www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 04-02-09 - n. 259

da Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. 1, Savelli, 1977, pp.. 141-157
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Il primo moto contadino unitario:il macinato (1869)
 
Nel 1869 l'Italia e ormai una dalle Alpi alla Sicilia (anche se Roma sarà unita un anno dopo): ma l'Unità si è compiuta a spese e sulle spalle delle classi subordinate italiane che stanno pagando la creazione del mercato unico nazionale con la loro miseria e la loro fame.
 
Lo Stato Italiano è infatti monopolio di un ristretto gruppo di grossa borghesia soprattutto agraria (nel 1860 sono elettori solo l'1,92% dell'intera popolazione), mentre oltre l'80% della popolazione è formata da contadini quasi tutti analfabeti (gli analfabeti nazionalmente ammontano al 75% dell'intera popolazione; nel solo meridione sono il 90%). E' il nostro, quasi cento anni fa, un paese esclusivamente agricolo con strutture economiche ancora prevalentemente feudali, mentre il capitalismo comincia a penetrare nelle campagne sconvolgendovi l'ordine sociale preesistente. La borghesia, occupate le amministrazioni comunali, abolisce gli usi civici impoverendo i servi-coloni privati di tali usi (legnatico, pascolatico, ecc.) e incamera i beni ecclesiastici che rivende all'asta concentrandoli in poche mani: infatti, malgrado queste alienazioni, il numero dei proprietari agricoli, anziché aumentare, diminuisce. Sugli italiani pesa un enorme fiscalismo che, essendo per il 65% formato da tributi indiretti, degrada alla miseria più nera le masse contadine. Del resto l'altro 35%, formato da tributi diretti, è dato soprattutto dall'imposta fondiaria che colpisce i piccoli proprietari, e subito dopo dalla imposta di ricchezza mobile che colpisce i redditi più bassi della sorgente piccola borghesia. Oltre a ciò gravano le finanze comunali e provinciali i cui redditi principali sono il dazio sui consumi e la sovraimposta fondiaria.
 
In questa situazione di arretratezza economica l'ordine preesistente nelle campagne è in crisi: vengono spezzati ad uno ad uno i mercati locali nell'evoluzione verso un mercato unico nazionale, e ciò provoca un ulteriore abbassamento del tenore di vita. Diminuisce il consumo degli alimenti, senza che ancora la trasformazione capitalistica sia in grado di portare i manufatti nelle campagne in copia e a prezzi vantaggiosi. È in questo mondo di cronica debolezza economico-sociale della popolazione agricola italiana ed in mezzo a gruppi di contadini espropriati che viene approvata il 21 maggio 1868 una legge che istituisce, con decorrenza dal 1 gennaio 1869, una imposta sul macinato (di L. 2 ogni q.le di grano, L. 1 per ogni q.le di granoturco o segale, L. 1,20 per l'avena e L. 0,50 per i legumi secchi e castagne).
 
Tale provvedimento è l'ultima goccia che fa traboccare il vaso e getta nella miseria, nella fame e nella disperazione le masse dei lavoratori italiani. «Il macinato» nota acutamente Gramsci (Il Risorgimento, pag. 161) «era insopportabile per i piccoli contadini che consumavano il poco grano prodotto da loro stessi; e la tassa del macinato era causa di svendite per procurarsi il denaro ed occasione di pratiche usurarie pesantissime. Bisogna collocare la tassa nel suo tempo, con una economia familiare molto più diffusa di ora: per il mercato producevano i grandi e medi proprietari; il piccolo contadino (piccolo proprietario o colono parziario) produceva per il proprio consumo e non aveva mai numerario: tutte le imposte erano per lui un dramma catastrofico; per il macinato si aggiungeva l'odiosità immediata».
 
Le masse sono spinte a un moto disperato e nello stesso tempo unitario, spontaneo ed unanime. Per la prima volta dalle Alpi alla Sicilia il mondo contadino (e questa sarà la caratteristica principale dei moti) si muove per le stesse rivendicazioni: la fame e la disperazione unificano il mondo subalterno del Nord e del Sud. Non è un caso che l'epicentro della rivolta sia l'Emilia dove in anticipo il capitalismo sta penetrando nelle campagne e dove alle provvidenze paternalistiche — ben descritte dal Manzotti — dei precedenti governi si sostituisce ora «la mentalità dell'espropriato» dove la concentrazione della proprietà e la cultura capitalistica stanno formando un numeroso, bracciantato agricolo.
 
Questi moti sono ancora oggi pressoché sconosciuti; trattasi di una storia tutta ancora da scrivere. Ma prima ancora che possa essere scritta una storia complessiva ed organica occorrerà una serie di approfondite monografie su ognuna delle mille località ove, in modo slegato e disorganico, avvennero moti contro il macinato. Storia da scrivere attraverso ricerche difficilissime di archivi quasi sempre locali, su tracce tenuissime, molto spesso introvabili o indecifrabili. Si tratta di reperire e di ricostruire su terreno regionale, provinciale e ancor più comunale tutta la fitta trama dei cento e cento episodi, moltissimi ancora oggi completamente ignorati. Ad eccezione dell'opera, vecchia di almeno trenta anni, di Nello Rosselli, che rimane l'unica del genere, niente è stato scritto in linea generale. E sul piano locale niente è stato detto per le varie regioni italiane ad eccezione dell'Emilia i cui avvenimenti sono stati studiati dalle recenti monografie di Renato Zangheri e di Fernando Manzotti. La particolare condizione di vantaggio nella quale si trova l'Emilia per la cura nei dettagli con cui sono stati analizzati quei moti indica che l'Emilia stessa fu il punto di maggiore intensità del movimento, ma non esclude la vastità delle sommosse nelle altre regioni e rivela la necessità di una serie di indagini anche per le zone dimenticate.
 
