www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 05-11-08 - n. 248

da Accademia delle Scienze dell'URSS, Storia universale vol IX, Teti Editore, Milano, 1975
trascrizione a cura del CCDP

CAPITOLO IX

La crisi economica nei paesi capitalisti negli anni 1929-1933

1 Il sorgere e lo sviluppo della crisi economica mondiale
2 Gli Stati Uniti d'America

3 IL GIAPPONE

GLI EFFETTI DELLA CRISI ECONOMICA MONDIALE E LA LOTTA DI CLASSE

La crisi economica mondiale si manifestò in Giappone in forma straordinariamente acuta. Il valore totale della produzione industriale scese, nel 1931, del 32,4% nei confronti del 1929; il volume dell'industria estrattiva e dell'industria pesante fu quasi dimezzato. La esportazione dei principali prodotti si ridusse di oltre i 2/3.

Durante la crisi si rafforzò il processo di concentrazione della produzione e del capitale. Nel 1929 si contavano nel paese 21 associazioni monopolistiche; nel 1930 esse erano già 31 e nel 1931 ne sorsero altre 23. La concentrazione della produzione avveniva a spese delle piccole e medie imprese, incapaci di sostenere la concorrenza dei grossi monopoli.

I monopolisti durante la crisi attaccarono il livello di vita dei lavoratori. I salari degli operai subirono continue riduzioni; nei rami fondamentali dell'industria essi diminuirono dal 25 al 45%. Nel 1931 c'erano nel paese 3 milioni di disoccupati.

Tesa era anche la situazione nelle campagne. Il prezzo del riso era calato nel 1931 di oltre la metà in confronto al 1929, mentre scendevano anche i prezzi degli altri prodotti agricoli. Si accrebbe invece nettamente l'indebitamento delle aziende contadine. Approfittando dell'impossibilità dei contadini di far fronte ai loro debiti, i proprietari fondiari li cacciavano dalle loro terre e utilizzavano i numerosi disoccupati, ritornati dalle città dopo i licenziamenti dalle officine e dalle fabbriche, per rompere i vecchi rapporti tradizionali con i contadini affittuari. Molti proprietari fondiari, che avevano tolto la terra agli affittuari, si rifiutarono di concludere nuovi contratti di affitto e presero a condurre le loro aziende con manodopera salariata.

Le masse lavoratrici difesero tenacemente i loro interessi vitali. I lavoratori scesero in lotta contro i licenziamenti, le riduzioni del salario, l'aumento della giornata lavorativa. Nel 1931 gli scioperi furono due volte e mezza più numerosi che nel 1928. Questi scioperi si distinsero per la loro grande forza organizzativa e per la loro durata. Nelle campagne si sviluppò il movimento di massa dei contadini. Nei primi tre anni di crisi il numero dei conflitti nelle campagne superò gli ottomila. I contadini chiedevano l'annullamento dei debiti dovuti ai proprietari fondiari, la riduzione degli affitti, e avanzarono la parola d'ordine "la terra ai contadini". Una vasta diffusione ebbe la forma di lotta consistente nel rifiuto collettivo di pagare le tasse e i debiti ai proprietari fondiari. Spesso i contadini incendiavano le case di campagna dei proprietari fondiari.

Grande ampiezza assunse la lotta dei disoccupati che facevano dimostrazioni chiedendo l'assegnazione di sussidi, la distribuzione gratuita delle scorte di riso, l'esenzione dal pagamento degli affitti delle abitazioni, l'introduzione di assicurazioni contro la disoccupazione a spese degli imprenditori.

Gli intellettuali d'avanguardia s'inserirono attivamente nel movimento contro il capitale monopolistico. Sorsero in questi anni nuove organizzazioni democratiche, quali la "Lega della medicina proletaria", la "Lega del teatro di sinistra", la "Lega degli scrittori proletari"eccetera. Nonostante le persecuzioni da parte della polizia, esse svilupparono con successo la loro attività. Nel tentativo di schiacciare il movimento operaio e democratico, i circoli governativi ricorsero alle repressioni aperte. Le incursioni della polizia contro le organizzazioni sindacali, la bastonatura dei partecipanti agli scioperi e gli arresti in massa divennero un fenomeno quotidiano. Nel 1930 vennero arrestate 6000 persone, nel 1931 .più di 10.000. Si rafforzò anche l'attività di organizzazioni terroristiche, quali la "Hakurokai"(Società del lupo bianco), la "Jimmukai"(Società dell'imperatore Jimmu) eccetera. I membri di queste organizzazioni effettuavano azioni terroristiche contro i dirigenti del movimento operaio, disperdevano le assemblee operaie, attaccavano le sedi dei sindacati.

