www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 26-01-07

da: Liberazione on line
 
Negazionismo e Stato

La verità storica non s’impone per legge
 
Angelo d'Orsi (Storico, docente dell'Università di Torino)
 
24 gennaio 2007
 
Ho firmato con convinzione l’appello promosso da tre colleghi (Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Enzo Traverso), contro la proposta del ministro Mastella volta a dichiarare reato il negazionismo, e dunque a perseguirne i teorici penalmente. Mesi or sono, in occasione dell’arresto in Austria di David Irving, l’esponente forse più dignitoso del negazionismo (nel suo caso, dopo molte capriole, si deve parlare forse di “riduzionismo”), avevo avviato, su “HM”, notiziario on line dell’Associazione Historia Magistra ( HYPERLINK “http://www.historiamagistra.org” www.historiamagistra.org), un dibattito tra studiosi, interpellandoli proprio sul tema della risposta giudiziaria al lavoro storiografico, e pubblicistico che giungeva alla negazione dell’Olocausto perpetrato dai nazisti nella Seconda Guerra Mondiale. Ebbene, quasi tutti gli intervenuti (molti dei quali oggi firmano l’Appello contro la proposta Mastella), si dichiararono fervidamente contrari all’arresto dello storico britannico, pur ribadendo tutti la loro più ferma condanna di non solo del negazionismo, ma di ogni revisionismo oltranzistico e “rovescistico”. Colgo ora l’occasione per ribadire i punti essenziali di quella discussione, ovviamente dal mio punto di vista, che è, però, largamente condiviso. Ma naturalmente una premessa si impone. Di che cosa parliamo, quando parliamo di “negazionismo”?
 
Il recente raduno di Teheran ha attirato l’attenzione su un fenomeno finora rimasto ai margini del dibattito politico, avendo posto soltanto nella storia della storiografia e delle ideologie contemporanee. Irrilevante sul piano scientifico, il negazionismo ha assunto, anche mediaticamente, un peso sul piano politico-culturale: insomma, non si può fingere che non esista, e occorre tenerlo a bada. Ma come? L’ultimo episodio – per ora – del “caso Irving” – ha costretto alcuni studiosi a scendere in campo per ribadire che non si può reagire con il tribunale penale a operazioni che debbono essere sanzionate invece, severamente, dal tribunale storiografico.
 
Che cosa nega, il negazionismo? Esso è una forma estrema del revisionismo, il cui obiettivo è scardinare verità acquisite nella storia, che altro non sono che le verità accertate dalla storiografia, attraverso un lavoro plurisecolare, fondato su metodi condivisi, uno statuto scientifico e tecniche che vengono via via perfezionate. Come il rovescista si dà l’obiettivo (che ha un significato innanzi tutto commerciale, e in subordine politico-ideologico) di rovesciare verità assodate, per fare colpo, vendere copie dei propri libri, e finire in prima pagina, e contribuire, magari, a un’azione politica volta a delegittimare chi viene individuato come “avversario”; come il revisionista si pone non il compito di mostrare quel che la Storia nasconde nelle sue ampie viscere, ma di “dimostrare” i propri punti di vista, programmaticamente volti a mettere in discussione le verità che non piacciono, in una linea nella quale il significato politico prevale su quello storiografico; così, il negazionista nega per partito preso, mosso da fini ideologici, direttamente politici, con un forte connotato decisamente razzista e, specificamente, antisemita.
 
Revisionismo estremo, rovescismo e negazionismo non si fondano su scoperte documentarie, o su problemi autentici che l’accesso a eventuali nuove fonti pongono al ricercatore: essi perseguono un fine che nulla ha a che fare con la verità e con le pratiche volte al suo accertamento. In particolare, i negazionisti vogliono contestare, sulla base di arzigogolati e capziosi ragionamenti, la verità dei campi di sterminio: ossia, la pratica “scientifica” e “industriale” di eliminazione sistematica attuata dai nazisti contro gli Ebrei (e Sinti e Rom; e Slavi, omosessuali, Testimoni di Genova, “comunisti”…). Una verità accertata grazie a migliaia di documenti e testimonianze, viene derubricata a una diceria, a una grandiosa mistificazione, o nella migliore delle ipotesi a una “esagerazione”.
 