Si tratta perciò da parte di urta generalità di studiosi di iniziare una serie di ricerche minuziose, di esaminare archivi quasi sempre locali, di rivedere gli atti dei processi, di riesaminare vecchie carte e documenti, particolarmente di parrocchie, di Enti, di Prefetture e di Questure, di verificare le poche notizie di fonte ufficiale che i dirigenti borghesi emanarono allora a mezzo della stampa, quasi sempre deformandole, il tutto per mettere in luce un episodio importante e sconosciuto della storia delle classi subalterne nell'Italia di neppure cento anni orsono. Data la frammentarietà dei fatti che avvennero nei mille campanili d'Italia occorre indirizzare in mille rivoli e in mille direzioni le ricerche e gli studi degli specialisti, prima di poter sperare che uno o più storici forniscano una visione unitaria di quei moti.
 
Sul piano generale d'altra parte la storiografia ufficiale accenna ad una crisi economica nelle campagne, sfruttata dal clero antiunitario: niente più e niente altro di moti inconsulti di plebi arretrate sobillate dal retrivo Vaticano in lotta contro lo Stato Italiano. La verità al solito è molto diversa trattandosi di un moto unitario notevole: infatti dal dicembre 1868 al febbraio 1869 in migliaia di paesi della penisola le masse contadine e paesane scesero nelle piazze di piccole località, anche le più sperdute, in manifestazioni e sommosse che trascesero l'ambiente locale per snodarsi e fondersi su scala e con ampiezza nazionale. Tali moti investirono tutta Italia divampando dal Veneto al Molise, dal Piemonte alle Marche, dalla Lombardia alla Basilicata, sino all'Emilia, alla Campania, alla Toscana ecc. Si ebbero complessivamente 257 morti, 1.099 feriti e 3.788 arrestati secondo dati ufficiali da ritenersi sicuramente incompleti (36).
 
Per noi oggi, alla luce delle fonti conosciute ed in attesa di nuove ricerche, non è possibile che riunire organicamente quel poco che già si sa, fornendo delle conclusioni tutte ancora da verificare.
 
La legge pubblicata, come abbiamo detto, il 21 maggio 1868 e che doveva entrare in vigore col 1° gennaio 1869 si presentava anche per la classe borghese al potere di difficile applicazione, ben intuendo il Parlamento che in un paese povero e ridotto all'estremo come era l'Italia d'allora, essa poteva essere fonte di fame assoluta e di perturbamenti. Ma le necessità imperiose del bilancio, la debolezza organica della classe dirigente che non poteva che far pagare le conseguenze della crisi alle classi soggette e la sicurezza che la plebe, come sempre, potesse subire senza reagire, fecero sì che il Governo italiano facesse approvare prima ed eseguire poi la più impopolare legge che mai sia stata emanata in Italia.
 
Per comprendere come la classe dirigente ignorasse ogni problema delle masse popolari basterà rileggere il discorso del deputato G. Massari sul macinato, tenuto alla Camera il 24 gennaio 1869, (che fu ed è considerato come il maggiore e più profondo studio della classe dirigente sulle ripercussioni che la legge ebbe nel paese) per vedere con meraviglia come non vi sia traccia di alcuna analisi economico-sociale dell'avvenimento e tutto si riduca a una lotta in famiglia tra parlamentari della destra e della sinistra. Il Paese non esiste, né punto né poco: ogni elucubrazione ideologica si riduce alla necessità di seguire l'esempio del parlamento inglese che in un'altra nazione, in altra situazione, e con altri uomini, aveva preso certi provvedimenti. Se queste erano le esercitazioni della classe dirigente a moti avvenuti, ancor meno tale classe dirigente poteva possedere il senso della reale situazione prima dei moti.
 
D'altra parte i mezzi per dare esecuzione alla legge si presentarono sin dall'inizio difettosi, dato che nell'autunno inoltrato i contatori che dovevano essere installati nei mulini non erano ancora stati costruiti e ci si dovette acconciare al sistema di far pagare la tassa sulla base di un accertamento presuntivo della macinazione di ciascun mulino. A garanzia del pagamento ogni mugnaio doveva versare una cauzione e farsi lui stesso esattore della tassa esigendo il pagamento all'atto di ogni singola macinazione.
 
Il fatto della difficoltà del pagamento della cauzione insieme a dover fare da esattori quindi rendersi invisi alla popolazione creò grande resistenza tra i mugnai che non volevano assoggettarsi a pagare una tassa tanto più gravosa in quanto scarso si presentava il lavoro per i mugnai nei primi mesi del 1869, avendo i contadini già macinato in precedenza quasi tutto il grano disponibile in previsione dell'applicazione della tassa stessa. Tutti questi motivi allinearono i mugnai con il restante della popolazione nell'insoddisfazione e nella resistenza verso la tassa; tanto ché con i primi dell'anno si ebbero numerosissimi casi di chiusura dei molini in un vero e proprio sciopero dei mugnai. La tassa del macinato, già avversata da tutte le masse coloniche e paesane d'Italia, divenne così ancora più odiosa a seguito della chiusura dei molini.
 
Le ripercussioni della legge impopolare sono immediate se già qualche giorno prima del fatale 31 dicembre 1868 le masse delle campagne si pongono in movimento: danno il via il 21 dicembre i contadini di Gattatico (Reggio Emilia) con una manifestazione a conclusione della quale si presenta al Sindaco una domanda scritta per l'abolizione della legge. Il 27 dicembre i coloni del veronese (Nogarole di Villafranca) protestano e si pongono in agitazione (37); il 27 a Collecchio (Parma) si manifesta contro i mugnai; il 27 e 28 a Castelnuovo di Sotto (Reggio E.) si calpesta la bandiera nazionale.
 