I COMPLOTTI MILITARI FASCISTI

L'oligarchia finanziaria del Giappone tendeva sempre maggiormente verso l'instaurazione di un "governo forte". Lo strumento per realizzare questo fine doveva essere il ceto militare, i cui rappresentanti sottoponevano a violente critiche i partiti parlamentari, "Minseito"e "Seiyukai", per la loro incapacità di assicurare un "ordinamento solido", e chiedevano apertamente la liquidazione del sistema parlamentare e il passaggio alla dittatura militare.

Nel marzo e nell'ottobre del 1931 vennero scoperti complotti, che avevano per scopo la preparazione di colpi di Stato per l'instaurazione della dittatura militare. Essi erano diretti da un esponente del movimento fascista, Okova Shumei e dall'ufficiale Hashimoto Kingoro.

Una particolare attività venne manifestata in quest'epoca dai cosiddetti "giovani ufficiali", in prevalenza provenienti dai ceti dei piccoli e medi proprietari fondiari (gli ufficiali superiori provenienti dall'antica nobiltà feudale-militare e che avevano partecipato alla guerra russo-giapponese del 1904-1905 erano denominati "i vecchi"). I "giovani ufficiali"esprimevano malcontento verso la vecchia burocrazia e l'ambiente dei generali a essa legato, considerandoli un ostacolo sulla strada del loro avanzamento nella carriera militare. Nella primavera del 1932 cominciò a formarsi un raggruppamento, capeggiato dal leader dei "giovani ufficiali", il generale Araki. Aderirono a esso l'Unione dei riservisti, i rappresentanti della Associazione dei proprietari fondiari, la Società agricola imperiale e alcuni deputati degli agrari.

All'inizio del maggio 1932 l'organizzazione fascista "Federazione nazionale dei giovani ufficiali"diffuse manifestini, in cui attaccava demagogicamente i monopoli e prometteva il proprio aiuto al popolo nella lotta contro le speculazioni dei gruppi commerciali, dei "politicanti"e degli "amanti del facile arricchimento". Il 15 maggio i ribelli fascisti penetrarono a viva forza nella residenza del premier Inukai e lo uccisero, gettarono bombe contro il palazzo del governo e le sedi del partito "Seiyukai"e del gruppo monopolistico Mitsubishi. Il loro tentativo d'instaurare una aperta dittatura militare non ebbe però successo. La demagogia anticapitalistica dei fascisti apparve pericolosa alla classe dominante. Il governo fece disarmare i ribelli e arrestare una parte di essi. Tuttavia il principale responsabile del complotto, il generale Araki, non venne arrestato, anzi ebbe il portafoglio di ministro della guerra nel nuovo gabinetto di "unità nazionale", chiamato a quietare la indignazione popolare.

L'INASPRIRSI DELLE CONTRADDIZIONI IMPERIALISTE NELL'ESTREMO ORIENTE. L'INVASIONE DELLE TRUPPE GIAPPONESI NELLA CINA NORD-ORIENTALE

Negli anni della crisi economica i monopolisti giapponesi, statunitensi e britannici si scontrarono aspramente in Cina per i mercati di smercio dei loro prodotti, per gli investimenti dei capitali e per le sfere d'influenza economico-politica, allo scopo di alleggerire la loro situazione economica mediante la spoliazione del popolo cinese.

