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- cultura e memoria resistenti - storia - 01-07-08 - n. 234
Foibe, condividere la memoria per cancellarla
di Adamo Mastrangelo
Nei giorni in cui è prevista la commemorazione delle stragi e degli stermini fascista e nazista degli anni ’30 e ’40 abbiamo assistito, come d’improvviso, ad assemblee e incontri che ricordavano i morti nelle foibe giuliane. Quasi una sovrapposizione di due culture differenti dove l’una, quella di destra che ricorda le foibe e l’esodo giuliano-dalmata, si scontrava con l’altra, quella di sinistra che ricorda l’olocausto e il terrore nazifascista. Una sovrapposizione inquietante che ha il preciso obbiettivo di mischiare tutto in un unico calderone, per la realizzazione di quella che viene più comunemente e ambiguamente definita “memoria condivisa”. Per giungere a questo punto, però, e è passata di acqua sotto i ponti.
Dopo la disgregazione dell’Austria-Ungheria, avvenuta nel 1918, all’Italia si presentò la possibilità di espansione nei Balcani e nell’area danubiana; un’influenza politica su quest’area avrebbe rappresentato da una parte, come è logico, una forte influenza economica e ciò avrebbe comportato l’imposizione di una propria (seppur folle) egemonia nei rapporti “concorrenziali” del capitalismo europeo. Dall’altra parte durante il dominio fascista sarebbe stata utile «sul piano del consenso di fasce più o meno larghe della società italiana» (1), sia come consenso popolare (la propaganda della potenza dello Stato italiano), sia come appoggio politico dei settori economici interni. E’ per questo che il blocco borghese, che dagli anni ‘20 appoggiava il fascismo, operava non solo all’interno dello stato italiano, ma influenzava direttamente anche le scelte in politica estera .
Già prima dell’avvento del fascismo, lo stato liberale aveva conosciuto una forte dipendenza dalle banche e dalle industrie, che riuscivano a miscelare con cura i loro interessi all’ideologia politica nazionalista, garantendosi validi esponenti politici nel parlamento. Se le banche e gli industriali vedevano di buon occhio l’occupazione di terre come l’Idria (ricche di mercurio) o l’Istria (per i carboni e le bauxiti), i nazionalisti speravano in un intervento in quell’area essenzialmente per la loro “slavofobia” e per una mobilitazione contro i comunisti-slavi. Nella Venezia Giulia venne progressivamente depennato ogni diritto delle istituzioni nazionali slovene e croate: le scuole furono italianizzate e i professori costretti a trasferirsi o ad emigrare; gli slavi non potevano lavorare nel pubblico impiego, vennero soppresse centinaia di associazioni culturali e sociali; i partiti politici delle minoranze slave (come l’organizzazione “Edinost”) vennero esclusi dalla corsa elettorale. La legge Gentile del 1923 impose la chiusura di tutte le scuole di lingua non italiana, nelle nuove province italiane. Le leggi vennero accompagnate dalle violenze dei fascisti, che si “dilettavano” a compiere crimini razzisti di ogni tipo, come la tragica vicenda di Struggano del 1921 dove i fascisti spararono ad un gruppo di bambini uccidendone due e ferendone cinque.
Ciò che il fascismo cercò di attuare un minuzioso programma di annientamento totale dell’identità nazionale slovena e croata. Dalla distruzione del Narodni dom, la “grande casa” che ospitava la cultura slovena col Teatro di Trieste, il fascismo impose una “culturalizzazione” forzata, sottraendo ogni tradizione non-italiana. Fu proprio a Trieste che venne fissata la sede del Commissariato civile, rappresentato da Mosconi, «nemico dichiarato del socialismo» (2), e sempre a Trieste operava il Tribunale militare.
Non è facile ricostruire l’occupazione italiana nell’area balcanica, in quanto le documentazioni in possesso degli storici non sono così numerose da poter dipingere un quadro completo delle azioni militari che le camicie nere intrapresero nella zona. Già nel 1927 il Tribunale speciale iniziò la sua funzione di controllo e repressione delle attività antifasciste, soprattutto nel nord-est italiano.
Dalle pubblicazioni vengono alla luce le spietate azioni portate a compimento dai reparti italiani nell’Est europeo, come persecuzioni, fucilazioni e precisi ordini di impareggiabile severità. Un caso è la famosa “circolare 3c” divulgata dal generale Mario Roatta, comandante in Slovenia e Dalmazia, nella quale si legge:
Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula “dente per dente”, ma bensì da quella “testa per dente” […] si procederà inoltre a designare, fra la parte sospetta della popolazione, degli ostaggi, che verranno tratti e mantenuti in arresto. […] i ribelli colti con le armi nella mano saranno fucilati sul posto. Saranno trattati come ribelli i maschi validi […] pur non essendo stati colti con le armi in mano.
Esso non è l’unico esempio, la storiografia ce ne ha consegnati abbastanza per delineare una nuova figura di soldato italiano, che elimina completamente dall’immaginario comune quella del «buon soldato» e la sostituisce con quella del “soldato spietato”.