Con i primi dell'anno il movimento si fa generale: tumulti avvengono nelle provincie di Reggio Emilia (38), Parma (39), Bologna, Torino e Firenze (Pontassieve). Torme di contadini in sommossa con una bandiera in cui è scritto «abbasso il macinato», scontrandosi con la forza pubblica e i bersaglieri, invadono il 2 gennaio la città di Parma ove è tentata un'insurrezione con un principio di barricate, in mezzo alle campane che suonano a stormo.
 
Il 2 gennaio si levano a sommossa nel reggiano e nel parmense tra l'altro Poviglio, Bruscello, Fodico, Meletole, Coreggio e San Martino del Rio ove si disarmano due carabinieri, mentre l'intero comune di Reggio è in tumulto.
 
Sull'Appennino reggiano, dal 2 al 4 gennaio, insorge il comune di Casina, vicino a Cerreto, ove molte centinaia di contadini, guidati dal luogotenente e dal capitano della Guardia Nazionale, si scontrano con la truppa lasciando un ferito e vari prigionieri.
 
È in questa zona che i fratelli Manini formano una banda di guerriglieri sulla falsariga della guerra per bande già ideologizzata e talvolta attuata durante il risorgimento dai mazziniani. Erano appunto costoro dei repubblicani, e fu l'unico caso di saldatura tra democratici e contadini. La banda raccolse 50-60 individui tra repubblicani della G.N. e contadini e agì nella zona facendosi consegnare da molti mugnai i proventi della tassa (rilasciando regolari ricevute a nome «comandante» Secondo Manini) che restituirono ai contadini. Dopo alcuni giorni però, rifluendo il moto in tutta Italia, i contadini ritornarono alle loro case e rimasero alla macchia solo i repubblicani ormai compromessi. Dopo alcuni mesi anche costoro furono tutti arrestati. Sempre il 2 tumultuano Bagnolo in Piano, Cavriago ove la folla si impadronisce di 23 fucili, Novellara, Scandiano, Correggio e Fabbrico.
 
Tumulti, dimostrazioni, scontri avvengono in provincia di Cremona, Pavia, Piacenza, Bologna (40), Modena, Venezia, Vicenza, Cuneo, Verona, Arezzo, Lucca, Rovigo e in Carnia tra il 2 e il 5 gennaio (41).
 
Il 3 numerosi gruppi di contadini tentano ancora di entrare in Parma respinti dalle truppe e dalle guardie. Lo stesso giorno a Borgo S. Donnino viene invasa la sottoprefettura da 500 contadini che asportano le armi e le munizioni della Guardia Nazionale, feriscono un Carabiniere e una guardia e appiccano il fuoco all'archivio. Alla sera giunge la truppa e opera tredici arresti. Il giorno successivo la folla si scontra con un picchetto di soldati che uccidono due popolani e ne feriscono uno. A Sorogna si invadono le rivendite di sali e tabacchi e si acquista il sale sottoprezzo, mentre al grido di «abbasso il Re », «abbasso il Parlamento » si incendia l'archivio comunale (42).
 
Nei giorni 4, 5, 6 gennaio tutta l'Italia rurale settentrionale e centrale è contemporaneamente in fiamme. Riferisce il Manzotti che il 4 gennaio il movimento è divenuto così impetuoso che tutti i comuni della provincia di Bologna, eccettuati il capoluogo, Imola e Budrio (presidiati dalla truppa), sono ormai in mano al popolo tumultuante. Il 5 gennaio viene proclamato lo stato d'assedio nelle provincie emiliane di Bologna, Parma e Reggio Emilia che sono poste sotto il comando militare del generale Cadorna (lo stesso generale della repressione dell'insurrezione palermitana): ed egli al solito arresta, condanna e scioglie molti reparti della Guardia Nazionale che avevano fatto causa comune con la popolazione. Il Governo, di fronte ai moti, ha un solo rimedio: i generali e lo stato d'assedio (43).
 
Insorgono Abbiategrasso, Magenta, S. Polo, Ostiglia, Montecarugolo, Mezzentatico. Il 5 a Varignana (Imola) la sommossa viene repressa dalla truppa che uccide tre popolani e ne ferisce gravemente cinque. Il 7 gennaio a Parma continuano le dimostrazioni ed è l'esercito che reprime nel sangue la rivolta contadina e cittadina per le strade. Sempre il 7 a Cento di Ferrara si saccheggiano gli edifici pubblici (44). L'8 gennaio i contadini affamati della provincia di Mantova occupano le piazze dei paesi di Solarolo, Rodigo, Casteldario, Grazie e Curtatone al grido di «abbasso il macino», «abbasso il Governo», «Viva Radezski», mentre la truppa reprime e incarcera in massa.
 
Dopo la prima settimana, e quando ancora i moti continuano a divampare nel Nord e nel Centro Italia, si muove il Meridione con le provincie di Bari, Potenza, Campobasso (45) e, sembra, anche in Campania (il 6 gennaio a Avellino, secondo un rapporto al Ministro delle Finanze, 400 mulini sono chiusi).
 