Nel 1931 gli Stati Uniti elaborarono un progetto per la concessione di un prestito cosiddetto "dell'argento"per il riscatto delle ferrovie cinesi, allora in mano ai giapponesi. La Banca d'America a Shanghai decise di istituire alcune decine di sue succursali nel nord-est della Cina, con un ufficio centrale a Charbin. Nello stesso anno gli Stati Uniti occuparono il primo posto nel commercio cinese, facendo retrocedere il Giappone al secondo e la Gran Bretagna al terzo. I1 Giappone non voleva rassegnarsi al fatto che le più importanti posizioni in Cina, destinata a diventare nei suoi intenti una propria colonia, passassero nelle mani degli americani. Sconfitti sul piano della concorrenza economica, i giapponesi tentarono una via d'uscita, gettandosi in avventure militari. Obiettivo immediato dell'aggressione giapponese fu la Manciuria (la Cina nord-orientale), le cui ricchezze economiche e la cui posizione strategica attiravano il Giappone sia per se stesse sia in vista di future azioni aggressive contro la Cina e l'Unione Sorvietica. Gli ulteriori obiettivi dell'aggressione erano lo Jehol (Sheho) e il Ch'ahar e successivamente la Repubblica popolare di Mongolia e l'Estremo Oriente sovietico.

Entrando in scena con il piano della creazione del "grande Giappone"(un vasto impero coloniale, che avrebbe incluso i territori della Cina, dell'Estremo Oriente sovietico e vaste regioni dell'Asia centrale), la cricca militarista giapponese contava di poter sfruttare nel proprio interesse gli atteggiamenti antisovietici dei circoli governativi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Francia e delle altre potenze imperialiste, e per questo motivo presentava la sua aggressione soprattutto come lotta contro la "minaccia comunista".

La diplomazia giapponese sviluppò in questa direzione una grande attività, mentre lo stato maggiore generale completava il piano operativo per la conquista della Cina nord-orientale. Nell'estate del 1931 il Giappone aveva completato la preparazione per l'attacco alla Cina. Il momento scelto gli sembrava assai favorevole, perché i concorrenti imperialisti del Giappone erano distolti dal problema cinese a causa della crisi economica mondiale. Nella stessa Cina era scoppiata la guerra civile, che veniva descritta dalla propaganda giapponese come una "minaccia rossa".

II 18 settembre 1931 le truppe giapponesi iniziarono l'invasione della Cina nord-orientale. In 5 giorni esse occuparono tutti i principali centri delle province di Kirin e del Liaoning, e approfittando della politica di capitolazione del governo di Chiang Kaishek si impadronirono di Charbin, Tsitsihar e nel febbraio del 1932 sottoposero al loro controllo tutta la Cina nord-orientale.
Nel gennaio del 1932 i militaristi giapponesi tentarono di occupare Shanghai, ma l'eroica resistenza degli operai della città e di alcuni reparti della XIX armata cinese fece fallire il loro tentativo.

L'ATTEGGIAMENTO DELLE POTENZE OCCIDENTALI DI FRONTE ALL'AGGRESSIONE GIAPPONESE

Sebbene l'aggressione giapponese alla Cina toccasse gli interessi delle potenze occidentali e violasse il trattato di Washington, il "patto Briand-Kellogg"e lo statuto della Società delle Nazioni, i circoli governativi di questi paesi attuarono una politica di connivenza con l'aggressore, rifornendo il Giappone di materiale strategico-militare e favorendo in tutti i modi la sua aggressione contro il popolo cinese. Alla base di questo atteggiamento stavano il loro odio contro la rivoluzione cinese e verso l'Unione Sovietica e il calcolo che lo sviluppo degli avvenimenti avrebbe portato a una guerra nippo-sovietica, nella quale ambedue le parti si sarebbero seriamente indebolite.

Le truppe giapponesi, dopo aver occupato la Cina nord-orientale, cominciarono ad avanzare verso sud, verso quelle regioni dove le potenze occidentali, in primo luogo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, avevano grossi interessi industriali e finanziari. Provocò particolare inquietudine tra i monopolisti britannici e americani il tentativo giapponese di occupare Shanghai, principale centro del commercio britannico in Cina e importante zona d'investimento del capitale americano. Le ditte americane avevano a Shanghai 400 succursali: appartenevano loro la centrale elettrica, le aziende municipali, le aviolinee. Verso il 1932 gli Stati Uniti occupavano il primo posto nell'importazione di merci a Shanghai. Il governo americano tentò di arrestare l'avanzata giapponese verso Shanghai. Il 7 gennaio 1932 il segretario di Stato Stimson inviò al Giappone e alla Cina note identiche, nelle quali si affermava che gli Stati Uniti non riconoscevano e non avrebbero riconosciuto nessuna nuova situazione, "che potesse pregiudicare i diritti derivanti agli Stati Uniti o ai suoi cittadini in Cina dai trattati, nonché la sovranità, l'indipendenza, l'intangibilità territoriale e amministrativa della Cina, come pure la politica internazionale nei confronti della Cina", cioè la politica della "porta aperta". La proclamazione di questa cosiddetta "dottrina del non riconoscimento"era una prova dell'acutizzarsi delle contraddizioni nippo-americane. In sostanza però essa mirava a limitare l'aggressione giapponese alle regioni gravitanti verso i confini dell'Unione Sovietica.

