 erano comunisti, 13 socialisti, 42 appartenenti al movimento Giustizia e Libertà, 22 anarchici, 6 repubblicani, 323 antifascisti generici, 203 antifascisti e patrioti sloveni e 32 obiettori di coscienza per motivi religiosi. Ibidem, Nota a p. 360.

[29] Storia del Partito Comunista Italiano. V. La Resitenza. Togliatti e il partito nuovo, Op. cit., p.58.

[30] La resistenza accusa 1945 – 1973. Op. cit., pp. 66-96.

[31] Ibidem, p.70.

[32] Ibidem, p.84.

[33] Vedi, ad esempio, il manifesto del 10 febbraio 2006, che pubblica l’intervista chiarificatrice rilasciata da Galliano Fogar, storico dell’Istituto per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli - Venezia Giulia.