Nacque nella Francia del Dopoguerra, il movimento negazionista, sulla base di spunti di intellettuali filofascisti quali Maurice Bardèche e Robert Brasillach (condannato a morte per collaborazionismo con i nazisti), che non negavano l’esistenza dei lager, ma affermavano che le morti di prigionieri erano dovute a cause “naturali”, e ancora più all’arrivo dei liberatori russi (si sa che Auschwitz fu appunto liberato dall’Armata Rossa). L’“inventore” del negazionismo fu tuttavia un altro francese, Paul Rassinier, che aveva militato a sinistra e, addirittura, era stato nei campi di concentramento tedeschi, ma che, cercò di attribuire ogni responsabilità all’Unione Sovietica, minimizzando la pratica genocida nazista, arrivando infine a negarla.
 
Ecco la Shoah diventare, nei suoi libri, un po’ alla volta, “un’impostura”.
 
Non varrebbe la pena di confutare i seguaci di Rassinier; ma come dicevo il negazionismo sta diventando un fenomeno non irrilevante. La risposta legislativa è quella giusta per ostacolarne la diffusione? Ribadisco il mio no. Ma non solo perché la libertà di espressione deve rimanere intatta, finché si tratti di idee; e neppure basta ricordare che la persecuzione degli Irving ne fa degli eroi proprio di quella libertà, con un effetto esattamente opposto a quello perseguito. Il no, come si evince dal manifesto contro la proposta Mastella, a cui facevo riferimento, è soprattutto connesso a un fatto: non ci può essere un’autorità (politica, giudiziaria, mediatica…) che decide la Verità della Storia. La sola auctoritas è quella che promana dalla comunità degli studiosi, in un lento lavoro collettivo di costruzione della conoscenza, a cui ogni singolo, ogni generazione, porta il suo contributo, in un incessante lavoro di “revisione”, sulla base di nuove fonti, di tecniche perfezionate, di domande nuove a fonti già note. La conoscenza storica, per tal via,“non facit saltus”, di regola: procede piuttosto per accumulazione, correzione, integrazione. Soltanto la comunità degli studiosi, in tale paziente opera edificatoria (che implica anche le demolizioni e le ricostruzioni “ab imis”, in casi estremi), è deputata a verificare la validità delle acquisizioni dei singoli, censurandole quando scorrette, imprecise, errate; accettandole quando in linea coi crismi scientifici della ricerca. Aggiungo che la mobilitazione volta combattere il negazionismo implica una battaglia in difesa del metodo storico, e contro l’invasiva pseudostoria che ci viene ammannita nell’eterno talk show televisivo, in cui tutti i fatti della Storia sono buttati nel tritacarne della chiacchiera, e trasformati in “opinioni”. Tutte equivalenti, tutte legittime allo stesso grado, perché “de minimis non curat”, il conduttore di turno: e le cose minime per i rivenduglioli di pseudostoria sono proprio i punti essenziali della pratica storiografica: metodo, tecniche, rigore scientifico.
 
Pur sapendo che in Europa esistono situazioni assai differenziate, e che la memoria del “passato che non passa” assume pesi diversi in paesi diversi (il che spiega legislazioni come quella austriaca che ha portato in carcere Irving), la linea di fondo da cui non si può deflettere è che non occorrono leggi per imporre la Verità. Le conseguenze possibili sono inquietanti: come non pensare a un “antinegazionismo” che diventa religione politica di Stato? Per tal via, scriveva Enzo Traverso, «potrebbe conoscere la stessa triste parabola conosciuta dall’antifascismo, trasformato in ideologia di Stato nei paesi del blocco sovietico. La legittimità dell’antifascismo è stata così distrutta quasi completamente. Se invece le leggi antinegazioniste non si basano su un principio generale, ma prevedono soltanto un’eccezione relativa all’Olocausto, rischiano allora di suscitare un’incomprensibile discriminazione o addirittura una nociva “concorrenza” tra le memorie delle violenze del passato, tra le vittime o i loro discendenti…» (nel dibattito sul “Caso Irving”, in “HM. Notiziario di Historia Magistra”, n. 9, 2006).
 
Sarebbe, al contrario, utile che la Politica facesse un bel passo indietro rispetto al lavoro della Storiografia; e, in un’Italia sovraccarica di usi (e abusi) politici della Storia, il ceto parlamentare e di governo si occupasse della corretta amministrazione dello Stato. Lasciando a chi di dovere il compito di produrre cultura, di fare ricerca, e di combattere, con le armi proprie – metodo, metodo e ancora metodo – le forme di pseudoconoscenza là dove esse si manifestano. Ministro Mastella, ci lasci lavorare, per cortesia!