I governi della Gran Bretagna e della Francia non si associarono alla "dottrina del non riconoscimento", perché speravano di accordarsi col Giappone per garantire i propri interessi in Cina senza la partecipazione degli Stati Uniti.
II governo britannico pubblicò 1'11 gennaio 1932 un comunicato nel quale dichiarava di essere soddisfatto delle precedenti affermazioni del Giappone sul riconoscimento della politica della "porta aperta"nella Cina di nord -est.

Neppure la Società delle Nazioni si oppose all'estensione dell'aggressione in Cina. La politica di acquiescenza nei confronti dell'aggressione favorì l'approfondirsi della crisi in Estremo Oriente. Il consiglio della Società delle Nazioni, il 21 settembre del 1931, esaminò la questione dell'aggressione armata del Giappone alla Cina di nord-est. Dopo una sterile discussione di tre mesi, venne formata, sotto la presidenza del britannico Lytton, una commissione composta da rappresentanti di cinque Stati: Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Italia e Germania, per lo studio della situazione nella Cina nord-orientale. Ma la commissione Lytton si pose al lavoro soltanto nella primavera del 1932. Nel frattempo i militaristi giapponesi, volendo mettere la commissione davanti al fatto compiuto, accelerarono la riorganizzazione della Cina nord-orientale. Il 29 febbraio 1932 essi inscenarono a Mukden una conferenza "panmanciuriana", che qualche giorno dopo elesse l'ex imperatore della Cina P'u-I a "reggente"del nuovo Stato del Manciukuò. La commissione Lytton giunse nella Cina nord-orientale soltanto alla fine di aprile. Lo studio della situazione e la preparazione della relazione si protrassero per molti mesi. Nel frattempo, il 14 giugno 1932 il parlamento giapponese approvò la decisione di riconoscere de iure il Manciukuò e il 15 settembre tra il Giappone e lo Stato fantoccio venne sottoscritto un protocollo, che dava ai militaristi giapponesi possibilità illimitate di spadroneggiare nel nuovo Stato.

II 2 ottobre 1932 venne pubblicata finalmente la relazione della commissione Lytton sulla situazione in Cina. La commissione descriveva con preoccupazione e timore l'ascesa delle forze popolari della Cina e le attività del partito comunista. Definendo aggressiva l'occupazione da parte del Giappone, essa proponeva di lasciare la Cina nord-orientale sotto la sovranità cinese con un'autonomia protetta dalle grandi potenze. L'internazionalizzazione della Cina nord-orientale mirava in realtà a trasformarla in zona di sfruttamento per il capitale internazionale.

Per circa 5 mesi alla Società delle Nazioni si assistette a una dura lotta tra gli imperialisti per la spartizione della Cina. Soltanto il 24 febbraio 1933 l'assemblea approvò, sulla base della relazione della commissione Lytton, una risoluzione nella quale si proponeva di regolare la questione cinese in conformità allo statuto della Società delle Nazioni, al "patto Briand-Kellogg"e al trattato di Washington delle nove potenze. La risoluzione richiedeva lo sgombero delle truppe giapponesi dalla Cina nord-orientale, ma riconosceva i particolari interessi del Giappone in queste regioni. All'approvazione di questa risoluzione il Giappone rispose uscendo dalla Società delle Nazioni ed estendendo ulteriormente l'aggressione. Verso la metà di maggio del 1933 le truppe giapponesi penetrarono nella provincia dell'Hopeh. Nonostante la superiorità numerica delle sue truppe, il Kuo Min Tang capitolò e il 31 maggio firmò un accordo con i giapponesi per la trasformazione della parte nord-orientale di questa provincia in una zona smilitarizzata. L'accordo proditorio aprì agli aggressori la strada verso Pechino e Tientsin. I militaristi giapponesi fecero allora vasti preparativi militari per nuove conquiste.

