www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 13-03-07

La resistenza, il PCI e il ruolo delle masse nella ricostruzione intellettuale e morale del Paese

 

di Gianni Fresu

 

In occasione dei preparativi per formare l'opinione pubblica alla guerra in Iraq, una delle argomentazioni più ricorrenti a sostegno della posizione bellicista anglo-americana, faceva affidamento sul ruolo di liberatori e esportatori di democrazia che questi eserciti alleati avrebbero svolto sin dalla seconda guerra mondiale, e dunque sull'infinita riconoscenza che gli europei, e gli italiani in primo luogo, dovrebbero a questa progenie armata di liberatori dei popoli dai regimi autoritari. Questa argomentazione a sua volta, si basava sull'orientamento prevalente nella storiografia revisionista, che tende a considerare la liberazione dal nazifascismo come un'opera esclusiva dell'intervento anglo-americano nel secondo conflitto mondiale, quasi che il peso dell'offensiva dell'Armata Rossa - che seppellì il regime nazista sotto le macerie del Reichstag, consentendo alle truppe alleate, per un lungo periodo impantanate sul fronte occidentale, di riprendere l'avanzata, - e della lotta di liberazione nazionale - che riuscì a liberare con le proprie sole forze gran parte dell'Italia settentrionale prima dell'arrivo dei liberatori- fosse trascurabile o per meglio dire ininfluente.

 

Tralasciando, per sole ragioni di tempo, di occuparci dell'importanza dell'Unione Sovietica nella liberazione dal nazifascismo, dato che solo questo argomento meriterebbe una relazione a parte, con questo mio intervento vorrei provare a svolgere qualche riflessione sul ruolo della Resistenza, del PCI e della partecipazione popolare, nello sviluppo di questa grande ed epica pagina della storia d'Italia, all'interno della quale assume importanza e merita di essere indagato, proprio l'atteggiamento assunto dagli eserciti alleati nei confronti dell'Italia. Essendo la mia attenzione incentrata sul ruolo del Partito comunista, in questa relazione farò più volte riferimento alle riflessioni di alcuni dei suoi dirigenti più rappresentativi negli anni della Resistenza.

 

Tra questi, Pietro Secchia e Filippo Frassati si sono occupati di raccogliere tutte le informazioni e i documenti relativi ai rapporti tra alleati e Resistenza utilizzando non solo gli archivi del CLNAI, dell'Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, dell'Istituto Gramsci, degli Istituti storici della Resistenza, ma anche delle collezioni del Foreign relation of the United States tra 1939 e 46, oltre a numerose lettere, memorandum e note di corrispondenza tra i rappresentanti diplomatici e militari delle forze alleate e i principali dirigenti del CLN.

 

In questo studio hanno trovato ampi riscontri alcune tesi - sostenute da vari storici e militari che si sono occupati della questione negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto - le quali concordano nel ritenere che gli alleati, al di là delle dichiarazioni ufficiali, avessero obiettivi ben diversi da quelli della Resistenza, poiché, in ultima analisi, intendevano mantenere l'Italia nella condizione di paese vinto, costretto alla resa senza condizioni; un paese a sovranità limitata posto sotto uno stretto protettorato anglo-americano. Ci si potrebbe aspettare che questo atteggiamento degli anglo-americani [o di una loro parte significativa] fosse dovuto alle paure nei confronti delle componenti di sinistra dell'antifascismo e dell'intervento popolare, ed invece dalla lettura di questi documenti emerge che i propositi iniziali degli alleati prescindevano da qualsiasi valutazione su quale sarebbe potuta essere la nuova classe dirigente in Italia, ed erano dovute solo a ragioni di controllo strategico politico per gli equilibri post-bellici.

 

Per questa ragione gli alleati da principio furono contrari alla costituzione di un esercito italiano di liberazione e cercarono di ostacolare e frenare il movimento partigiano. Questa divergenza di obiettivi tra Resistenza ed alleati, trovò la sua espressione nella strategia militare perseguita da questi ultimi, che non favorì assolutamente il rafforzamento della lotta partigiana, nel timore che l'Italia si trovasse poi nella situazione di rivendicare condizioni di pace più favorevoli in quanto nazione auto liberatasi dal nazifascismo.

 

Ma oltre all'atteggiamento inizialmente non certo favorevole degli alleati, i problemi che il nascente esercito di liberazione nazionale dovette superare furono anche altri. Va infatti ricordato che il compito di far accettare alle diverse componenti dell'antifascismo l'esigenza della Resistenza e dell'insurrezione popolare, fu estremamente complesso e dovette superare numerose difficoltà, perché i vecchi gruppi dirigenti liberali e cattolici che si ponevano al di fuori del fascismo, non accettarono mai fino in fondo tale necessità, e perché nelle loro prospettive la professione di antifascismo non andava oltre il porsi come semplice alternativa al vecchio personale politico fascista, nella rappresentanza di quegli stessi interessi economici e sociali che il fascismo aveva tutelato nel corso del ventennio.