Preziose le informazioni dello Zangheri circa la provincia di Bologna che è tutta intera scesa nelle piazze dei paesi in aperta ribellione contro lo Stato borghese: Castelmaggiore, Budrio, Minerbio, Castenaso, S. Maria in Duno, Molinella, Ozzano, San Lazzaro, Varignana, Bentivoglio, San Giorgio in Piano, Baricella, Altedo, Malalbergo, S. Agata. Anzola, Argine, Bassano, Trebbo, Cento, San Giovanni in Persiceto e tutta la zona circostante, Crevalcore, Pian di Voglio, Lizzano, Vergato, Castiglione, Pianoro, Porretta e decine di altre località grandi e piccole di pianura e di montagna sono in fiamme e danno ai moti un carattere di massa che né fa insurrezioni di popolani di interi circondari. Anche nelle zone già in stato d'assedio la lotta non accenna a diminuire se il generale Cadorna il 14 telegrafa da Parma al Cambray Digny: «I1 12 corrente migliaia montanari invasero Borgo Taro gridando abolizione macinato, ma furono respinti dalla truppa». A Camugnano, presso Torretta, 300 montanari occupano il Municipio e bruciano le carte delle tasse e della leva. Altre manifestazioni in montagna si hanno l’8 a Bardi (Appennino parmense).
 
Con il 15 gennaio i moti declinano per forza propria e per la repressione della truppa e dei carabinieri; senza alcuna guida, senza alcun piano e schiacciate dalla repressione, le masse contadine sono battute (46). Ma durante i primi quindici giorni dell'anno metà Italia — escluse le città — è nella mani delle masse contadine e paesane, le quali con meraviglia cominciano ad intravedere, per merito della cecità della classe nemica, la loro forza.
 
In quindici giorni l'unione delle mille sommosse, tra loro slegate, fornisce alle classi subordinate delle campagne la consapevolezza della loro incipiente autonomia, più e meglio di decine di anni di propaganda e di associazione. Non senza ragione negli anni che seguiranno L'Emilia diventerà «la rossa » e Parma la città delle insurrezioni (da quella sindacalista a quella armata nell'Oltretorrente contro i fascisti). Le avanguardie più agguerrite delle classi subordinate italiane avevano appreso, durante quei lontani quindici giorni dei moti del macinato, la primissima lezione della lotta di classe.
 
Quale fu l'ideologia che in modo elementare contraddistinse questi moti della fame? Fu ancora e non poteva che essere una ideologia reazionaria: non esisteva una classe operaia che potesse dirigere i contadini, come non esisteva una organizzazione autonoma contadina. I contadini, nel fuoco di quelle giornate, trovarono la loro ideologia in modo elementare e disorganico attraverso l'unico elemento culturale che era a loro conoscenza e cioè attraverso le parrocchie, intorno ai campanili, al suono a stormo delle campane.
 
Su ciò indubbiamente aveva influito l'atteggiamento in genere antiunitario del clero, che dopo l'unità d'Italia si era trasformato « ...da elemento moderato, che ispirava la rassegnazione... in elemento perturbatore, che semina nel cuore dei fedeli lo spirito di rivolta» (Rosselli). Molti preti, soprattutto quelli più a contatto con le masse contadine, propagandarono il malcontento e talvolta (ma in misura enormemente minore) parteciparono ai moti. Man mano però che le dimostrazioni perdono ogni carattere legalitario per assumere carattere di sommossa anche il basso clero si ritrae e i moti divengono un movimento spontaneo ed autonomo di contadini. Le loro grida rimangono: «Viva Pio IX», «Viva il Papa e la religione » e talvolta «Viva il Governo Austriaco». Esse però non sono in funzione di restaurazione, ma sono dettate dall'esigenza di riunirsi e di combattere in nome di una ideologia da loro conosciuta e in rottura con lo stato nemico.
 
I moti avvengono al grido di «Viva il Papa », o nel milanese «Viva il governo austriaco» o a Reggello «Viva le leggi antiche». Ma come poteva essere diversamente ove i proprietari terrieri si ammantavano di liberalismo unitario, ove la legge delle classi possidenti era rappresentata dai carabinieri del Re? Le masse contadine non avevano elaborato una loro ideologia autonoma; ma per loro queste parole d'ordine reazionarie concretizzavano in forma elementare una sostanza di aperta lotta di classe. Trattasi perciò In forma embrionale e quasi sempre inconsapevole di una rivolta sociale-contadina, anzi della prima rivolta contadinaria unitaria in Italia, anche se influenzata, ma non diretta, dal clero e da quella forma di religiosità primitiva tipica delle campagne arretrate ove l'unico legame culturale esistente per i contadini era dato dalla religione e dal campanile. La voce anonima del campanile, il richiamo delle campane a stormo, rimarrà (anche quando il clero si sarà ritratto in benevola neutralità nel momento culminante dei moti) l'unica voce capace di far scendere nelle piazze dei paesi le masse rurali in sommossa.
 
Che d'altra parte il clero come tale, anche se li fomentò e sollecitò, non abbia però diretto tali moti è concordemente riconosciuto da ogni fonte, e non solo da parte clericale che poteva avere interesse a tirare il sasso ed a nascondere la mano. Tale assenza di direzione del clero e del suo partito nei moti fu anche riconosciuta dagli organi del governo borghese-clericale, dal Parlamento e dalla stampa, che viceversa avrebbero avuto interesse ad ampliare l'apporto di una direzione antiunitaria da parte del Vaticano. Del resto, nota giustamente il Sabbatini, il sovversivismo clericale era di natura politico-religiosa e non politico-sociale perché «la frattura politica tra patrizi e borghesi clericali e patrizi e borghesi anticlericali, anche nei momenti di più aspra polemica ideologica, era superata sempre sul terreno dell'unità di classe contro i comuni nemici».
 
