www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 21-01-08 - n. 211

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1880-1914: Londra, Parigi e Bruxelles praticano la schiavitù in Africa
 
Intervista a Elikia M’Bokolo* di Séverine Nikel
 
Dalla fine del XIX secolo alla Seconda guerra mondiale, il lavoro forzato è stato un fenomeno generalizzato nel continente africano. Tutti i colonizzatori lo hanno imposto e si tratta di un fenomeno di cui si valuta male l’ampiezza.
 
Alla vigilia della colonizzazione, la schiavitù era totalmente abolita sul continente africano?
 
Il commercio estero di schiavi è scomparso durante il XIX secolo. Gli africani hanno iniziato a scambiare in modo massiccio altri beni sul mercato internazionale invece che gli uomini: prodotti delle coltivazioni vicino alle coste, in Senegal e nella attuale Nigeria, ma soprattutto prodotti della caccia e della raccolta che talvolta presuppongono il trasporto di pesanti carichi per lunghe distanze. E’ così che in Africa orientale, come in Angola, si forma un "pre-proletariato" di decine di migliaia di portatori su cui la nascente colonizzazione va appoggiandosi. Rimangono tuttavia, ai margini del continente africano, delle forme di schiavitù. Da un lato, una schiavitù domestica, molto differente della schiavitù come la si conosce nel Nuovo mondo: questi schiavi sono largamente integrati nelle famiglie dei loro padroni. Dall’altra, una schiavitù su più larga scala, in Angola, nelle isole al largo del continente africano, sia dal lato dell’oceano atlantico che da quello indiano (Capo Verde, Réunion, Zanzibar). Quando si sono insediati, i britannici, come i francesi e i belgi hanno peraltro sviluppato un sistema di amministrazione indiretta che riconosceva a certi capi eminenti la proprietà di schiavi. Ma questo rimane marginale.
 
Che cosa cambia con la colonizzazione?
 
Le colonizzazioni danno vita a forme di lavoro molto specifiche che chiameremo “lavoro forzato”. Questo fenomeno si manifesta a partire dal 1880 per essere quindi progressivamente legalizzato durante i due decenni seguenti. Questa prima fase coloniale, tra il 1880 e 1906-1908 e che corrisponde alla conquista dello spazio territoriale, è il momento in cui stati e i privati occidentali cominciano a confiscare la terra agli africani. Il tutto corredato ovunque da un gran numero di massacri e di violenze. Si impone un sistema giuridico pervaso da teorie razziste che rifiutano agli africani i diritti dei cittadini europei e particolarmente quello di poter vendere liberamente sul mercato la loro forza lavoro. A questi "indigeni" è possibile imporre un lavoro obbligatorio. Tutto un discorso ideologico si è allora costruito per affermare che gli africani non amano il lavoro!
 
Quali forme prende questo lavoro forzato?
 