È in questo quadro che rientrano le foibe, come mezzo per “punire” le malefatte fasciste. Il termine foiba deriva dal latino (fovea) e significa spaccatura nel terreno, crepaccio e, ancora più similmente alla lingua italiana, fòibe significa “fossa” nel dialetto friulano. Infatti una foiba è una particolare dolina, come una fossa molto profonda nella terra, che si genera frequentemente nei suoli calcarei a causa dell’erosione esercitata dal passaggio dell’acqua. Basovizza, Prosecco, Volci, Cruscevizza, Ternovizza ecc. sono tutte località carsiche dove si aprono tali voragini, che vengono ricordate essenzialmente per l’uso che se ne fece nel settembre del ’43 e nel Maggio del ’45, quando vi si gettarono i corpi di chi collaborò col fascismo. È bene precisare che il fenomeno delle foibe non fu unico nel tempo, ma possiamo dividerlo in due periodi ben distinti: il primo è quello immediatamente successivo all’8 settembre 1943, quando le truppe partigiane del maresciallo Tito occuparono varie zone dell’Istria e quando quelle naziste instaurarono il cosiddetto «Litorale Adriatico»; il secondo periodo è quello successivo all’aprile 1945, ovvero subito dopo la fine della guerra quando, sconfitto l’esercito tedesco, vi furono i cosiddetti quaranta giorni di occupazione jugoslava a Trieste.
Molti studi dimostrano che parlare di migliaia di infoibati, per ciò che concerne le truppe partigiane di Tito, è assolutamente oltre il limite reale. Si stimano alcune centinaia di persone gettate nelle foibe del territorio istriano e quasi tutte legate (o sospettate di esserlo) al nazifascismo. Sarebbe insensato parlare di “milioni”, come ha recentemente fatto Maurizio Gasparri (noto esponente di Alleanza Nazionale), specificando che gli infoibati furono accusati e uccisi «solo perché italiani». Niente di più falso: gli infoibati, nei due periodi sopra citati, non furono più di poche centinaia, forse qualche migliaio, e non vennero uccisi perché italiani, ma perché ritenuti colpevoli di collaborazione col nazifascismo. Il sostengo che alcuni gerarchi fascisti offrirono volontariamente all’invasore nazista, si commutò in una vera e propria arma in più nelle mani dei tedeschi, che sfruttarono il collaborazionismo fascista per segnare la fine dell’opposizione italiana al Reich. Un esempio sono i famosi Cesare Pagnini e Bruno Coceani, nominati a Trieste dal gauleiter nazista rispettivamente podestà e prefetto.
La “ciliegia sulla torta” è rappresentata dalla Legge del 30 marzo 2004 (la numero 92, voluta da Alleanza Nazionale e appoggiata dall’allora capogruppo dei Ds alla Camera Luciano Violante e dall’allora capogruppo della Margherita al Senato Willer Bordon) che non stabilisce nessuna Commissione d’inchiesta sui fatti che seguirono l’8 settembre 1943, ma solo una campagna di puro revisionismo storico. Un revisionismo architettato dalla destra e appoggiato da gran parte della sinistra italiana, come mezzo di auto-purificazione dagli avvenimenti e dalle ideologie del ‘900.
Nessuno però ammette che i primi ad utilizzare le foibe furono i fascisti: la foiba di Basovizza ne è un esempio. Non si dice neppure che nessun partigiano titino fece “apologia di foiba”, al contrario di come fecero in vari ambiti i fascisti, i quali si dilettarono ad esaltare la pratica del “gettare” ancora vivi i corpi di partigiani nelle foibe, «“colpevoli”, magari, solo di essersi fatte scoprire a dire qualche parola in sloveno o croato; così come risultano, dall’archivio dello Stato civile triestino» (3) e come ha confermato ad una recente intervista che mi ha concesso Giorgio Marzi, attuale Presidente dell’ANPI di Trieste.
Insomma, la tanto sbandierata “memoria condivisa” non è altro che la totale cancellazione della memoria stessa, insabbiata e occultata per decenni, perché a nessuno faceva comodo. E non fa comodo a chi oggi detiene il potere e fa gli interessi di quella stessa “borghesia” che, nel ventennio fascista, impugnò le armi di Mussolini per accaparrarsi nuove ricchezze a Nord-Est. Ricordando gli infoibati e dimenticando l’uso della violenza operato dal fascismo contro i popoli slavi, senza parlare del silenzio del Governo italiano dell’epoca, vale a dire cancellare a colpi ideologici un pezzo di storia tanto cruento quanto importante per capire il nostro presente.
Note
(1) Cherubini, Della Perutam Lepore, Mori, Procacci, Villari, Barbadoro, Storia della Società italiana. La dittatura fascista, Teti, Milano, 1983.
(2) Filibert Benedetic, Dallo squadrismo fascista alle stragi della risiera. Trieste-Istria-Friuli-1919-1945, Aned , Trieste, 1978.
(3) Claudia Cernigoi, Operazione Foibe a Trieste. Come si crea una mistificazione storica: dalla propaganda nazifascista attraverso la guerra fredda fino al neoirredentismo.