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In questi giorni spesso si cita la crisi del 1929. Di seguito la sua storia da cui trarre analogie e differenze nelle cause, conseguenze e tentativi per porvi rimedio.

da Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale vol IX, Teti Editore, Milano, 1975
trascrizione a cura del CCDP

CAPITOLO IX

La crisi economica nei paesi capitalisti negli anni 1929-1933


1 Il sorgere e lo sviluppo della crisi economica mondiale
2 Gli Stati Uniti d'America (prossima pubblicazione)
3 Il Giappone (prossima pubblicazione)
4 La Germania (prossima pubblicazione)
5 La Gran Bretagna (prossima pubblicazione)
6 La Francia (prossima pubblicazione)
7 L'Italia (prossima pubblicazione)
8 La Spagna (prossima pubblicazione)
9 I paesi dell'Europa Centrale e Sud Orientale (prossima pubblicazione)

Alla fine del 1929 scoppiò nei paesi capitalisti una crisi economica di portata mondiale, la più rovinosa e profonda di tutte le crisi di sovrapproduzione che la storia del capitalismo avesse fino ad allora conosciuto. Essa condannò milioni di appartenenti alle masse lavoratrici a incredibili privazioni, provocò in vari paesi sconvolgimenti politici e inasprì straordinariamente la situazione internazionale.

1 IL SORGERE E LO SVILUPPO DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE

LE PARTICOLARITÀ DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE

Fin dagli anni della stabilizzazione relativa del capitalismo le contraddizioni insite in esso avevano fatto presagire l'ineluttabilità di una crisi generale del sistema. L'analisi scientifica non lasciava dubbi sul fatto che l'andamento ciclico della riproduzione capitalistica avrebbe condotto a una nuova crisi economica. Per i circoli dominanti borghesi, fissati nell'idea del carattere durevole e costante della stabilizzazione capitalistica, la crisi giunse però completamente inattesa. Non molto prima che essa sopraggiungesse alcuni fra i rappresentanti più in vista della borghesia monopolistica avevano fatto le previsioni più ottimistiche. Il presidente degli Stati Uniti Coolidge lasciando il suo incarico scriveva nel messaggio di saluto al Congresso del 4 dicembre 1928: "Il paese può guardare con soddisfazione al presente e con ottimismo al futuro". Il direttore di uno dei più importanti monopoli metallurgici, la "Bethlem Steel Corporation", affermava che negli Stati Uniti" erano state poste le basi di una prosperità che eclissava tutto quello che noi abbiamo veduto finora". Il dirigente di un altro grosso monopolio americano, la "General Motors", affermava: "Io non vedo un solo motivo per cui il progresso generale non possa continuare, perché non ci debba essere da noi un'eccellente congiuntura economica e un ulteriore incremento della prosperità".

I primi sintomi della crisi che si stava avvicinando incominciarono a manifestarsi verso la metà dell'anno 1929, quando negli Stati Uniti e negli altri grandi paesi capitalisti cominciarono ad accumularsi imponenti scorte di merci invendute. La produzione però si manteneva ancora a un livello elevato e nei circoli degli affaristi della borsa e della finanza regnava come nel passato un illimitato ottimismo. Nell'ottobre del 1929, mentre la speculazione in borsa era al suo massimo, si verificò negli Stati Uniti un crac borsistico, che preannunziò l'esplosione della crisi economica mondiale.

Dopo aver colpito in primo luogo il paese più sviluppato del capitalismo moderno, gli Stati Uniti, la crisi si diffuse per tutto il mondo capitalista, ma le sue ondate si fermarono ai confini dell'Unione Sovietica. Gli anni della crisi economica nei paesi capitalisti corrisposero in gran parte a quelli del primo piano quinquennale sovietico. In questi anni il paese che costruiva il socialismo fece grandi progressi sulla via del suo sviluppo economico. L'Unione Sovietica in un breve periodo storico aveva liquidato un'arretratezza economica secolare e si era trasformata in una potenza industriale con una grande agricoltura collettivizzata.

La crisi economica mondiale si prolungò per quattro anni, dal 1929 al 1933. Essa fu generata dalla contraddizione fondamentale del capitalismo: la contraddizione fra il carattere sociale della produzione e la forma privato-capitalistica della appropriazione dei prodotti del lavoro. Si trattava di una crisi di sovrapproduzione e gigantesche scorte di prodotti giacevano invendute nei magazzini. Nella sua natura la crisi derivava inoltre da quella generale del sistema capitalista. Questa circostanza determinò la sua inusitata intensità, la sua durata e la sua forza distruttiva. La produzione industriale nei paesi capitalisti si ridusse in questi anni di più di 1/3; in particolare la produzione del carbone si ridusse del 30,6%, quella della ghisa del 64,8%, quella dell'acciaio del 62,4%, quella del cotone del 26,7%. Questi indici di caduta della produzione industriale non trovavano riscontro in nessun'altra crisi nella storia del capitalismo. Nel corso delle precedenti crisi il calo della produzione era considerato straordinariamente intenso quando toccava il 10-15%; in quella del 1929-1933 invece furono paralizzati la metà e in certi casi i 2/3 del potenziale produttivo nei settori chiave dell'industria. L'industria capitalista nel suo complesso ritornò, come volume di produzione, pressappoco al livello del 1908-1909 e in alcuni paesi anche più addietro. L'industria degli Stati Uniti venne riportata al livello del 1905-1906, quella della Germania e della Gran Bretagna al livello del 1896-1897.