Gli organi di stampa clericali avevano protestato contro la tassa impopolare e propagandato tale avversione; alcuni parroci e più ancora alcuni elementi laici-clericali avevano fomentato ed in gran parte sollecitato tali manifestazioni; ma come abbiamo già detto, si assiste ad un affievolimento di tale direzione sino a lasciare i moti stessi in balia di loro medesimi in misura che questi si ampliano ed acquistano sempre maggiore carica sociale. La propaganda clericale servì invece e fu determinante nel neutralizzare in benevola attesa, o quanto meno in posizione di neutralità, gli strati intermedi della borghesia campagnola, che, pur non dirigendoli, non si opposero ai moti popolari. Così le masse contadine dei braccianti, dei piccoli proprietari e dei mezzadri e quelle artigiane dei paesi vennero a beneficiare, nella loro aperta rivolta, dell'assenza di opposizione (che talvolta era anche simpatia) da parte dei medi proprietari di campagna, dei fattori e degli altri strati intermedi.
 
È significativo, a dimostrazione della carica rivoluzionaria autonoma delle masse contadine, dell'assenza di direzione clericale e della benevola neutralità degli strati intermedi delle campagne, quanto ci dice lo Zangheri narrandoci i fatti che avvennero nella pianura di Bologna nel momento culminante dei moti, e che qui di seguito riportiamo riassumendoli. Il 5 gennaio tutta la pianura è in subbuglio e i contadini si impossessano dei fucili nei depositi della Guardia Comunale. Gruppi di contadini armati si presentano sulla via Emilia; a S. Cristoforo (com. Ozzano) invadono la caserma della Guardia Nazionale e si impadroniscono di 100 fucili; a Bentivoglio il 4 avviene uno scontro a fuoco con i carabinieri con molti uccisi tra questi e uno solo tra i civili (cioè per la prima volta cambia sintomaticamente la proporzione delle perdite tra truppa e rivoltosi). Al suono martellante delle campane migliaia di contadini si dirigono sul paese provenendo da tutti i paesi intorno con obbiettivo il grande mulino di Bentivoglio. Giungono da Minerbio in 300 con 100 fucili portando con sé il vicesindaco, da S. Maria in Duno con il Sindaco, 2.000 vengono da S. Giorgio in Piano con 300 fucili oltre a picche e mannaie con alla testa soldati in congedo che li guidano. Tutti chiedono che venga tolta la tassa e ritirata la truppa. I sindaci, d'accordo con l'autorità militare, propongono di presentare una istanza al Ministero per la sospensione della tassa, mentre per otto giorni si macinerà liberamente e la tassa sarà pagata dai comuni. Dopo cinque ore di discussioni i contadini accettano, e si scioglie l'assembramento. I contadini armati sono così battuti dalla tattica conciliatoria che ha impedito lo scontro diretto, ma tutti sono irritati e armati e si sconsigliano arresti e perquisizioni per impedire la rivolta.
 
Chi fissò gli obiettivi? Come si tennero i collegamenti? Indubbiamente sorsero capi improvvisati nel fuoco della sommossa — dice lo Zangheri — ed i contadini presero in mano per un momento la loro causa. In quel momento ci fu un embrione di organizzazione autonoma, in quel momento sorsero capi organici. Il clero era sparito, anche se i maggiorenti clericali si fecero intermediari tra le masse e il governo, ma solo per calmare e battere le masse.
 
Ma ancora più significativo a dimostrazione dell'autonomia dei moti contadini è quanto ci dice lo Zangheri sugli avvenimenti di San Giovanni in Persiceto, ove più forte era stata la propaganda del clero dopo l'unità (vari preti erano stati inviati al confino) e dove i clericali prepararono addirittura i moti nella notte dell'Epifania, andando a propagandare la manifestazione di casolare in casolare. Si può dire che veramente più che in ogni altro luogo i moti di S. Giovanni fossero sorti inizialmente sotto la direzione dei clericali. All'alba del 7 gennaio i contadini muovono da tutte le campagne al rintocco incessante delle campane; portano con sé parroci, padroni e agenti di campagna. Vengono da tutto il circondario e per via spezzano i fili del telegrafo: si parla di 6.000 manifestanti che invadono il paese. La giunta comunale promette l'abolizione delle tasse e viene così raggiunto l'obbiettivo voluto dai clericali. Ma i contadini hanno ormai preso in mano la manifestazione e non desistono: mentre padroni, fattori e clero si ritirano in disparte, le masse popolari occupano il Comune, vengono defenestrate carte e mobili e la sommossa prende fisionomia classista con l'attacco ed il saccheggio alle case dei ricchi. Le masse contadine e proletarie del paese, armate di fucili e di strumenti rurali, invadono le locande, le rivendite di sale e tabacchi e le case dei ricchi, saccheggiano, mangiano, si ubriacano, devastano la Pretura e l'Ufficio del Registro, bruciano in piazza tutte le carte dell'oppressione al grido di «abbasso il macinato» o «Viva Pio IX», mentre l'arciprete e i parroci si rinchiudono nella Collegiata. I carabinieri sono asserragliati alla stazione e solo l'arrivo nel pomeriggio di un battaglione di bersaglieri riporterà l'ordine con l'eccidio di 20 popolani e con numerose centinaia di arresti.
 