 

Tra i protagonisti assoluti nell'organizzazione della lotta di liberazione nazionale, Luigi Longo ebbe modo di ritornare più volte su quella esperienza con diversi articoli e saggi che risultano estremamente utili per ricostruirne gli aspetti essenziali. Questi scritti ci confermano quanto, ciò che dominò più di ogni altra cosa l'operare dei gruppi dirigenti liberali e cattolici, fu la paura dell'intervento diretto delle grandi masse popolari nel processo di liberazione nazionale. Quando poi questo intervento di massa, nonostante tutto, si determinò comunque, fecero ogni sforzo per ridimensionarlo.

 

Nello spiegare questa posizione, e rifacendosi ad un articolo di Marx, Longo avanza un interessante parallelo tra il Risorgimento e il 1943. Nel commentare la disfatta dei Piemontesi a Novara nel 1849 Marx [1] aveva sottolineato come l'errore più grosso compiuto dai Savoia fosse stato proprio quello di aver contrapposto agli austriaci solo un esercito regolare, mentre la storia dimostrava che un popolo impegnato in un processo di liberazione nazionale teso all'indipendenza, se voleva ottenere dei risultati, doveva sapersi servire anche di mezzi che vanno ben oltre la guerra ordinaria, come l'insurrezione di massa, la guerra rivoluzionaria, la guerriglia. Questi per Marx erano infatti gli unici mezzi con i quali un piccolo popolo poteva sperare di vincere un esercito più forte e meglio organizzato. Ma i Savoia ebbero paura di coinvolgere le masse in questo processo e piuttosto che allearsi con il popolo preferirono concludere la pace con il loro peggior nemico, «ma uguale per origine».

 

Allo stesso modo, un secolo dopo, i rappresentanti della borghesia antifascista aspiravano alla liberazione dell'Italia dal nazi-fascismo, ma a patto che questo compito venisse assolto dalle truppe regolari dell'esercito alleato, non certo da una guerra di popolo. Ben rappresentativa di quest'aspirazione risulta una testimonianza di Luigi Longo: «De Gasperi, dopo il 25 luglio, osò persino sostenere che i ricostituiti partiti democratici non dovevano ancora compromettersi assumendo responsabilità di governo. Bisognava, disse, lasciare ai superstiti responsabili e complici della catastrofe il compito di liquidare la pesante eredità fascista. Con quest'animo, dopo si alimentò l'attesismo, cioè la posizione di coloro che aspettavano che gli alleati, con le loro divisioni, venissero a liquidare il risorto fascismo e l'occupazione tedesca e investirli del governo della nazione»[2].

 

Fu merito principale dell'azione dei comunisti, se i democristiani e i liberali accettarono e a malincuore, l'intervento diretto delle masse nella resistenza, e si schiodò l'opposizione antifascista da quello stesso attesismo inerte che contraddistinse l'«Aventino».

 

Ma le difficoltà per l'avvio della Resistenza non riguardavano solo la parte moderata dell'antifascismo. Nel suo saggio scritto sul numero speciale di Quaderni di Rinascita[3], pubblicato in occasione del trentesimo anniversario del PCI, Mario Alicata rileva che anche nei i vari tronconi socialisti, tra gli azionisti, nel gruppo Democrazia del Lavoro e via dicendo, regnava un disorientamento che induceva questi gruppi più all'attesa che all'azione, ad atteggiamenti settari che mal si addicevano alla situazione. Pertanto le proposte di costituire un fronte unitario ampio, comprendenti anche monarchici e cattolici, dovettero scontrarsi con la pregiudiziale repubblicana e furono inizialmente osteggiate.

 

Per quanto riguarda invece la destra dello schieramento antifascista, anche Mario Alicata sottolinea come i cattolici, che subivano attraverso il Vaticano la direzione degli anglo-americani, opposero una strenua resistenza alla possibilità che l'azione passasse al popolo in un quadro di unità d'azione fra tutte le forze antifasciste; i liberali a loro volta, forse anche nella speranza di poter salvare la monarchia, non rifuggivano dall'idea del Fronte nazionale, ma da un lato subivano i rigurgiti di anticomunismo di alcuni dei loro leader storici come Benedetto Croce, e dall'altra si opponevano con ogni forza all'idea di attribuire un ruolo centrale alle masse nella lotta di liberazione nazionale.

 

Già nei primi comitati delle opposizioni da cui scaturirono i CLN, i rappresentanti di quelle forze borghesi, pur ponendo nuovamente in discussione l'opportunità di far partecipare i comunisti e le masse, dovettero capitolare di fronte alla capacità politica, organizzativa e di mobilitazione del PCI che venne riconosciuta in tutti gli organismi sia politici che militari, quale rappresentate più autorevole e influente delle forze popolari.

 

Rispetto alle voci sempre più insistenti di un intervento del Re e dell'Esercito, Il PCI pensava che le forze antifasciste non dovessero opporsi ad un colpo di Stato teso a rovesciare Mussolini, anche se questo tentativo nasceva da quegli stessi ambienti che ne avevano reso possibile l'ascesa, ma riteneva altresì che l'azione spettasse alle forze antifasciste e alle masse popolari.