La crisi economica del 1929-1933 fu non soltanto la più profonda, ma anche la più lunga nella storia del capitalismo. Se nel passato le crisi duravano di solito alcuni mesi, ora invece il punto più basso della crisi, iniziatasi nell'autunno del 1929, venne raggiunto soltanto nell'estate del 1932. E solo due o tre anni dopo ci si avvicinò ai livelli produttivi precedenti la crisi.

LO SVILUPPO INEGUALE DELLA CRISI. L'ACUIRSI DELLE CONTRADDIZIONI DEL CAPITALISMO

La crisi colpì con maggior forza gli Stati Uniti e la Germania. In Gran Bretagna, dove negli anni 20 non vi era stato un grande sviluppo della produzione industriale, la flessione per la crisi fu relativamente leggera. In Francia la produzione industriale cominciò a decrescere soltanto nel 1931 e perciò la crisi raggiunse la sua maggiore intensità nel 1935, molto più tardi che negli Stati Uniti e in Germania. Nel Giappone, che aveva incominciato a preparare l'aggressione contro la Cina immediatamente dopo l'inizio della crisi, il punto più basso della caduta di produzione si ebbe nel 1931. La crisi interessò anche l'agricoltura. La presenza di enormi scorte di materie prime agricole e alimentari portò al ribasso dei prezzi e alla rovina in massa dei ceti contadini. Costretti a vendere sottocosto i loro prodotti, i contadini e i padroni di aziende ridussero gli acquisti di macchine agricole, di fertilizzanti e di prodotti industriali di consumo individuale. L'intrecciarsi della crisi agricola con quella industriale determinò in entrambe una maggiore intensità.

La crisi fu particolarmente violenta nei paesi debolmente sviluppati sul piano industriale. I prezzi dei principali articoli della loro esportazione, delle materie prime e dei prodotti alimentari subirono un brusco ribasso. Nella primavera del 1932 il prezzo del caucciù sul mercato mondiale precipitò, in confronto al livello medio degli anni 1925-1929, del 93%; il prezzo dello zucchero del 74%; quello della seta del 75% e quello della juta del 62%. La richiesta di materie prime nei paesi poco sviluppati si ridusse e ancora maggiore fu la riduzione delle entrate dei paesi agricoli per le merci da essi vendute. Facendo uguale a 100 il volume del commercio estero di questi paesi negli anni 1925-1929, la loro esportazione espressa quantitativamente scese nel 1931 all'85,1% e come valore cadde al 56,4%. Rovinando i paesi fornitori di materie prime e di generi alimentari, la crisi aumentò il peso dei pagamenti per i vecchi debiti e condusse molti Stati alla bancarotta. La diminuita capacità d'acquisto della popolazione nei paesi scarsamente sviluppati ostacolò gravemente la possibilità d'ampliare lo smercio dei prodotti industriali importati dai paesi industrialmente sviluppati. E poiché la crisi si era estesa a tutto il mondo capitalista, i tentativi dei singoli Stati di far pagare agli altri le spese della crisi risultarono impossibili. Un fattore essenziale che aveva condotto alla estensione e all'approfondimento della crisi era stato il predominio dei monopoli. Nello stadio premonopolistico del capitalismo, alla epoca delle crisi periodiche di sovrapproduzione, la discesa dei prezzi delle merci industriali favoriva l'estensione del loro smercio e le aziende ristabilivano gradatamente la produzione. Nella crisi 1929-1933 invece i monopoli dei rami più importanti dell'industria tentarono di sostenere artificiosamente un alto livello dei prezzi, provocando un netto divario fra quelli dei prodotti dei rami monopolizzati e quelli dei rami non monopolizzati; in tal modo fu frenato l'assorbimento delle scorte di merci e la crisi si trascinò a lungo.

La crisi portò a una profonda distorsione dei rapporti economici mondiali. Il commercio nel mondo scese a circa 1/3 del livello precedente la crisi, e sul mercato mondiale capitalista si accese una feroce guerra commerciale. Elevando nuove barriere doganali le classi dominanti tentavano di difendere i propri affari a spese dei concorrenti stranieri: "Mai in precedenza c'era stata una recessione talmente generale e ampia della cooperazione economica internazionale", riconosceva un rapporto della Società delle Nazioni del 1931-1932. Dal giugno 1931 all'aprile 1932 settantasei paesi aumentarono le tariffe doganali, limitarono le uscite di valuta per l'acquisto di prodotti stranieri e ricorsero all'introduzione del sistema della limitazione o dell'esplicito divieto d'importazione.