LA LOTTA DEL PARTITO COMUNISTA DEL GIAPPONE CONTRO LA REAZIONE E LA GUERRA

Il Partito comunista del Giappone condusse una coraggiosa lotta contro la politica reazionaria dei militaristi giapponesi e l'aggressione da essi intrapresa contro la Cina. Immediatamente dopo l'invasione da parte delle truppe giapponesi della Cina nord-orientale, nel settembre 1931, il partito comunista rivolse al popolo giapponese un appello, in cui si diceva:

... verso la Manciuria e verso la Cina rivoluzionaria e successivamente verso l'Unione Sovietica, questo è il programma dell'imperialismo giapponese, il fautore della reazione nell'Estremo Oriente... Operai, contadini, soldati! Lottate contro il pericolo della nuova guerra imperialista! In difesa dell'Unione Sovietica! ". Katayama Sen, Yamamoto Kenzo, Nosaka Sanzo (Okano Susumu), che si trovavano all'estero, e altri comunisti giapponesi si rivolsero con appelli a tutti i lavoratori del mondo. Nelle fabbriche e nei reparti militari sorsero nuove cellule del partito, si tennero riunioni segrete contro la guerra. Il 7 novembre 1931 riunioni segrete vennero dedicate all'anniversario della rivoluzione socialista d'ottobre.

L'organo centrale del partito comunista "Sekki"(Bandiera rossa) smascherava conseguentemente le misure aggressive del governo, popolarizzando contemporaneamente la politica pacifica dell'Unione Sovietica. Nel "Sekki"si pubblicavano lettere di soldati e marinai. Venne anche avviata la pubblicazione dei giornali "Heishi no Tomo" (L'amico del soldato) e "Takai Masuto" (L'albero più alto) e venne pubblicato un opuscolo antimilitarista, Ai soldati.

All'inizio del 1932, in coincidenza con la coraggiosa difesa di Shanghai da parte degli operai e dei soldati cinesi, si rafforzò nell'esercito giapponese lo spirito antimilitarista. Il comando fu obbligato a ritirare dal fronte alcune centinaia di soldati e marinai e a rimandarli in Giappone, e furono effettuati arresti fra i soldati giapponesi in Corea che si erano rifiutati di partire per la Cina. Nel marzo del 1932 nel 15° reggimento di fanteria giapponese si verificò uno scontro di soldati con la gendarmeria. Nella regione di Kanazava un gruppo di mogli di mobilitati si presentò alla caserma richiedendo il ritorno a casa dei mariti. Nella regione di Himeji, davanti a una grande folla, alcune donne tentarono di fermare un treno militare, distendendosi sui binari e gridando: "Non permetteremo che i nostri figli e mariti vadano alla morte".

I1 1° agosto 1932 e 1933 venne celebrata, in Giappone, su iniziativa del partito comunista, la giornata internazionale contro la guerra. Nelle dimostrazioni venne avanzata la richiesta dell'immediato richiamo delle truppe dalla Cina, dalla Corea, da Taiwan e furono diffusi gli appelli "Difendete l'Unione Sovietica e la rivoluzione cinese!", "Contro la guerra imperialista!", "Per la libertà, per un governo operaio-contadino!". Il governo fece ricorso a misure terroristiche contro il partito comunista e le organizzazioni progressiste. Decine di migliaia di persone vennero arrestate, i dirigenti del partito comunista Ivata Yoshimichi e Ueda Shigeki vennero uccisi dalla polizia. Nel 1933 morì in carcere Kobayashi Takiji, noto scrittore rivoluzionario. In quello stesso anno vennero soppresse le organizzazioni di sinistra "Lega della medicina proletaria" ,"Lega del teatro di sinistra", "Lega degli scrittori proletari". Gli agenti della polizia segreta, penetrati nelle file del partito comunista, svolsero attività provocatorie, riuscendo a ottenere lo scioglimento del partito. Questi fatti posero i comunisti e i progressisti giapponesi dinanzi a nuove gravi prove.

4 La Germania (prossima pubblicazione)
5 La Gran Bretagna (prossima pubblicazione)
6 La Francia (prossima pubblicazione)
7 L'Italia (prossima pubblicazione)
8 La Spagna (prossima pubblicazione)
9 I paesi dell'Europa Centrale e Sud Orientale (prossima pubblicazione)