È stato detto sinora che i moti del macinato furono moti essenzialmente contadini. Sarebbe più giusto dire che furono moti paesani e cioè di tutte le classi subordinate delle campagne e dei paesi (47) (non delle città, di cui diremo in seguito). Infatti insieme ai braccianti, ai mezzadri ed ai piccoli proprietari si mossero e insorsero anche gli artigiani e i piccoli borghesi dei paesi, che, spinti dalla tassa odiosa, si allearono con le masse contadine nella lotta contro lo Stato borghese. Basta pensare che in Emilia, su 2.172 imputati per i moti, insieme ai 569 mezzadri ed ai 1.234 braccianti (vera avanguardia del moto) vi sono 261 artigiani e 108 piccoli proprietari. Tra i 10 uccisi riconosciuti (dei 20 trucidati dalla truppa a S. Giovanni in Persiceto) vi sono, insieme a 2 braccianti ed a 3 contadini, anche 2 calzolai, un fornaio e un chiudarolo oltre ad una donna. Fra i 500 arrestati 72 sono braccianti, 42 contadini 2 possidenti e varie centinaia sono facchini, muratori, falegnami, artigiani e garzoni. Ciò dimostra l'esistenza di un fortissimo elemento di malcontento e di rottura, oltre che nel mondo contadino, anche tra le masse proletarie dei piccoli centri.
 
Su questi ceti, che affiancarono le masse delle campagne, molto avrebbe potuto una seria direzione dei dirigenti «democratici». Ed è proprio qui che viene alla luce il tradimento degli ideali se non popolari, almeno populisti, dei democratici mazziniani. Qui affiora il loro limite di classe, la loro essenza piccolo borghese che ne fece un alleato importante, ed anzi necessario, della grossa borghesia.
 
Se le città italiane in quei giorni non si mossero, di loro sarà la colpa. Quando, ai primi di gennaio, più forte era il moto nelle campagne bolognesi e tutte le masse contadine e paesane erano in movimento e si aspettava che la capitale Bologna si allineasse nell'insurrezione, Bologna non si mosse. Un anonimo paesano di Budrio, uno dei tanti che, armati di bastoni, erano stati dispersi il 5 gennaio dalle cariche della cavalleria e dalla fanteria che aveva attaccato alla baionetta, scrisse nella notte sulle mura della città: «Bologna calogna».
 
Nel rapporto del Prefetto di Bologna al Ministro degli Interni del 18 gennaio 1869 si legge: «Nei giorni 3, 4, 5 e 6 gennaio, quando le campagne erano in uno stato di vera insurrezione e i contadini armati si riunivano a migliaia nelle vicinanze di Bologna, e la città era sguarnita di truppe, la più piccola dimostrazione a Bologna avrebbe avuto conseguenze incalcolabili». Eppure la piccola borghesia e gli strati popolari a Bologna erano forti e ben diretti dal Partito d'Azione, come era stato dimostrato otto mesi prima dallo sciopero generale contro l'istituzione dell'imposta di Ricchezza Mobile, sciopero che aveva paralizzato per due giorni la città trascinando nell'azione di massa operai, artigiani, borghesia, uomini di cultura e logge massoniche (48).La verità è che, sotto il pretesto della paura della vandea contadina, i piccoli borghesi e gli intellettuali mazziniani trovarono di fronte ai moti del macinato i limiti di classe della loro azione che era stata sul piano agitatorio e propagandistico anti-governativo contraria alla istituzione della tassa; ma che non sapeva allinearsi e ancor meno dirigere l'insurrezione contadina. Anzi, di fronte alla lotta di classe dei contadini, non solo non vollero muoversi in loro aiuto, ma si schierarono nella alleanza di classe contro questi moti, combattendoli e cercando di sedarli, quali alleati necessari della grossa borghesia liberale. Il tentativo della guerra per bande fatto dai fratelli Manini devesi considerare, come giustamente lo chiama il Manzotti, eretico ed unico, come del resto dimostra la stessa lettera che il Mazzini indirizzò subito ad Angelo Manini perché non partecipasse al movimento e lo facesse cessare.
 
Nel Rapporto del Prefetto di Bologna, parlando dei mazziniani e dopo aver accennato agli intendimenti del Pais direttore dell'«Amico del Popolo» di approfittare dei moti contadini, si aggiunge: «Fortunatamente i consigli del Pais non furono seguiti e ciò si deve al buon senso del Calderi e del Ceneri, i quali capirono che un movimento iniziato dai contadini non poteva avere altra forma e altro risultato che una reazione clericale...». Del resto lo stesso avvenne alla Camera, ove il Miceli dichiarò che questi «era d'accordo con Vincenzo Caldesi e il prof. Ceneri ed altri democratici di non far nulla che potesse crescere l'incendio che già divampava» (le citazioni sono riprese dallo Zangheri). Qualche sporadico esempio contrario (come la banda Manini già citata, ed i manifesti repubblicani ad Ancona, Pavia e Milano contro il macinato, per la rivoluzione e la repubblica) non fa che confermare tale dato e che cioè, malgrado la situazione rivoluzionaria nelle campagne che pure trascinò alcuni elementi di borghesia radicale più vicini alle masse popolari, i dirigenti repubblicani frenarono i loro gregari e diressero le masse da loro guidate su posizione di rinuncia e quindi di alleanza passiva con la grossa borghesia. I repubblicani quindi in generale «rimasero fermi, confermando l'impotenza loro a fornire una guida democratica ai contadini». Il solito Mazzini, riferisce il Pomelli (citato dal Rosselli), intervenne nel dibattito e «scrisse lettere che a me furono fatte leggere, nelle quali addirittura combatteva questo moto e calorosamente raccomandava di non parteciparvi, ma anche di cercare di farlo cessare».
 