 

Nonostante il fatto che negli anni della clandestinità il PCI avesse gran parte dei suoi migliori uomini al confino o in carcere e disponesse di forze molto limitate, e nonostante che la repressione poliziesca scompaginasse di continuo le fila dell'organizzazione clandestina, il PCI a partire dal 1941 seppe compiere passi estremamente importanti, come stava a dimostrare la clamorosa ondata di scioperi che il partito scatenò nel marzo 43, contribuendo a smuovere certi atteggiamenti attesisti. Scriveva Alicata: «gli scioperi di marzo, infatti, costrinsero la monarchia e i gruppi reazionari borghesi a rompere gli ultimi indugi e ad agire, facendo loro comprendere come il movimento popolare antifascista avesse oramai raggiunto un tale grado di maturità e robustezza che non si poteva più considerare il problema italiano come risolvibile nel momento e nei modi da loro ritenuti più opportuni»[4].

 

Ma le ragioni del successo dell'azione comunista andavano ricercate anche nell'approccio dinamico che il PCI seppe assumere rispetto alla costruzione della Resistenza - che Longo ha esemplificato efficacemente con il principio «il moto si prova camminando e la lotta si elabora combattendo» - che lo tenne lontano dall'illusione di poter preparare in segreto l'esercito di liberazione nazionale e di farlo venir fuori nella fatidica ora x[5], così come lo tenne lontano da tutte le dissertazioni di scuola sull'arte militare. Questo approccio del resto, era anche il frutto dell'esperienza delle brigate internazionali in Spagna che fu determinante nel formare, tanti quadri pronti alla lotta armata e nel comprendere le necessità tattiche e strategiche di una guerra di guerriglia[6]. Ma oltre a questi fattori ciò che si rilevò più importante, nello sviluppo della lotta di liberazione nazionale, era stato che il PCI, pur combattendo risolutamente contro tutti coloro che frapponevano intralci o tentavano di imbrigliare la Resistenza con l'attesismo, lottò vivacemente per collegare le diverse formazioni nate agli inizi del 44 sul terreno della Resistenza, sulla base di quel comune denominatore che univa tutti i gruppi politici antifascisti. I comunisti italiani lottarono tenacemente «per l'unità d'azione patriottica; beninteso: per l'unità dell'azione, non dell'attesa».

 

È a partire da queste premesse che Longo registra un progresso impetuoso della Resistenza italiana tra l'8 settembre 43 e il marzo 44: così se nelle prime settimane successive all'8 settembre tra le file dell'opposizione regnavano ancora lo smarrimento, la confusione i contrasti, appena sei mesi dopo, la Resistenza aveva già assunto una estensione e ramificazione nazionale di massa, una organizzazione e una fisionomia che resterà sostanzialmente identica fino all'insurrezione.

 

Si partì dalle prime due Brigate Garibaldi nel novembre 43, e poi via, fino ad arrivare alle varie centinaia di nuclei, distaccamenti, divisioni, unità di manovra, gruppi di divisione ecc.; si cominciò con le forme più elementari della guerriglia e della organizzazione della lotta partigiana, facendo riferimento agli esempi della storia: «con i pochi mezzi a disposizione, ci proponevamo di dare l'impressione che migliaia di nemici erano sul posto, benché non se ne vedesse nemmeno uno; volevamo impegnare i tedeschi contro un nemico che, sempre in fuga, riappariva sempre, che era dappertutto e che non si vedeva mai, che attaccato si sperdeva nella massa del popolo, per riapparire immediatamente dopo, con nuove forze»[7].

 

Per Longo i partigiani dovevano portare le loro basi in sé, in modo tale che ogni operazione di guerriglia si concludesse con la sparizione del bersaglio. Proprio sulla base di questo principio si evitarono i grandi assembramenti iniziali [spesso composti più di sbandati che di combattenti] e si rifiutò anche l'idea iniziale di resistere sul posto, che rendeva «schiavi delle comodità e di alcuni accantonamenti», ma non appena le condizioni di sviluppo della lotta popolare e i livelli raggiunti dall'organizzazione militare lo consentirono, si procedette ad un'evoluzione sempre più elevata di organizzazione militare, senza però mai dimenticare che caratteristica della guerra partigiana è il movimento, non il presidio, è l'attacco, non la difesa. Come già accennato l'organizzazione della lotta di liberazione fece inizialmente riferimento ai vari esempi storici di guerra partigiana, ma alla fine la Resistenza italiana arricchì enormemente le esperienze del passato, giungendo a suoi tratti nuovi e caratteristici. Longo individua questi tratti in due aspetti principali: in primo luogo la Resistenza italiana seppe portare la guerriglia fin dentro le grandi città e tra le campagne densamente popolate, superando l'idea che la lotta partigiana può svilupparsi solo in luoghi scarsamente abitati e poveri di risorse e comunicazione, come i boschi e le montagne;

 

in secondo luogo - e qui sta la novità più significativa sulla quale è opportuno soffermarsi – la Resistenza in Italia si contraddistinse da subito per il suo carattere di massa, per la partecipazione delle grandi masse popolari sia nelle città industriali, come Milano, Genova e Torino, che nelle campagne. Questa innovazione fu probabilmente il più grosso risultato che il PCI poté raggiungere, perché seppe indicare con chiarezza, sin da principio, come già dalla partecipazione alla Resistenza delle classi subalterne si potesse avviare la ricostruzione nazionale su basi sociali e politiche completamente diverse non solo rispetto al fascismo, ma anche al regime monarchico-liberale tanto ingloriosamente crollato di fronte alla marcia su Roma. Questo processo di partecipazione collettiva e popolare alla lotta di liberazione nazionale, di cui il PCI fu indiscutibile protagonista, era stato uno dei principali pilastri su cui iniziò a strutturarsi la democratizzazione sociale del paese avviata con la Costituzione repubblicana, e al di là degli opportunismi di tanti intellettuali di corte, nessun revisionismo storico e nessuna stolta equiparazione tra vittime e carnefici, tra oppressi e oppressori, potrà mai cancellare questo dato storico.