In certi casi si tratta di lavori di utilità pubblica: bisogna costruire strade e infrastrutture, favorire gli affari delle truppe e delle amministrazioni coloniali che conquistano i nuovi spazi. Con l’avanzare della colonizzazione, si requisiscono uomini nei villaggi, privilegiando i più vigorosi. Tutta la comunità del paese si trova perciò squilibrata. I vecchi, i giovani e le donne devono contribuire da un lato a nutrire queste persone che partono, e dall’altro devono sostituirle nel loro lavoro. Questa situazione, che l’Europa ha conosciuto bene in tempo di guerra ma in genere per una durata limitata, è diffusa in Africa durante tutta la prima età coloniale. A ciò si aggiunge il lavoro forzato organizzato dalle compagnie concessionarie. Tutte le nazioni colonizzatrici – la Francia nel Congo francese, Leopoldo II ed i belgi nello stato indipendente del Congo, i britannici in Africa orientale e australe, i tedeschi in Africa orientale e nell’attuale Namibia, i portoghesi in Africa centrale - hanno dato alle imprese private privilegi speciali per sfruttare economicamente i territori. Queste compagnie concessionarie detengono i diritti sulla terra, sui beni, ed anche il possesso di forze dell’ordine. Un sistema che porta evidentemente ad un’utilizzazione discrezionale e quasi sempre illecita di lavoratori. Questo sistema ha toccato il parossismo nei due Congo (francese e belga) in parte perché sono regioni molto povere di uomini. Le poche persone disponibili vennero usate sistematicamente e coloro che rifiutavano erano puniti severamente. E’alla fine di questa prima fase che le nuove forme di lavoro forzato sono messe in campo quando, a partire dal XX secolo, si passa ad un’economia con basi più moderne, che poggia meno sul saccheggio sistematico delle risorse e che si preoccupa più di produzioni minerarie o agricole. Nelle miniere sud-africane, sugli altipiani del Kenya britannico, in Camerun ed in Costa d’Avorio, dovunque, l’economia di tratta costringe una manodopera ricalcitrante, e spesso rara, a lavorare nelle piantagioni e nelle miniere. Gli imprenditori africani, che non possono da parte loro ricorrere a questa manodopera forzata, si ritrovano in concorrenza con i coloni europei. È in questa nascente borghesia agraria africana che si incontrano, fin dalla fine del 1920, i primi critici del lavoro forzato. Sarà della Costa d’Avorio uno dei più aspri, Félix Houphouët-Boigny.
 
Che cosa si sa in Europa di queste pratiche?
 
Alcune voci forti si sono fatte sentire. Le testimonianze in Francia, tra le due guerre, particolarmente di Albert Londres e di André Gide hanno fatto esplodere lo scandalo del lavoro forzato legato alla costruzione delle ferrovie. Le due strade ferrate che collegano il Congo all’Oceano Atlantico, la ferrovia belga prima (1890-1898) e la ferrovia francese Congo-Oceano poi (1921-1934), sono stati veri e propri cimiteri per la manodopera africana: “un morto per traversa”, si diceva. Questo è esagerato, ma si stima la mortalità legata a questi cantieri in decine di migliaia.
 
Il lavoro forzato, è differente della schiavitù?
 
Giuridicamente sono differenti. Lo schiavo è un bene del suo padrone mentre il lavoratore forzato resta libero in diritto. Questo significa, nei fatti, che i lavoratori coatti sono presi e mantenuti al lavoro sotto costrizione. Non riscuotono nessuno stipendio e devono essere nutriti dalle popolazioni dei villaggi che attraversano. Esistono certo delle forme di compenso: si dà al lavoratore del sale o del tessuto, per esempio. Ma queste retribuzioni restano talmente al di sotto del valore del lavoro fornito che non si può chiamare ciò uno stipendio. E certamente, i lavoratori forzati, come gli schiavi, sono inquadrati dalle forze dell’ordine, da milizie africane reclutate sul territorio stesso, e comandati dagli europei. Si comprende che, per gli africani, schiavitù o lavoro forzato non abbia fatto differenza. In Africa centrale - sia sotto dominio francese, belga e tedesco - dove la schiavitù interna era stata molto marginale e dove esistevano numerose società minerarie, le persone hanno vissuto il collocamento al lavoro coatto come l’inizio di una schiavitù. E, dal lato delle élite africane, per gli insegnanti, gli allevatori, i piantatori, quelli cioè che sapevano cosa era stata la schiavitù, sembrava chiaro che il lavoro coatto era uno stretto parente di questa. Del resto molti fra essi lo combatterono.
 
Ma ci sono delle élite che collaborano?
 