Veramente significativa è la lettera (riportata dallo Zangheri) che Quirico Filopanti scrisse il 10 gennaio ad Antonio Giordani, dove ogni polemica scherzosa nei confronti di lui «proprietario e governativo» e quindi «malva » veniva accantonata e paurosamente si chiedevano sue notizie a seguito dei «brutti fatti dei contadini a Cento e a Persiceto che avevano creato codesto infausto trambusto» e «questi spregi che sono immeritatamente toccati a loro» (ai «signori della Giunta») «e all'Italia». Nella stessa lettera, nell'indagare le cause dei moti, il Filopanti fa sintomaticamente ricadere la colpa in primo luogo sui contadini che hanno perpetrato questi atti di vandalismo, poscia sul Governo che ha istituito la tassa e solo in ultimo sui proprietari che non hanno cercato di istruire ed innalzare la società contadina: cioè prende partito contro le masse contadine e si limita a svolgere una blanda polemica nell'ambito della classe borghese circa il modo di svolgere una giusta politica classista.
 
Il Sud Italia non aveva partecipato in massa alle lotte per il macinato, o quanto meno si era mosso dopo, quando i moti al Nord e al Centro stavano declinando: così è stato detto e ripetuto. Anche questa è una affermazione tutta da rivedere alla luce di nuove ricerche.
 
Intanto possiamo affermare che, quando le masse del meridione l'8, 9 e 10 gennaio si mossero, il moto era sempre nel pieno vigore nel resto d'Italia e i moti del Meridione si saldarono a quelli del Centro e del Nord; infatti dall'8 al 15 gennaio (giorno in cui i moti rifluirono in tutta Italia) per una intera settimana tutta la penisola in maniera unitaria insorse in centinaia di sommosse locali e decine di proletari caddero sotto il piombo del governo reazionario.
 
Il Sereni afferma, e ciò in parte è vero, che i moti del macinato erano anche una conseguenza del passaggio da forme arretrate di economia agricola a forme tipicamente capitalistiche (ciò appunto vale prevalentemente per il Nord) che creava malcontento e generava la mentalità dell'espropriato nelle masse. È ancor più vero, ma sempre in parte, che la rivolta sociale-politica, come afferma il Rosselli, si era già avuta nel Sud col brigantaggio dal 1860 al 1866 e con gli otto giorni della rivolta di Palermo del 1866, ambedue duramente repressi. Ma tutto ciò non impedì che il Sud si allineasse, come contraccolpo, ma anche in maniera autonoma, al movimento del resto d'Italia. Il che significa che esisteva anche nel Sud una situazione di rottura in atto contro lo Stato borghese e che vi erano motivi di malcontento e di rottura unitaria. Ma, ripetiamo, tale affermazione dovrà essere convalidata o modificata da successivi studi locali sui moti del macinato nel Meridione. A questo proposito ricorderemo, per la luce nuova gettata sugli avvenimenti, la ricerca del Santarelli su Ancona (città simile per situazione e ambiente alle città meridionali) in cui si accenna al moto della città del 22 marzo 1869, e cioè ben due mesi dopo i moti su scala nazionale.
 
L'ultimo grande assente di quei giorni fu il primo movimento socialista italiano: intendiamo parlare del movimento anarchico.
 
Gli internazionalisti, che durante quegli anni si erano andati organizzando in piccoli gruppi in varie località, rimasero completamente estranei alla rivolta; e non poteva essere diversamente. Malgrado ogni loro predicazione rivoluzionaria per l'abbattimento dello Stato borghese, malgrado ogni ideologizzazione sulla carica rivoluzionaria dei contadini italiani, malgrado l'adamantina dirittura morale di alcuni loro dirigenti, gli anarchici rimasero prigionieri della loro classe: borghesi per costituzione e per convinzione (quasi tutti provenienti da famiglie borghesi ed alcuni anche dell'alta borghesia) erano pronti a farsi ammazzare in una disperata sommossa, a sollecitare congiure individuali e settarie; ma, non solo non riuscivano a stabilire alcun legame con le masse, ma addirittura neppure a comprendere le lotte e ancor più le sommosse «spontanee» delle masse stesse.
 
E infatti durante i moti del macinato i nascenti gruppi di internazionalisti niente fecero né per organizzare, né per porsi alla testa, anche se solo in qualche singola località, dello spontaneo moto contadino. Piccoli borghesi spostati o intellettuali di formazione aristocratica, niente compresero di una rivolta tipicamente contadina e cioè sconosciuta per il loro mondo, anche se evocata nei loro libri. La realtà delle classi subordinate era fuori di loro; e non si ha un solo caso conosciuto di partecipazione ai moti.
 
I contadini erano così rimasti soli insieme ai proletari dei paesi: combattuti dallo Stato nemico, abbandonati e osteggiati dalla borghesia radicale, divisi dai popolani delle città, abbandonati a loro stessi dai clericali che li avevano aizzati, non compresi da tutti gli altri strati cittadini e ignorati di fatto dai primi internazionalisti.
 
Ma da questa loro solitudine i contadini italiani appresero i primi rudimenti della lotta di classe, tentarono in forma embrionale la loro autonomia anche se al grido di «Viva la religione» e al richiamo delle campane a stormo. In quelle settimane avevano, nel vivo della lotta, iniziato il primo tentativo autonomo di presa di coscienza che ne farà, qualche decennio dopo, gli alleati necessari della classe operaia. Gramsci infatti vedrà nella questione contadina del Centro e Nord-Italia il secondo elemento importante di rottura (insieme al problema meridionale) di uno degli anelli fondamentali del sistema capitalistico. L'Italia della borghesia si stava formando attraverso la creazione del proprio Stato e di un proprio mercato nazionale. I moti economico-sociali del macinato unificavano la borghesia italiana; ma forgiavano e unificavano anche la sua classe antagonista.
 