 

Così nel rapporto politico presentato da Luigi Longo alla conferenza dei triunvirati insurrezionali del PCI, si indicava che all'interno della lotta di liberazione nazionale, la preoccupazione più forte dei comunisti doveva essere rivolta a comprendere la situazione delle masse popolari, i loro bisogni, le loro rivendicazioni più urgenti.

 

Se si intendeva ampliare quella partecipazione popolare alla Resistenza, di cui gli scioperi delle città industriali erano il miglior esempio, era necessario organizzare la combattività delle masse, renderle capaci di difendersi dalla fame, dal freddo dal terrore nazifascista.

 

Bisognava allargare le lotte economiche di operai, contadini, lavoratori in genere, fino a renderle movimento di massa, scioperi, manifestazioni di strada e per far ciò si dovevano far sorgere dappertutto ed in ogni categoria i comitati d'agitazione.

 

Ancora nel 1973 Longo ritorna sulla questione, affermando che per i comunisti fu da subito chiaro che, attraverso la Resistenza, si doveva aprire una strada nuova alla partecipazione delle masse popolari fino ad allora violentemente escluse dalla vita politica e dalla direzione del paese e tenute in un perenne stato di soggezione politica e sociale, e questa lotta per conquistare alla stragrande maggioranza del popolo quel ruolo che le spettava nella vita del paese, faceva tutt'uno con la decisa lotta verso quelle tendenze attesiste che intendevano mantenere le masse in quella condizione amorfa e disgregata di soggezione. L'atteggiamento disfattista, rinunciatario e attesista di una parte dello schieramento antifascista si spiegava proprio con la scarsa fiducia che essa aveva nei confronti delle masse.

 

Se al nord l'azione antifascista si misurava con la lotta armata e con un processo di profondo coinvolgimento delle masse, al sud la situazione era ben diversa. Lo stato di miseria e disorientamento era imperante, la condizione delle forze antifasciste a dir poco penosa e a tutto ciò si aggiungeva il fatto che, come si è già in parte visto, gli alleati avevano tutto l'interesse a mantenere l'Italia in quella condizione di prostrazione. Una serie di fattori, come la vergognosa fuga a Brindisi della casa Reale, il ritardo nella dichiarazione di guerra alla Germania, gli intrighi monarchici e la condotta militare assai strana degli alleati, sembravano concorrere alla precipitazione del paese nello sfacelo più completo.

 

In un altro saggio contenuto sul numero speciale dei Quaderni di rinascita, Velio Spano tratteggia con acutezza la condizione sociale del mezzogiorno dopo l'8 settembre: la fame, la mancanza di qualsiasi forma di sostentamento per le classi popolari, l'atteggiamento individualistico, ben esemplificato dal «si salvi chi può», che contraddistinse in blocco tutte vecchie le classi dirigenti meridionali; ma Spano si sofferma anche sull'atteggiamento degli alleati, quelli che oggi, ad ogni piè sospinto sentiamo definire come i nostri unici e soli liberatori: «gli alleati anglosassoni [scrive Spano] non nascondevano il loro disprezzo per gli alleati italiani e non riuscivano nemmeno a nascondere il loro desiderio che il caos continuasse a regnare. Finché l'Italia avesse continuato a vegetare allo stato molecolare, senza nessuna forza interna di coesione, gli alleati non si sarebbero trovati di fronte a una nazione partecipe di doveri e dei diritti di ogni popolo libero, ma ad un paese in isfacelo, esautorato e forzatamente docile. (…) gli anglosassoni, padroni in Italia, volevano mantenere il nostro paese fuori della comunità internazionale; desideravano soprattutto che l'Italia restasse [secondo una celebre definizione che in quel periodo Churchill diede dell'Italia] una caffettiera senza manico »[8].

 

Per questa ragione Velio Spano sostiene che gli alleati [pur fingendosi repubblicani gli americani, e monarchici gli inglesi] cercarono da un lato di approfondire il fossato tra la monarchia e il popolo e di aprire contraddizioni tra il governo Badoglio e il CLN, e dall'altra cercavano di paralizzare il movimento di liberazione nazionale. L'obiettivo era chiaro: esautorare le entità politiche che, in un modo o nell'altro, potevano concorrere a restituire un'autonoma soggettività all'Italia.

 

Oltre a ciò gli stessi gruppi dirigenti del CLN nel mezzogiorno si erano costituiti sulla base di una amalgama che Spano sintetizza nella «speranza astratta della successione collettiva al potere», ma che non aveva né una base programmatica comune per un governo del CLN, né una tattica idonea a raggiungerla.