Sì. Le autorità in carica hanno potuto trovare un interesse nella colonizzazione, non solo perché sono state mantenute ai loro posti, ma anche perché sono state rafforzate dalla colonizzazione. Il potere degli Stati di recente formazione, vecchi di un secolo solamente come gli Stati musulmani del nord della Nigeria, è stato spesso rafforzato. Quanto agli Stati più antichi, come l’immenso impero Lunda in Africa centrale, minacciati dalle nuove élite politiche apparse nel XIX secolo, la colonizzazione ha offerto loro un’ancora di salvezza. I colonizzatori erano pronti a chiudere gli occhi sulle malefatte di questi capi nella misura in cui questi ultimi gli garantivano un’offerta permanente di manodopera sottomessa e ubbidiente. È il caso di tutta l’Africa guineana, in Costa d’Avorio, nella Costa d’Oro, attuale Ghana, a Togo, a Dahomey (Bénin), in Nigeria, indipendentemente dalla nazionalità dei colonizzatori. In «Voyage au Congo» (1927) André Gide si indigna per le condizioni di costruzione della ferrovia Congo-Oceano. “La ferrovia Brazzaville-Oceano è un spaventoso consumatore di vite umane. [...] I primi contingenti hanno sofferto molto; tanto durante il tragitto […] (certi annegano nel fiume e numerosi sono quelli che muoiono di polmonite) quanto nei cantieri stessi. La mortalità ha superato le più pessimistiche previsioni. A quante nuove morti la colonia dovrà la sua futura prosperità?”
 
Si può misurare il costo in vite umane collegato all’uso del lavoro forzato?
 
È difficile. Per le colonie di cui si sa di più, il Congo francese ed il Congo belga, sembra che, nei villaggi più vicini alle vie di comunicazione (vie d’acqua e più tardi le strade) le perdite potevano rappresentare la maggior parte degli uomini validi. Del resto molti di questi villaggi vengono abbandonati dai loro abitanti; chi preferisce allontanarsi e, talvolta, passare dall’altro lato della frontiera per scoprire lo stesso orrore, come raccontava l’abate Barthelemy Boganda la cui famiglia, originaria di Oubangui-Chari (Rep. Centrafricana), ha sperimentato le colonizzazioni tedesche (Camerun) e belga (Congo-Kinshasa).
 
Di che cosa muoiono tutti questi uomini?
 
In primo luogo ci sono le cause tradizionali di mortalità. Evidentemente, le condizioni sanitarie in cui vivono queste persone sono drammatiche: malattie sessualmente trasmissibili, ma anche la malattia del sonno che si è diffusa tragicamente durante gli anni 1880-1910 e tutte le malattie legate alla malnutrizione. Ma a queste si aggiungono le conseguenze del lavoro forzato. Le condizioni sono molto dure e i maltrattamenti talvolta atroci. Il caso del Congo all’epoca di Leopoldo II, quando il re belga ne era il proprietario, vale a dire dal 1885 al 1908 (data nella quale il territorio è trasferito al Belgio), è particolarmente tragico. Nel 2003 ho condotto un’inchiesta nella regione della gomma rossa del Congo belga, per il film della BBC realizzato da Peter Bate, White King e Red Rubber: Black Death (“Re bianco, gomma rossa, morte nera”). Più di cento anni dopo, il ricordo del lavoro di raccolta nelle piantagioni di gomma nella foresta provoca ancora vero e proprio terrore nei villaggi. Non era raro infatti che gli amministratori, quando ritenevano la produzione insufficiente, ricorressero al taglio delle mani o delle gambe dei lavoratori.
 
È un incitamento al rendimento attraverso il terrore?
 
Sì. Ciò che stupisce è che Francia, Germania e Inghilterra, pur conoscendo i ricatti commessi, hanno preso il sistema leopoldiano a modello: quello che vedevano nella prassi del re belga era il ritorno veloce di un investimento molto importante. Del resto, si può dire che il sistema delle concessioni francese è stato costruito su imitazione del sistema leopoldiano. Il sistema tedesco in Africa orientale e sud-occidentale, la colonizzazione britannica in Rhodesia (Zimbabwe), tutti contemporanei al sistema leopoldiano, sono molto violenti.
 
E’ la violenza che li rende redditizi?
 