Da allora, anche se in anodo inconscio, le masse contadine del sud, del centro e del nord Italia si troveranno per la prima volta unite nella lotta comune contro lo Stato nemico da battere, dalla cima delle Alpi all'ultima insenatura della Sicilia, gettando le basi della lotta di classe unitaria in attesa dell'ingresso nella lotta del proletariato industriale di qualche decennio successivo. […]
 
Note
36) Secondo quelli più completi del Manzotti si ebbero per la sola Emilia 34 contadini uccisi e 55 feriti tra contadini e militari.
37)Secondo notizie del Sabbatini, che riporta una corrispondenza di un giornale clericale, la manifestazione avviene al grido di abbasso «il macinato», «abbasso i signori» e si affigge sul muro della chiesa un manifesto manoscritto. La calma viene riportata dal parroco che «con autorevoli e gravi parole ammansò quei disgraziati, lacerò dal muro gli affissi e seppe vincere quei furenti».
38) A Campegine un centinaio di popolani armati di strumenti rurali e di alcune pistole assaltano il mulino e fanno retrocedere i granatieri in Municipio ove li assediano per 3 ore sotto la guida di un ex sergente dell'esercito estense. La sera, un distaccamento di soldati giunti di rinforzo, spara sui popolani, ne uccide sette, ne ferisce molti e obbliga gli altri alla fuga; poi seguono 29 arresti. A Boretto sul Po circa 400 contadini, al grido di «abbasso il macinato», «Viva la Repubblica», «Viva Francesco V», «Viva il Papa», obbligano il Sindaco a far aprire i mulini e a far macinare senza pagar tasse. Analoghe manifestazioni avvengono a San Polo e a Codelbosco di Sotto.
39) In questa provincia il 1° gennaio si hanno manifestazioni a Ville di Marano, Malandriano, Porporano e Mariano, Naviglio, Taro, Collecchiello, Montechiarugolo, Cortile S. Martino, S. Donato D'Enza, Merore, Traversetolo e Felino. In quest'ultima località dei carabinieri, venuti a conflitto con i contadini, ne uccidono tre, mentre il brigadiere dei C.C. rimane ferito da arma da taglio.
40) Il 2 gennaio a Medicina la folla, riunita dalle campane a stormo, costringe il Municipio a far macinare senza tassa. A Castenaso si prendono in ostaggio il segretario comunale e il cursore. Manifestazioni si hanno a S. Lazzaro, S. Tommaso, Quaderna e S. Giorgio. A San Donnino si brucia l'Archivio, mentre a Bentivoglio si imprigiona il Sindaco e si percuotono vari carabinieri.
41) Lo stesso giorno avvengono torbidi a Sorbolo, Mezzano, Noceto, Sissa, S. Secondo, Trecasali, Fontanellato, Collecchio e Colorno. Altri assembramenti e tumulti si hanno a Lunghirano, Neviano, Lesignano e Pellegrino P.
42) A Portogruaro (Venezia) i contadini tumultuano al grido di «a morte i signori»,«Viva Pio IX», «Viva la Religione».
43) Il Ministro delle Finanze Cambray Digny, al quale telegrafano i Prefetti spesso suggerendo un momentaneo accantonamento della esecutorietà della legge, risponde che la legge deve entrare in vigore senza esitazioni. Ben altro atteggiamento di fronte alla legge assume lo stesso Ministro negli stessi giorni allorché giunge notizia di un fatto di contrabbando accaduto a Napoli. In data 12 gennaio tale Bennati, Direttore Generale della Gabella di Napoli, gli telegrafa: «Sul fatto contrabbando scoperto nella fregata 'Indipendenza' compromessi circa 70 basse persone Casa Regia. D'accordo Prefetto vorrei sopire processo verso pagamento L. 2.000 che rappresenta poco meno metà della multa legale. Domando facoltà autorizzazione», il Cambray Digny risponde con altro telegramma: «Sta bene».
44) Lo stesso giorno sono in sommossa S. Pietro in Casale, Argelato, Lamola e Bazzano dove i pali telegrafici vengono rotti in più punti.
45) Il Prefetto di quella città riferisce circa i tumulti del giorno 8 contro il municipio e il macinato al Ministro Cambray-Digny in questi termini: « ...cittadini, onesti divisi... non posso contare che sulla truppa... A Mirabello non pagano tasse, al momento non posso spedire un uomo e sulla G.N. c'è poco da sperare».
46) Qua e là continuano però per tutto il mese ad accendersi focolai e tumulti quali quello di Villafranca (Piemonte) di cui è rimasta memoria in un telegramma del Prefetto di Torino al Cambray-Digny del 27 gennaio: «Ieri sera in Villafranca rivolta per tassa macinato di 500 circa persone alcune armate di falcetti, da Pinerolo eransi in precedenza spediti carabinieri cavalleria circa 80 uomini, feriti un carabiniere e alcuni dei tumultuanti da arma da taglio. Prefetto spedite 2 compagnie fanteria - fatti vari arresti - altri seguiranno giornata contro capi istigatori rivolta... Fra arrestati dimostrazioni ieri sera vi è certo Mongini Stefano volontario amministrazione gabelle constatato e confesso promotore e istigatore dimostrazioni deferito autorità giudiziaria».
47) Basti pensare che la fatturazione del pane in casa riguardava a quell'epoca non solo i contadini, ma anche gli abitanti dei paesi.
48) Anzi quel periodo è costellato da scioperi di operai della nascente industria ancora sotto l'influenza mazziniana da Torino a Pavia, da Livorno, a Milano, Pistoia, ecc.