 

In un simile contesto il Primo Congresso del CLN, tenutosi a Bari agli inizi del 44, fu un campionario di velleitarismi e ragionamenti opportunistici che mettevano spezzoni del vecchio modo intellettuale liberale insieme a esponenti cattolici residuati dal fascismo, socialisti riformisti inclini ai discorsi più estremistici con intellettuali azionisti ricchi più di ambizioni che di esperienza politica, il tutto nella confusione più assoluta sulle minime basi comuni per l'azione o le ipotetiche finalità da perseguire insieme. «A Bari c'era di tutto, fuorché il buon senso e in definitiva il Congresso non aveva fatto altro che approfondire il dissidio tra i CLN, il governo e il re, aveva reso più solido il dominio degli anglo-americani, aveva lasciato l'antifascismo più diviso di prima».

 

Si capisce da tutto ciò quanto fosse arduo il compito di mettere in campo una strategia della Resistenza in grado di superare tutti questi ostacoli e compiere un balzo in avanti, cosa che accadde con l'arrivo di Togliatti e l'enunciazione dei quattro punti che sono passati alla storia come la svolta di Salerno[9]. Sul ruolo di direzione politica svolto da Togliatti e sulla svolta di Salerno, che consentirono l'unificazione della lotta di liberazione nazionale, evitando di rinchiuderla in recinti minoritari, e che soprattutto evitarono esiti greci alla lotta partigiana italiana, sarebbe opportuno dedicare non solo un intero intervento, ma una vera e propria conferenza ad hoc, specie in anni come questi nei quali la figura di Togliatti è rappresentata con tratti caricaturali e grotteschi.

 

La lotta dei comunisti per l'allargamento della base popolare della Resistenza e la convinzione che solo a partire dal diretto coinvolgimento e dal protagonismo delle masse si sarebbe potuta determinare una reale trasformazione degli assetti sociali di dominio che da sempre imbrigliavano la società italiana, rappresentavano per certi versi la verifica concreta ad una lunga fase di elaborazione politica, che andava dalla grande stagione de L'Ordine Nuovo, alla riorganizzazione del partito delle Tesi di Lione, alle riflessioni di Gramsci sul blocco storico che dominava la società italiana contenuti nella Questione meridionale, alle indicazioni del VII Congresso dell'IC, che consentirono il superamento degli errori che il movimento comunista internazionale fece negli anni dominati dalla categoria del socialfascismo[10].

 

 Il cosiddetto miracolo del PCI - diventato proprio nel corso della Resistenza da piccolo partito minoritario grande partito di massa – era dovuto ad una linea politica che si nutriva di una lunga gestazione teorica e dalla sua attuazione nelle difficoltà della lotta clandestina.

 

Non è superfluo quindi ricordare, almeno brevemente, alcuni ragionamenti svolti da Gramsci sulla ricostruzione morale ed intellettuale del paese e sui limiti di un Risorgimento realizzatosi come una mera conquista regia, dato che le preoccupazioni delle élites conservatrici presenti anche in parte del fronte antifascista, in merito al coinvolgimento delle masse, segnarono nuovamente lo scontro non solo tra due concezioni politico-sociali opposte, ma piuttosto tra due blocchi sociali alternativi, quasi una prefigurazione dell'esplodere - a tratti anche violento - del conflitto tra capitale e lavoro in Italia nell'immediato secondo dopo guerra.

 

Per Gramsci una volontà collettiva nazionale-popolare e una profonda riforma intellettuale e morale, potevano infatti ottenersi solo con l’irrompere sulla scena delle grandi masse. In questo senso per Gramsci, Machiavelli intendeva la riforma della milizia, in questo senso i Giacobini incorporarono nella loro politica la questione agraria, in questo senso andava inteso il fallimento delle prospettive democratiche del Risorgimento italiano: «Tutta la storia dal 1815 in poi mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva di questo genere, per mantenere il potere economico-corporativo in un sistema internazionale di equilibrio passivo»[11].

 

Proprio per la mancata partecipazione delle masse al processo risorgimentale, proprio per la mancata formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, e dunque per lo svilupparsi delle dinamiche politiche, esclusivamente all’interno di ristrette élites, il Risorgimento assume, come processo storico, un valore paradigmatico per Gramsci anche sul piano ideologico. Così ad esempio tutta l’analisi del passato d’Italia, dall’epoca romana a quella risorgimentale e post-unitaria, nella storiografia italiana, era volta a trovare nel passato una unità nazionale di fatto, quindi a giustificare il presente con il passato storico. Questa operazione ideologica era dovuta alla necessità di fanatizzare i volontari della nazione, con le glorie presunte della storia d’Italia, compensando in questo modo le manchevolezze e i limiti di un Risorgimento realizzato da piccole élites borghesi, con la totale assenza delle masse popolari. Si era cercato cioè di sostituire, attraverso questa mitologia nazionale, l’adesione organica delle masse popolari allo Stato, che non vi fu, con la selezione di volontari di una nazione concepita astrattamente. Questo dimostra in sostanza che nessuno seppe cogliere il problema posto dal Machiavelli, cioè quello di sostituire i mercenari con una milizia nazionale, in modo da far subentrare l’elemento nazionale-popolare in alternativa al volontarismo, poiché il volontarismo rappresenta una soluzione equivoca e pericolosa quanto il mercenarismo.