Sì. Immagino si sappia che è la violenza a renderli redditizi, e lo si accetta come un male necessario che doveva insegnare agli africani a diventare produttivi.
 
Fino a quando è durato questo sistema?
 
In molte regioni il lavoro coatto è restato in vigore sino alla Seconda guerra mondiale. La Francia è il paese che ha soppresso con più clamore il lavoro forzato: nel 1946, con un progetto di legge proposto da Félix Houphouët-Boigny. Ma, sebbene “ufficialmente” abolito, il lavoro coatto è potuto rimanere in vigore in certe regioni, in Oubangui-Chari, nel Gabon, in Congo, ciò fino all’indipendenza e talvolta anche dopo. Perché, a partire dal 1945-1946, il bisogno di manodopera aumenta con l’apertura dei grandi cantieri, in particolar modo dei porti e delle infrastrutture urbane. Parallelamente, le imprese private si sviluppano, soprattutto nell’Africa equatoriale: compagnie forestali o di sfruttamento dei diamanti. Anch’esse richiedono numerosi lavoratori. Possediamo dei testi sbalorditivi che provengono dalle camere di commercio di Oubangui-Chari in Africa equatoriale francese tra 1945 e 1947, che spiegano come il lavoro libero salariato non convenga alle popolazioni tanto arretrate di queste zone dell’Africa centrale!
 
Ci sono state delle resistenze alla violenza del lavoro forzato?
 
C’è una prima forma di reazione: la fuga, soprattutto nella prima fase coloniale, al tempo della conquista, verso la fine del XIX secolo. Si assiste allora a considerevoli trasferimenti di popolazione: le persone passano da una frontiera all’altra. Del resto, non fanno che riprendere le tradizionali forme di dissenso nelle società africane nelle quali, quando si non era di accordo col sistema del luogo, ci si trasferiva per insediarsi più lontano. I “profughi” di oggi non fanno altro che questo.
 
Ma ci sono state delle insurrezioni?
 
Certamente, le insurrezioni sono pressoché continue durante tutto questo primo periodo. Si possono distinguere due situazioni: le società africane statali e le società africane non statali. Nelle prime, le popolazioni sono state abituate ad una certa costrizione da parte dello Stato e si sono abituate alle forme di sottomissione e di ubbidienza. In queste società, le resistenze al lavoro forzato e a tutto il sistema coloniale è relativamente debole, una volta decapitati i vertici o rimessi in riga. I colonizzatori sono passati dai capi tradizionali per accedere alla manodopera, limitandone così le resistenze. Queste sono state relativamente facili da spezzare e non hanno superato l’inizio del XX secolo. Le opposizioni sono state molto più forti in quelle che un militare francese, Gabriel Angoulvant, chiamava le “società anarchiche”. Si tratta di società rurali che si auto-organizzavano e dove gli abitanti erano abituati a comportarsi in funzione del loro interesse ed a non sottoporsi alle autorità politiche permanenti. Ciò riguarda il sud della Costa d’Avorio, il sud-est della Nigeria, il sud del Camerun e la maggior parte dell’Africa centrale. Fino alla fine degli anni 20, la cosiddetta “pacificazione” di queste regioni è stata molto difficile e nello stesso modo in cui l’apparato dello stato coloniale si era rinforzato, l’adesione all’ordine coloniale era rimasta molto superficiale. Questi territori non sono stati mai realmente sottomessi. Fin dal 1930, con la crisi economica, le manifestazioni di dissenso riappaiono e quelle più spettacolari hanno luogo nel Oubangui-Chari e nel Congo belga. A partire dagli anni 40, con la Seconda guerra mondiale e la politicizzazione delle popolazioni africane dal 1945 in poi, si moltiplicano.
 
Quale forma prendono le rivolte?
 