Contemporaneamente alla distorsione dei rapporti commerciali mondiali si verificò un profondo dissesto finanziario nei paesi del sistema capitalista. Le monete di 56 Stati vennero svalutate. Dopo che nell'autunno 1931 la Gran Bretagna si ritirò dallo standard aureo, le valute di tutti i dominions britannici e an-che quelle dei paesi scandinavi vennero equiparate alla sterlina svalutata. L'abbandono dello standard aureo da parte degli Stati Uniti nella primavera del 1933 provocò una nuova ondata inflazionistica. La normale circolazione valutaria sul mercato mondiale venne sostituita dalla guerra valutaria. Si ebbe così il blocco della sterlina con alla testa la Gran Bretagna e quello del dollaro, guidato dagli Stati Uniti. Il crollo delle valute rese a sua volta più difficile la soluzione della crisi e inasprì la competizione imperialistica sul mercato mondiale.

Mai prima d'allora il mondo capitalista aveva visto una crisi di una potenza distruttiva simile. In tutti i paesi capitalisti si videro enormi cimiteri di macchinari che si estendevano per decine di chilometri; le zone morte delle fabbriche e delle officine con centinaia di camini spenti, con i cancelli chiusi e con i binari ferroviari, fra i quali cresceva l'erba. Gli altiforni cadevano in rovina, le miniere si allagavano, venivano bruciate le semine e tagliati gli alberi da frutto, si abbatteva il bestiame di razza, si distruggevano enormi quantità di materie prime e di prodotti commestibili. Il danno materiale provocato dalla crisi non fu inferiore per le sue dimensioni alle perdite della guerra mondiale del 1914-1918. Volendo aiutare i maggiori gruppi monopolistici, le banche e le industrie belliche, i governi borghesi concedevano prestiti, garanzie creditizie, sussidi, commesse militari, esenzioni dalle tasse eccetera. Nel giugno del 1931 il governo degli Stati Uniti proclamò la moratoria di un anno per tutti i debiti internazionali e per le riparazioni; nella conferenza di Losanna del giugno-luglio 1932 le potenze occidentali approvarono la decisione di condonare alla Germania 3 miliardi di marchi oro delle sue riparazioni di guerra. Nell'interesse dei grossi monopoli vennero attuati anche provvedimenti sulla "regolamentazione" e "pianificazione" dell'industria, dell'agricoltura e delle attività bancarie. Su alcune imprese venne stabilito il controllo statale. Tutte queste misure crearono condizioni favorevoli per l'ulteriore sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato.

Nel frattempo la classe operaia, il ceto contadino, tutti i lavoratori erano destinati alla miseria e alla fame. All'inizio del 1932 nei paesi capitalisti si contavano più di 26 milioni di disoccupati, trascurando quelli parziali, che lavoravano solo 1-2 giorni la settimana. Un'enorme massa di braccia operaie "eccedenti " si era formata nei paesi coloniali. Servendosi della disoccupazione i monopolisti riducevano in continuazione i salari agli operai.

La classe operaia perse le conquiste economiche raggiunte in lunghi anni di tenace lotta. Dimensioni senza precedenti raggiunsero i dissesti e la miseria delle masse di milioni di contadini piccoli e medi. Peggiorò nettamente la situazione della piccola borghesia cittadina e degli intellettuali.

La crisi economica mondiale pose fine alla stabilizzazione relativa del capitalismo. L'incapacità del sistema borghese di utilizzare le forze produttive della società e di assicurare sopportabili condizioni di esistenza alle masse popolari era ormai pienamente provata. La fiducia nel sistema capitalistico dell'economia era venuta meno tra vasti strati della popolazione, e l'amarezza per la situazione venutasi a creare portò alla diffusione di orientamenti anticapitalistici.

Le lotte economiche dei lavoratori sviluppatesi in molti paesi si trasformarono in lotte politiche. In Spagna, ad esempio, negli anni della crisi scoppiò una rivoluzione; una acuta tensione politica si era creata in Germania, in Italia, in Giappone, in Polonia e in altri Stati capitalisti. Riprese slancio il movimento di liberazione nazionale nelle colonie e nei paesi semicoloniali.

D'altra parte l'instabilità del dominio della borghesia rafforzava la tendenza dei circoli governativi a rinunciare al parlamentarismo e a instaurare la dittatura fascista per schiacciare il movimento operaio e comunista.

La crisi economica mondiale esercitò anche un grande influsso sulla situazione internazionale. Le tendenze aggressive affermatesi nella politica delle potenze imperialiste provocarono la formazione dei focolai di una nuova guerra mondiale: uno di questi si formò in Estremo Oriente con l'attacco degli imperialisti giapponesi contro la Cina, l'altro sorse al centro dell'Europa a seguito dell'instaurazione in Germania della dittatura fascista di Hitler. Gli imperialisti vedevano nella guerra un mezzo di lotta contro lo Stato sovietico, contro il proletariato rivoluzionario dei paesi capitalisti, contro il movimento di liberazione nazionale dei paesi coloniali e dipendenti, nonché il mezzo per risolvere le proprie contraddizioni.