 

In questo senso la Resistenza ha rappresentato probabilmente il completamento vero della stagione risorgimentale, perché se con il Risorgimento le masse più che contribuire all'edificazione del nuovo Stato lo subirono, con la Resistenza invece, i primi vagiti – purtroppo quasi subito soffocati – della nuova Italia repubblicana e antifascista che si veniva a delineare, erano contraddistinti da un protagonismo nuovo ed inedito delle masse, che per la prima volta nella storia d'Italia poterono assumere un ruolo nella creazione del nuovo Stato[12]. Come si diceva il PCI investì tutte le sue energie in questo enorme ed ambizioso progetto teso a fare emergere le masse da un'amorfa ed indistinta condizione politica, e ciò rese possibile lo sviluppo stesso della Resistenza italiana.

 

«Noi subito indicammo [sottolinea Longo] che la Resistenza, che la lotta partigiana non doveva essere solo vista come lotta armata, di formazioni militari, ma anche come lotta, resistenza delle grandi masse lavoratrici sul luogo stesso di lavoro, e come combinazione e fusione di queste varie forme di azione antifascista in un solo e grande movimento popolare di liberazione nazionale»[13].

 

Così, gli scioperi operai del marzo 1943 furono i primi assalti ad un regime già agonizzante, ma ancora in sella, e costituirono la premessa fondamentale al crollo del 25 luglio. Del resto- dopo un ventennio di oppressione e una guerra disastrosa - per Longo, erano le condizioni oggettive stesse, contraddistinte da condizioni di vita e lavoro delle masse intollerabili, ad indicare nelle classi subalterne e nei lavoratori la nuova classe dirigente della lotta di liberazione nazionale.

 

Ma se per i comunisti fu difficile fare accettare ai gruppi dirigenti democristiani e liberali la partecipazione delle masse alla guerra di liberazione, lo fu anche di più superare l'ostilità ideologica alle lotte operaie e del mondo del lavoro in genere, e se non si ottenne la solidarietà attiva di quei gruppi, quantomeno si riuscì a raggiungere una legittimazione politica di quelle lotte da parte del CLN, e questo bastò per consentirne lo sviluppo.

 

A buon diritto Longo rivendica che i grandi scioperi dell'inverno 43-44 costituirono la premessa più importante allo sviluppo della lotta partigiana nelle stagioni successive. Furono quegli scioperi, che riuscirono a paralizzare in varie fasi la stessa produzione bellica per le truppe nazi-fasciste, e smascherarono i veri fini delle proposte di istituzione delle commissioni operaie interne da parte della RSI - create al solo scopo di adescare e arruolare le masse operaie del nord – furono quegli scioperi a consentire il superamento delle difficoltà e incertezze iniziali, dando un nuovo slancio alla Resistenza antifascista, e ancora, fu solo grazie a quegli scioperi che la lotta di liberazione nazionale riuscì a porsi obiettivi più ambiziosi e si trasformò da fenomeno minoritario a lotta di tutto il popolo. Così già dalla primavera del 44, le tendenze rinunciatarie di quanti tra gli antifascisti intendevano temporeggiare in attesa degli eserciti alleati, erano state sconfitte e la liberazione nazionale era oramai un fenomeno popolare che non poteva essere ignorato.

 

A quel punto però l'obiettivo delle vecchie classi dirigenti presenti nell'antifascismo divenne un altro, limitare il più possibile il movimento popolare per evitare che, a liberazione avvenuta, si potesse determinare un radicale ricambio sociale delle classi dirigenti, con il pieno coinvolgimento dei lavoratori e delle masse popolari alla guida del paese. Si era cercato pertanto di evitare l'allargamento del movimento partigiano, dei CLN, degli organismi della Resistenza, osteggiando la nascita di entità politiche di autogoverno che dalla lotta sorgevano a livello di base e spontaneamente ad amministrare i territori insorti. Il PCI e i socialisti operarono invece in tutt'altra direzione, cercando di favorire sempre più la mobilitazione e la partecipazione di massa alla Resistenza, come pre condizione alla edificazione di una nuova democrazia in Italia, nella quale il popolo, in tutti i suoi strati e in tutti i suoi orientamenti, non fosse più soltanto oggetto ma parte attiva e dirigente della vita nazionale.

 

In tal senso si era affermato che il movimento popolare, l'insurrezione e lo sviluppo della resistenza creavano da se, quasi fisiologicamente, i propri organismi di autogoverno e che costituiva un grave errore il tentativo di arginarne l'evoluzione. «Noi eravamo per CLN che fossero non semplici strumenti di un organo centrale, burocratico e lontano, ma organismi di mobilitazione e di autogoverno delle masse, strumenti di democrazia diretta e immediata»[14]. Per questo il PCI lavorò per la creazione di comitati di lotta ovunque, sui posti di lavoro come nei quartieri, nelle fabbriche come nelle campagne, e sollecitò la creazione di vere e proprie giunte di governo che fossero non emanazione degli organismi centrali del CLN, ma delle reali forze attive locali, con il compito di amministrare a nome del CLN le zone liberate.

 

Longo fa notare che lo stesso tipo di conflitto con liberali e democristiani si era registrata agli inizi, nella definizione dei quadri militari e nell'assegnazione delle funzioni di comando: «noi volevamo che le forze, i quadri che si rilevavano nella lotta ne assumessero la direzione, sia in campo militare che politico; cioè, per noi, il rinnovamento della patria non era una semplice lustra, ma un'esigenza urgente. Per i massimi esponenti liberali e democristiani l'esigenza suprema era: innovare il meno possibile, mantenere il più possibile la continuità non solo giuridica, non solo formale, ma anche personale del vecchio apparato statale. Erano gelosi conservatori del passato, del vecchio personale, e dei rapporti di forza realizzati nel CLN»[15].