Si tratta spesso di guerriglia embrionale. Talvolta, le popolazioni danno l’impressione di sottomettersi quando passano i comandanti, per tornare poi al precedente tipo di vita dopo la loro partenza. Dietro questo rifiuto, si manifesta il rifiuto del modello di sviluppo economico voluto dalla colonizzazione. In molti casi, queste opposizioni si prolungano al di là della colonizzazione, contro l’ammodernamento autoritario lanciato dagli Stati indipendenti. Sebbene rare, esplodono anche alcune grandi rivolte. La più significativa ha avuto luogo in Tanganyika, (attuale Tanzania): è la rivolta dei Maji-Maji contro la colonizzazione tedesca, intorno al 1905-1910. È una sollevazione di disgraziati senza rapporto con le lotte tra gruppi etnici. Il rifiuto di lavorare diventa un’insurrezione contro l’occupante tedesco. I lavoratori hanno solamente dei fucili di tratta [fucili pericolosi da usare e caricati con schegge e frammenti di proiettili di ferro, piombo o rame che permettevano di sparare a mitraglia, Ndt], ma oppongono una resistenza talmente forte che provoca un’interpellanza al Parlamento tedesco, una commissione d’inchiesta ed una riforma: l’amministrazione è obbligata ad alleggerire le condizioni di lavoro. Nella stessa epoca, 1904-1906, una seconda rivolta condotta dai Nama e dagli Herero esplode nell’Africa sud-occidentale sotto dominio tedesco. La repressione fu talmente atroce che la maggior parte di questi due popoli è scomparsa: morirono più di 60000 persone in due anni. Si può parlare in questo caso di un vero genocidio. Si potrebbe citare anche la guerra di Kongo Wara (“guerra dei manici di zappa”) nel Oubangui-Chari, che ha visto parecchi gruppi etnici sollevarsi insieme contro il regime coloniale francese tra il 1928 e 1931, e l’insurrezione dei Mau-Mau nel Kenya sotto il dominio britannico. Quest’ultima raggiunge una violenza estrema a partire dal 1949. È un guerra anticoloniale che diventa di fatto una guerra di decolonizzazione. Una guerra d’Indocina ed al tempo stesso una guerra d’Algeria. Comincia nel 1949 e si prolunga fino al 1963, quando il Kenya ottiene la sua indipendenza.
 
Ci sono stati altri massacri che si potrebbero qualificare come genocidi?
 
No, ma bisogna ricordare la repressione praticata dai portoghesi nella loro colonia in Angola. Ovunque le persone si ribellano, li si massacra. C’è anche il dossier, molto voluminoso, del Congo leopoldiano e belga: la campagna anti-leopoldiana, che si scatena a partire dal 1905, valuta in milioni di morti i massacri imputabili all’amministrazione belga. Congo francese, Oubangui-Chari e Gabon sono stati teatro di violenze terribili. Nel Congo francese, i crimini sono stati così numerosi che Pierre Savorgnan de Brazza, che aveva la reputazione di essere un “buon colonizzatore” e che aveva portato il Congo alla Francia, alla fine del XIX secolo, fu rispedito in missione per indagare su questi massacri. Brazza morì al ritorno dalla sua missione e la documentazione è stata più o meno seppellita con lui. Alla fine, è molto difficile fare un bilancio globale del numero dei morti. Certi territori sono meglio conosciuti di altri, come lo stato indipendente del Congo, dove i missionari, soprattutto protestanti, hanno censito gli abitanti. Per l’Africa inglese, disponiamo dei lavori di un eccellente demografo, Robert Kuczynski che durante la colonizzazione ha pubblicato alcune note demografiche su questo impero. Tutti i documenti di cui disponiamo evidenziano un “buco” enorme tra 1880 e il 1910, dovuto agli effetti cumulati delle violenze dirette della colonizzazione e delle sue conseguenze indirette (malnutrizione, diffusione di un alto numero di malattie, ecc.).
 
Si può parlare di crimine contro l’umanità a proposito del lavoro forzato?
 