 

Per un altro dirigente comunista di primo piano come Celeste Negarville[16], il problema che stava di fronte all'antifascismo, vale a dire trovare un terreno d'azione comune tra tutti i gruppi e partiti antifascisti, giunse a soluzione solo quando la crisi della guerra e la prospettiva della disfatta avevano già dato una profonda spallata al regime fascista. Le ragioni di questo ritardo erano tante ma tra tutte anche Negarville indica la preoccupazione da parte delle forze più moderate dell'antifascismo per il ruolo che, a guerra cessata, avrebbero potuto assumere la classe operaia, le masse in genere e soprattutto il Partito Comunista. In questo si era determinata una continuità con le esitazioni timorose che, nel giugno 1924, fecero rifiutare al Comitato delle Opposizioni parlamentari la proposta di sciopero generale avanzata da Antonio Gramsci.

 

Tuttavia il PCI del 1943 non era più il piccolo partito del 1924 di cui le opposizioni aventiniane potevano permettersi di fare a meno, perché dopo le leggi speciali del 1926 il PCI fu l'unica organizzazione a porsi il compito di un'attività permanente ed organizzata nel paese e che, nonostante la repressione fascista, l'aveva mantenuta in piedi. Il PCI nel corso del ventennio fascista seppe ampliare il suo prestigio e i suoi legami di massa attraverso la lotta clandestina e nel momento del conflitto aperto con il regime agonizzante, non poteva essere messo da parte come era avvenuto nel quadro dell'Aventino.

 

Fatte queste considerazioni è però giusto sottolineare che all'interno della base democristiana e liberale non si registrarono le resistenze e le opposizioni che abbiamo visto nei loro gruppi dirigenti, e semmai a prevalere era l'impulso ad approfondire ed estendere l'organizzazione e l'unità d'azione dei comitati.

 

Ma a liberazione avvenuta tutti quegli elementi di origine liberale, democristiana o autonoma, che durante la Resistenza lavorarono per la stretta unità d'azione con comunisti e socialisti vennero emarginati e messi da parte. A liberazione avvenuta riemersero tra liberali e democristiani tutti gli elementi più reazionari e conservatori - che [come ricorda Longo] nel corso della resistenza preferirono rifugiarsi in Svizzera o nei conventi - e operarono per limitare al massimo le innovazioni democratiche che l'esperienza resistenziale aveva in sé, per riportare indietro le lancette della storia politica e sociale del paese al sistema pre fascista. Quando poi questi gruppi dirigenti, assunsero in via esclusiva il del governo nel paese, rinnegarono e gettarono fango su quella eroica stagione che riscattò l'Italia dall'ignominia del fascismo, e contemporaneamente fecero di tutto per non dare attuazione al risultato più fecondo di quella stagione, vale a dire l'avanzatissimo contenuto di democrazia sociale contenuto nella Costituzione repubblicana.

 

In occasione della ricorrenza del 25 aprile nel 1975, Luigi Longo ritornò sulla Resistenza con un articolo pubblicato su l'Unità[17], nel quale si ribadiva che la lezione di combattimento e unità di quella pagina storica, aveva lasciato un segno incancellabile, sulla cui base si erano poi sviluppate, nel corso di tutto il secondo dopoguerra, le grandi lotte di massa dei lavoratori, la vigilanza democratica, la mobilitazione popolare antifascista contro i propositi criminosi e golpisti da parte di quel grumo di interessi rappresentato dai poteri forti, espressione della parte più reazionaria delle classi dominanti italiane.

 

Quando Longo scrisse questo pezzo l'Italia viveva una delle fasi più nere della sua storia Repubblicana, con il pieno divampare della strategia della tensione, delle stragi di Stato, dei legami strettissimi tra apparati dello Stato e gruppi dell'eversione neofascista, con i piani di colpo di stato e i progetti dell'operazione Stay behind. Bene, per comprendere questa stagione nera, per Longo era opportuno ritornare alla frattura dello spirito unitario della Resistenza, al tradimento dei suoi ideali di rinnovamento democratico e progresso sociale, perché i gruppi che nutrivano ora sogni cileni per l'Italia erano quegli stessi che nel corso della guerra avevano ostacolato in ogni modo la nascita e lo sviluppo del movimento popolare di liberazione nazionale e che poi, a liberazione avvenuta, liquidarono rapidamente la stagione unitaria della Resistenza, innalzarono la bandiera dell'anticomunismo, diffusero a piene mani fango e menzogne sulla Resistenza partigiana. Così, con la prontezza degna del più efficiente servilismo, all'immediato indomani dell'enunciazione della Dottrina Truman del 2 marzo 1947, i gruppi conservatori e reazionari ruppero con la politica di unità popolare, indossarono nuovamente l'elmetto e arruolarono la Repubblica nata dalla Resistenza per una nuova grande crociata, la guerra fredda.

 

Nonostante tutto questo e nonostante il pesante intervento statunitense nelle vicende politiche del paese, il quadro costituzionale scaturito dalla lotta di liberazione nazionale ha consentito un enorme progresso sociale per i lavoratori e le masse escluse da qualsiasi tipo di diritto o tutela.

 

Proprio in questi anni però stiamo vivendo una nuova stagione di regresso dei diritti sociali, che sta conducendo alla rimozione dei principi costituzionali che si basavano sul riconoscimento della necessità di tutelare il lavoratore quale soggetto più debole nel rapporto di lavoro e quindi sull'esigenza di realizzare l'eguaglianza sostanziale per i lavoratori attraverso la limitazione della libertà dei datori di lavoro di stabilire le condizioni di lavoro. Insieme a questo assistiamo costantemente agli attacchi ai valori fondamentali della Resistenza, alle istituzioni democratiche, il tutto accompagnato da una riabilitazione, indegna per un paese che abbia fatto i conti con la sua storia, degli aguzzini fascisti di ieri. Troppe ragioni per non far lasciar cadere i principi, i valori, gli insegnamenti della lotta di liberazione nazionale nell'oblio dei ricordi rimossi.

 

 



[1] Karl Marx – Friedrich Engels, Sul Risorgimento italiano, Editori Riuniti Roma 1959

[2] Luigi Longo, Continuità della resistenza,  Einaudi Torino 1977 pag. 5

[3] Mario Alicata, Partiti e movimento popolare intorno al 25 luglio, pag. 163,

[4] Mario Alicata cit., pag. 164

[5] Nello schema del rapporto politico presentato alla Conferenza dei triunvirati insurrezionali del PCI, pubblicata su La nostra lotta nel novembre del 1944, Longo scrive: <<l'insurrezione per cui noi ci battiamo e che vogliamo potenziare  sempre più non è una misteriosa ora X, ma è la guerriglia di ogni giorno che deve colpire permanentemente e con tutte le armi il nemico, ovunque si trovi>>.

[6] <<in fondo [diceva Longo] era la stessa lotta armata contro il fascismo, iniziata in Spagna, che noi garibaldini continuavamo in Italia. Molte delle esperienze politiche, organizzative, militari raccolte nelle file delle brigate internazionali ci furono di prezioso aiuto per capire e risolvere nelle particolari condizioni della nostra lotta liberatrice, tutti i problemi che ci si presentarono poi in Italia>>. La continuità della resistenza cit., pag. 72

 

[7] Luigi Longo, cit., pag. 12

[8] Velio Spano, La classe operaia alla testa della nazione, tratto da I quaderni di Rinascita, numero speciale per i Trenta anni del PCI, 1951 Roma, pag., 169

[9] Risoluzione del CN del PCI, Napoli 31 marzo 1844: <<1) mantenere intatta e consolidare l'unità del fronte delle forze democratiche e liberali antifasciste; 2) assicurare formalmente il paese che il problema istituzionale verrà risolto liberamente da tutta la nazione attraverso la convocazione di una Assemblea costituente, eletta a suffragio universale, diretto e segreto, subito dopo la fine della guerra; 3) creare un nuovo governo, di carattere transitorio ma forte e autorevole per l'adesione dei grandi partito di massa; un governo capace di organizzare un vero e grande sforzo di guerra di tutto il paese e in primo luogo di creare un esercito forte che si batta sul serio contro i tedeschi; un governo capace, con l'aiuto delle grandi potenze democratiche alleate, di prendere delle misure urgenti per alleviare le sofferenze delle masse e far fronte con efficacia ai tentativi di rinascita della reazione; 4) assicurare a tutti gli italiani, qualunque sia la loro convinzione o fede politica, sociale e religiosa, che la nostra lotta è diretta a liberare il paese dagli invasori tedeschi, dai traditori della patria, dai responsabili della catastrofe nazionale, ma che nel fronte della nazione c'è posto per tutti coloro che vogliono battersi per la libertà d'Italia e che domani tutti avranno la possibilità di difendere davanti al popolo le loro posizioni>>

[10] Luigi Longo cit., pag.99, : <<Si può dire che, proprio nell'arco di tempo fra il 1943 e il 1945 si compie e giunge a felice conclusione il processo di unificazione ideologica e dei suoi quadri dirigenti sulla base dell'esperienza politica già iniziata sotto la guida di Gramsci e che trovò poi organica  sistemazione nelle Tesi di Lione, le quali avevano alimentato per lunghi anni dibattiti vivaci ed anche aspri tra i compagni incarcerati o emigrati. Quelle Tesi, ora, dovevano essere messe alla prova del fuoco nelle condizioni create dalla caduta di Mussolini>>.

 

[11] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi Torino 1977, p. 1560

[12] Certo va sempre precisato che dopo la guerra, il prevalere dei rapporti sociali di produzione esistenti riportò gli assetti di dominio politico allo statu squò precedente, ma comunque i risultati della lotta di liberazione nazionale, in termini di avanzamento sociale e politico dei lavoratori e delle masse escluse, fu enorme.

[13] Luigi Longo, Continuità della Resistenza, cit., pag. 14

[14] Ibid., pag. 20

[15] Ibid., pag. 22

[16] Celeste Negarville, L'origine del CLN, in Quaderni di Rinascita, cit., pag.159

[17] Luigi Longo, Resistenza oggi, L'Unità, 25 aprile 1975