Come storico, per evitare l’errore di anacronismo, prenderò il punto di vista dei contemporanei del lavoro forzato. Il primo è quello di un nero americano, George Washington Williams. Si è all’indomani dell’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti (1865). Fa parte di quelli che sognano di civilizzare l’Africa ed aderisce al progetto coloniale, particolarmente a quello di Leopoldo II. George Washington Williams va sul posto e molto rapidamente vede ciò che accade. Nel 1895-1896, in una lettera aperta a Leopoldo II, è il primo ad utilizzare l’espressione di “crimine contro il genere umano”, espressione che nella stessa epoca è usata da un altro nero americano, il missionario presbiteriano William Sheppard. Da Mark Twain a Charles Péguy, sono numerosi i rappresentanti dell’intellighenzia mondiale dell’epoca che si levano contro Leopoldo II, parlano di “modern slave trade” (moderna tratta degli schiavi). Anticipano ciò che facciamo oggi, dicendo che la tratta degli schiavi è stata un crimine contro l’umanità. Già, alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, molti testimoni hanno paragonato gli abusi commessi da Leopoldo II a quelli del Sultano rosso dell’impero ottomano contro le minoranze cristiane, particolarmente contro i cretesi e gli armeni. Si costituì una corrente di intellettuali e di uomini d’azione, particolarmente intorno al pubblicista inglese Edmund Morell, autore di numerosi lavori sul Congo leopoldiano ed animatore di un vasto movimento di riforma del Congo. I più radicali proponevano che responsabili e beneficiari del regime leopoldiano fossero giudicati da una corte internazionale per crimini contro la civiltà e i diritti della persona. Queste denunce non hanno avuto tuttavia molto seguito… La Prima guerra mondiale, anche da questo punto di vista, fu molto nefasta perché è sulla sola Germania che si è scaricata l’accusa di essere un cattivo colonizzatore, mentre il Belgio, la Francia e la Gran Bretagna si sentivano sdoganate ed abbandonavano ogni dibattito per adottare una politica apparentemente differente, quella della “messa in valore”. In effetti, bisogna attendere due o tre generazioni di storici perchè la questione si presenti nuovamente ed è solamente a partire dalla fine degli anni 60 che si è cominciato a parlarne, particolarmente in occasione dei dibattiti sulle origini del sottosviluppo in Africa e sulle resistenze africane - che erano un mezzo indiretto di porre il problema delle violenze coloniali. Ma ciò che gli storici non hanno visto è che la violenza dei dominati si inserisce sempre in una spirale, che è una risposta alla violenza dei dominatori. E, la violenza dei dominatori, questa storiografia non è stata capace di integrarla perché poneva la questione dello Stato e del diritto di resistenza allo Stato, al momento stesso in cui, accedendo alla sovranità, nella maggior parte delle vecchie colonie si poneva come prioritario il problema dello “sviluppo” e si pareva accettare il mantenimento dello stato coloniale nelle sue principali caratteristiche. Oggi, penso che ciò che rende necessaria una riflessione sulla violenza nell’esperienza coloniale in Africa, sia da una parte il fatto che gli Stati africani post coloniali sono rimasti molto violenti, tanto quanto lo furono quelli coloniali, e dall’altra il fatto che le società africane, che hanno resistito alla colonizzazione, che si sono riunite in Stato post coloniale una decina o ventina di anni dopo l’indipendenza, hanno ripreso la pratica della resistenza dell’epoca coloniale. La questione della violenza coloniale e delle risposte delle società africane a questa violenza è costitutiva della modernità africana e delle difficoltà dell’Africa ad inventare la sua propria modernità.
 
* Elikia M’Bokolo: “Il lavoro forzato è schiavitù”. Un’intervista con la dott.sa Elikia M’Bokolo, direttore di studi alla EHESS (École des hautes études en sciences sociales) pubblicata su L’Histoire. Opinioni raccolte da Séverine Nikel - www.ldh-toulon.net/spip.php?article2372
 
Traduzione dal francese per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare